Orlando innamorato/Libro secondo/Canto trentesimoprimo

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Libro secondo

Canto trentesimoprimo

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Libro secondo - Canto trentesimo Libro terzo

 
1   Il sol girando in su quel celo adorno
     Passa volando e nostra vita lassa,
     La qual non sembra pur durar un giorno
     A cui senza diletto la trapassa;
     Ond’io pur chieggio a voi che sete intorno,
     Che ciascun ponga ogni sua noia in cassa,
     Ed ogni affanno ed ogni pensier grave
     Dentro ve chiuda, e poi perda la chiave.

2   Ed io, quivi a voi tuttavia cantando,
     Perso ho ogni noia ed ogni mal pensiero,
     E la istoria passata seguitando,
     Narrar vi voglio il fatto tutto intiero,
     Ove io lasciai nel bosco il conte Orlando
     Con Feraguto, quel saracin fiero,
     Qual, come gionse in su l’acqua corrente,
     Orlando il ricognobbe amantinente.

3   Era in quel bosco una acqua di fontana;
     Sopra alla ripa il conte era smontato,
     Ed avea cinta al fianco Durindana,
     E de ogni arnese tutto quanto armato.
     Or così stando in su quella fiumana,
     Gionse anche Feragù molto affannato,
     Di sete ardendo e d’uno estremo caldo
     Per la battaglia che avea con Ranaldo.

4   Come fu gionto, senza altro pensare
     Discese de lo arcione incontinente;
     Trasse a sé l’elmo e, volendo pigliare
     De l’onda fresca al bel fiume lucente,
     O per la fretta o per poco pensare
     L’elmo gli cadde in quella acqua corrente,
     Ed andò al fondo sin sotto l’arena:
     Di questo Feraguto ebbe gran pena.

5   L’elmo nel fondo basso era caduto,
     Né sa quel saracin ciò che si fare,
     Se non in vano adimandare aiuto
     E al suo Macone starsi a lamentare.
     In questo Orlando l’ebbe cognosciuto
     Al scudo e a l’arme che suolea portare;
     Ed appressato a lui in su la riviera,
     Lo salutò parlando in tal maniera:

6   - Chi te puote aiutare, ora te aiute,
     Ed usi verso te tanta pietate,
     Che non te mandi a l’anime perdute,
     Essendo cavallier di tal bontate.
     Così te dricci alla eterna salute
     Cognoscimento de la veritate;
     Nel ciel gioia te doni e in terra onore,
     Come tu sei de’ cavallieri il fiore. -

7   Alciando Feraguto il guardo altiero
     A quel parlar cortese che ho contato,
     Incontinente scorto ebbe il quartiero,
     E ben se tenne alora aventurato,
     Poi che la cima de ogni cavalliero
     Aveva in quel boschetto ritrovato,
     Parendo a lui de averlo a sua balìa
     O de pigliarlo o farli cortesia.

8   E fatto lieto, dove era dolente
     Per quel bello elmo che è caduto al fondo,
     - Non vo’ - disse - dolermi per nïente
     Più mai di caso che mi venga al mondo;
     Perché, dove io stimai de esser perdente,
     Più contento mi trovo e più iocondo
     Che esser potesse mai de alcuno acquisto,
     Dapoi che ’l fior d’ogni barone ho visto.

9   Ma dimmi, se gli è licito a sapere:
     Perché nel campo, ove è battaglia tanta,
     Non te ritrovi a mostrar tuo potere,
     Dove Ranaldo sol de onor si vanta?
     Sopra di me ben l’ha fatto vedere,
     Che son fatato dal capo alla pianta
     Per tutti e membri, fora che un sol loco;
     Ma ciò giovato me è nïente, o poco.

10 Né credo che abbia il mondo altro barone
     Qual superchi Ranaldo di valore,
     Benché per tutto sia la opinïone
     La qual ti tien di lui superïore;
     Ma se veder potessi il parangone
     E provar qual di voi fosse il minore
     Di fortezza, destrezza e de ardimento,
     E poi morissi, io moriria contento.

11 E certo che io te volsi disfidare
     Come io te viddi ed ebboti compreso,
     Ché ogn’altra cosa fabula mi pare,
     Poiché dal fio de Amon me son diffeso. -
     Odendo Orlando questo ragionare,
     De ira e de sdegno fu nel core acceso,
     Onde rispose: - E’ si può dir con vero
     Ch’el fio de Amone è prodo cavalliero.

12 Ma quel parlare e lunga cortesia
     Qual tanto loda alcun fuor di misura,
     Ne offende l’onor de altri in villania.
     Se tu tenessi in capo l’armatura,
     In poco d’ora si dimostraria
     Quel parangon de che hai cotanta cura;
     Se il valor di Ranaldo ti è palese,
     Me provaresti, e forse alle tue spese.

13 Poscia che stracco sei di gran travaglia,
     Non ti farebbe adesso adispiacere,
     Ché tornar voglio in campo alla battaglia,
     E, mal per qual che sia, farò vedere
     Se la mia spada al par d’una altra taglia. -
     Così parlando il conte, al mio parere,
     Con molta fretta ed animo adirato
     Sopra al destrier salì de un salto armato.

14 Rimase Feraguto alla foresta,
     Che era affannato, come io ve contai,
     Ed era disarmato de la testa,
     E penò poi ad aver l’elmo assai.
     Ma il conte Orlando menando tempesta
     Via va correndo, e non se posa mai
     Sin che fu gionto a ponto in quelle bande
     Ove è la zuffa e la battaglia grande.

15 Come io ve dissi nel passato giorno,
     Re Carlo ed Agramante alla frontiera
     Avea ciascuno e suoi baroni intorno:
     Battaglia non fu mai più orrenda e fiera.
     Non vi è chi voglia di vergogna scorno,
     Ma ciascun vôl morir più volentiera
     E che sia il spirto e l’animo finito,
     Che abandonar del campo preso un dito.

16 Le lancie rotte e’ scudi fraccassati,
     Le insegne polverose e le bandiere,
     E’ destrier morti e’ corpi riversati
     Facean quel campo orribile a vedere;
     E’ combattenti insieme amescolati,
     Senza governo on ordine de schiere,
     Facean romore e crido sì profondo,
     Come cadesse con ruina il mondo.

17 Lo imperator per tutto con gran cura
     Governa, combattendo arditamente,
     Ma non vi giova regula o misura:
     Suo comandar stimato è per nïente;
     E benché egli abbia un cor senza paura,
     Pur mirando Agramante e sua gran gente,
     De retirarse stava in gran pensiero,
     Quando cognobbe Orlando al bel quartiero.

18 Correndo venìa il conte di traverso,
     Superbo in vista, in atto minacciante.
     Levosse il crido orribile e diverso,
     Come fu visto quel segnor de Anglante;
     E se alcun forse avea l’animo perso,
     Mirando il paladin se trasse avante;
     E ’l re Carlon, che ’l vidde di lontano,
     Lodava Idio levando al cel le mano.

19 Or chi contarà ben l’assalto fiero?
     Chi potrà mai quei colpi dessignare?
     Da Dio l’aiuto mi farà mestiero,
     Volendo il fatto aponto racontare;
     Perché ne l’aria mai fu trono altiero,
     Né groppo di tempesta in mezo al mare,
     Né impeto d’acque, né furia di foco,
     Qual l’assalir de Orlando in questo loco.

20 Grandonio di Volterna, il fier gigante,
     Gionto era alora alla battaglia scura;
     Con un baston di ferro aspro e pesante
     Copria de morti tutta la pianura.
     Questo trovosse al conte Orlando avante,
     E ben gli bisognava altra ventura,
     Ché tal scontro di lancia ebbe il fellone,
     Che mezo morto uscì fuor de l’arcione.

21 Quel cadde tramortito alla foresta;
     Il conte sopra lui non stette a bada,
     Ma trasse il brando e mena tal tempesta
     Come a ruina lo universo cada,
     Fiaccando a cui le braccia, a cui la testa.
     Non si trova riparo a quella spada,
     Né vi ha diffesa usbergo, piastra, o maglia,
     Ché omini e l’arme a gran fraccasso taglia.

22 Cavalli e cavallieri a terra vano
     Ovunque ariva il conte furïoso.
     Ecco tra gli altri ha visto Cardorano,
     Quel re di Mulga, che è tutto peloso.
     Il paladin il gionse ad ambe mano,
     E parte il mento e ’l collo e ’l petto gioso;
     Lui cade de l’arcion morto di botto,
     Il conte il lascia e segue il re Gualciotto:

23 Il re Gualciotto di Bellamarina,
     Qual ben fuggia da lui più che di passo;
     E ’l conte fra la gente saracina
     Segue lui solo e mena gran fraccasso,
     Ché porlo in terra al tutto se destina;
     Ma avanti se gli oppose Dudrinasso,
     A benché dir non sappia in veritate
     Se sua sciagura fosse o voluntate.

24 Costui ch’io dico, è re de Libicana.
     Un volto non fu mai cotanto fiero,
     Larga la bocca avea più de una spana;
     Grosso e membruto e come un corbo nero.
     Orlando lo assalì con Durindana
     Ed ispiccolli il capo tutto intiero;
     Via volò l’elmo, e dentro avia la testa:
     Già per quel colpo il conte non s’arresta,

25 Perché adocchiato avea Tanfirïone,
     Re de Almasilla, orrenda creatura,
     Che esce otto palmi e più sopra a l’arcione,
     Ed ha la barba insino alla cintura.
     A questo gionse il figlio de Melone,
     E ben gli fece peggio che paura,
     Perché ambedue le guanze a mezo ’l naso
     Partì a traverso il viso a quel malvaso.

26 Né a sì gran colpi in questo assalto fiero
     Giamai se allenta il valoroso conte.
     Più non se trova re né cavalliero
     Qual pur ardisca di guardarlo in fronte,
     Quando vi gionse il giovane Rugiero,
     E vidde fatto di sua gente un monte:
     Un monte rasembrava più né meno,
     Tutto di sangue e corpi morti pieno.

27 Cognobbe Orlando a l’insegna del dosso,
     A benché a poco se ne discernia,
     Ché il quarto bianco quasi è tutto rosso,
     Pel sangue de’ Pagan che morti avia.
     Verso del conte il giovane fu mosso:
     Ben vi so dir che ormai de vigoria,
     De ardire e forza e di valore acceso,
     Una sol dramma non vi manca a peso.

28 E se incontrarno insieme a gran ruina:
     Tempesta non fu mai cotanto istrana
     Quando duo venti in mezo la marina
     Se incontran da libezio a tramontana.
     De le due spade ogniuna era più fina:
     Sapeti ben qual era Durindana,
     E qual tagliare avesse Balisarda,
     Che fatasone e l’arme non riguarda.

29 Per far perire il conte questo brando
     Fu nel giardin de Orgagna fabricato:
     Come Brunello il ladro il tolse a Orlando,
     E come Rugier l’ebbe, è già contato,
     Più non bisogna andarlo ramentando;
     Ma seguendo l’assalto incominciato,
     Dico che un sì crudele e sì perverso
     Non fu veduto mai ne l’universo.

30 Come loro arme sian tela di ragna,
     Tagliano squarci e fanno andare al prato.
     Di piastre era coperta la campagna,
     Ciascadun de essi è quasi disarmato,
     E l’un da l’altro poco vi guadagna:
     Sol di colpi crudeli han bon mercato;
     E tanto nel ferir ciascun s’affretta,
     Che l’una botta l’altra non aspetta.

31 Sopra de Orlando il giovane reale
     Ad ambe mano un gran colpo distese,
     E spezzò l’elmo dal cerchio al guanzale,
     Ché fatason né piastra lo diffese.
     Vero che al conte non tocca altro male,
     Come a Dio piacque; ché il colpo discese
     Tra la farsata aponto e le mascelle,
     Sì che lo rase e non toccò la pelle.

32 Orlando ferì lui con tanta possa,
     Che spezzò il scudo a gran destruzïone,
     Né lo ritenne nerbo o piastra grossa,
     Ma tutto lo partì sino a lo arcione;
     E fuor discese il colpo ne la cossa,
     Tagliando arnese ed ogni guarnisone:
     La carne non tagliò, ma poco manca,
     Ché il celo aiuta ogni persona franca.

33 Fermate eran le gente tutte quante
     A veder questi duo sì ben ferire;
     Ed in quel tempo vi gionse Atalante,
     Qual cercava Rugiero, il suo disire;
     E come visto l’ebbe a sé davante
     Per quel gran colpo a risco de morire,
     Subito prese tanto disconforto,
     Che quasi dal destrier cadde giù morto.

34 Incontinente il falso incantatore
     Formò per sua mala arte un grande inganno
     E molta gente finse, con romore,
     Che fanno a Cristïan soperchio danno.
     Nel mezo sembra Carlo imperatore
     Chiamando: - Aiuto! aiuto! - con affanno:
     Ed Olivier legato alla catena,
     Un gran gigante trasinando il mena.

35 Ranaldo a morte là parea ferito,
     Passato de un troncone a mezo il petto,
     E cridava: - Cugino, a tal partito
     Me lasci trasinar con tal dispetto? -
     Rimase Orlando tutto sbigotito,
     Mirando tanto oltraggio al suo cospetto,
     Poi tutto il viso tinse come un foco
     Per la grande ira, e non trovava loco.

36 A gran roina volta Brigliadoro,
     E Rugiero abandona e la battaglia,
     Né prende al speronare alcun ristoro.
     Avanti ad esso fugge la canaglia,
     Menando li pregioni in mezo a loro,
     Che gli ha de intorno fatto una serraglia;
     E proprio sembra che li porti il vento,
     Tanta è la forza de lo incantamento!

37 Rugier, poiché partito è il paladino,
     Rimase assai turbato ne la mente;
     Prese una lancia e, rivolto Frontino,
     Con molta furia dà tra nostra gente,
     E sopra al campo ritrovò Turpino.
     Né vespro o messa a lui valse nïente,
     Né paternostri on altre orazïone,
     Ché a gambe aperte uscì fuor de l’arcione.

38 Rugier lo lascia e a gli altri se abandona,
     Come dal monte corre il fiume al basso;
     Colse nel petto al duca di Baiona,
     E tutto lo passò con gran fraccasso.
     Re Salamon, che in capo ha la corona,
     Andò col suo destrier tutto in un fasso;
     Dà a Belenzero, Avorio, Ottone e Avino:
     Tra lor non fu vantaggio de un lupino;

39 Ché tutti quattro insieme nel sabbione
     Se ritrovarno a dar de’ calci al vento.
     Rugier tutti gli abatte, el fier garzone,
     E sempre cresce in forza ed ardimento;
     Poi riscontrò Gualtier da Monlïone,
     E fuor di sella il caccia con tormento.
     Non fu veduto mai cotanta lena:
     Quanti ne trova, al par tutti li mena.

40 Già gli altri saracin, che prima ascosi
     Per la tema de Orlando eran fuggiti,
     Or più che mai ritornano animosi,
     E sopra al campo se mostrano arditi.
     Rugier fa colpi sì meravigliosi,
     Che quasi sono e nostri sbigotiti,
     Né posson contrastare a tanta possa;
     La gente a le sue spalle ognior se ingrossa.

41 Però che ’l re Agramante e Martasino
     Dopo Rugiero entrarno al gran zambello,
     Mordante e Barigano e ’l re Sobrino,
     Atalante il mal vecchio e Dardinello,
     Mulabuferso, il franco saracino;
     E dietro a tutti stava il re Brunello,
     Benché conforta ogniom che avanti vada,
     Per governar qualcosa che gli cada.

42 Rugier davanti fa sì larga straza
     Che non bisogna a lor troppa possancia,
     Né fuor del fodro ancor la spada caza,
     Però che resta integra la sua lancia.
     Ben vi so dir che Carlo oggi tramaza,
     E fia sconfitta la corte di Francia.
     Ma non posso al presente tanto peso:
     Nel terzo libro lo porrò disteso.

43 Prima vi vo’ contar quel che avenisse
     Del conte Orlando, il quale avea seguito
     Quel falso incanto, sì come io vi disse,
     Ove sembrava Carlo a mal partito.
     Parea che avanti a lui ciascun fuggisse
     Tremando di paura e sbigotito,
     Sin che fôr gionti al mare in su l’arena,
     Poco lontani alla selva de Ardena.

44 Di verde lauro quivi era un boschetto
     Cinto d’intorno de acqua di fontana,
     Ove disparve il popol maledetto:
     Tutto andò in fumo, come cosa vana.
     Ben se stupitte il conte, vi prometto,
     Per quella meraviglia tanto istrana,
     E sete avendo per la gran calura,
     Entrò nel bosco in sua mala ventura.

45 Come fu dentro, scese Brigliadoro
     Per bere al fonte che davanti appare;
     Poi che legato l’ebbe ad uno alloro,
     Chinosse in su la ripa a l’onde chiare.
     Dentro a quell’acqua vidde un bel lavoro,
     Che tutto intento lo trasse a mirare:
     Là dentro de cristallo era una stanza
     Piena di dame: e chi suona, e chi danza.

46 Le vaghe dame danzavano intorno,
     Cantando insieme con voce amorose,
     Nel bel palagio de cristallo adorno,
     Scolpito ad oro e pietre prezïose.
     Già se chinava a l’occidente il giorno,
     Alor che Orlando al tutto se dispose
     Vedere il fin di tanta meraviglia,
     Né più vi pensa e più non se consiglia;

47 Ma dentro a l’acqua sì come era armato
     Gettossi e presto gionse insino al fondo,
     E là trovosse in piede, ad un bel prato:
     Il più fiorito mai non vidde il mondo.
     Verso il palagio il conte fu invïato,
     Ed era già nel cor tanto giocondo,
     Che per letizia s’amentava poco
     Perché fosse qua gionto e di qual loco.

48 A lui davante è una porta patente,
     Qual d’oro è fabricata e di zafiro,
     Ove entrò il conte con faccia ridente,
     Danzando a lui le dame atorno in giro.
     Mentre che io canto, non posa la mente,
     Ché gionto sono al fine, e non vi miro;
     A questo libro è già la lena tolta:
     Il terzo ascoltareti un’altra volta.

49 Alor con rime elette e miglior versi
     Farò battaglie e amor tutto di foco;
     Non seran sempre e tempi sì diversi
     Che mi tragan la mente di suo loco;
     Ma nel presente e canti miei son persi,
     E porvi ogni pensier mi giova poco:
     Sentendo Italia de lamenti piena,
     Non che or canti, ma sospiro apena.

50 A voi, legiadri amanti e damigelle,
     Che dentro ai cor gentili aveti amore,
     Son scritte queste istorie tanto belle
     Di cortesia fiorite e di valore;
     Ciò non ascoltan queste anime felle,
     Che fan guerra per sdegno e per furore.
     Adio, amanti e dame pellegrine:
     A vostro onor di questo libro è il fine.