Osservazioni sulla morale cattolica/Appendice al capitolo terzo
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APPENDICE AL CAPITOLO TERZO
DELLE OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA.
Nella prima edizione, si contenevano alcuni cenni intorno a questo sistema, per ciò che riguarda la sua applicazione, o piuttosto la sua applicabilità, alla pratica. Ma erano cenni rapidi e leggieri; e essendo questo il più accreditato tra i sistemi che vogliono distinta affatto, e separata per principio la morale dalla teologia, abbiamo creduto che non sarebbe fuori di proposito di farci sopra qualche osservazione più estesa. Ci limiteremo però, per quanto sarà possibile, a considerarlo da quell’aspetto solo; perchè, da una parte, il suo vizio più essenziale e più immediato, cioè l’assoluta mancanza di moralità, è già stato messo da altri in piena luce; e dall’altra, il chiarirlo inapplicabile (logicamente, s’intende) è un’altra maniera di dimostrarlo falso.
Questo sistema pone che la vera utilità dell’individuo s’accorda sempre con l’utilità generale, dimanierachè l’uomo, giovando agli altri, procaccia il maggior utile a sè stesso. E da ciò vuol che si deva ricavare la regola morale delle deliberazioni umane. Il nostro assunto principale è d’esaminar se si possa. Supponiamo dunque, prescindendo da ogni altra considerazione, un uomo persuaso della verità di questo principio, e disposto sinceramente a uniformarcisi nella pratica; supponiamolo, dico, alla scelta d’un’azione, in una cosa dove sia interessata la moralità. Qual è il criterio che il sistema gli potrà somministrare per far questa scelta.
Fatto non già unico, ma notabile certamente i due criteri invece d’uno non dirò somministra, ma implica questo sistema. Dico due criteri d’uguale autorità, e independenti l’uno dall’altro; giacchè, se l’interesse individuale s’accorda sempre con l’interesse generale, è evidente che trovarne uno è averli trovati l’uno e l’altro; e che, per conseguenza, farebbe una fatica assurdamente superflua chi, dopo essersi persuaso che l’azione intorno alla quale delibera sarà utile, a lui, si mettesse, per assicurarsi della moralità di essa, a cercare se sarà utile anche agli altri, e viceversa. Ma quest’abbondanza apparente non è, nè potrebb’essere altro, che una mancanza reale. Ogni duplicità non ha la sua ragione e la sua concordia, che in un’unità superiore, la quale in questo sistema manca affatto, anzi n’è esclusa; giacchè, nè esso pretende di dare, nè avrebbe di che dare, una ragione per la quale l’utilità dell’individuo operante deva necessariamente accordarsi con l’utilità generale. Appunto perchè non può somministrare un unico, supremo, assoluto criterio, come la ragione richiede, ne implica, come s’ è detto dianzi, due d’ugual valore, cioè ugualmente congetturali; e ciò per effetto della loro comune natura, Cos’è infatti l’utilità avvenire, sia individuale, sia generale, riguardo alla cognizione umana, se non una cosa di mera congettura? Perchè, non è essa punto una qualità che l’osservazione possa riconoscere come inerente, o no, all’azione da farsi, o da non farsi, alla quale il criterio dev’essere applicato; è un effetto che potrà venire, o non venire da quell’azione; dependentemente dall’operazione eventuale d’altre cagioni. E quindi, proporre l’utilità per criterio primario, anzi unico, della moralità dell’azioni umane, come fa quel sistema, è proporre un criterio, non dirò ingannevole, ma inapplicabile, tanto nell’una, che nell’altra maniera.
Che se, in una cosa tanto evidente, potesse parer necessaria una più particolare dimostrazione, si veda, di grazia, come mai un uomo qualunque possa giudicare anticipatamente con certezza, se una data azione sia per riuscire più utile che dannosa a lui medesimo; che, delle due ricerche, può parere, a prima vista, la meno difficile. Ha forse l’avvenire davanti a sè? Conosce gli effetti degli effetti, le circostanze independenti dalla sua azione, e che opereranno sopra di lui in conseguenza di quella? le determinazioni ch’essa potrà suggerire ad altri uomini, noti, ignoti a lui, a seconda di loro interessi, di loro opinioni, di loro capricci? Conosce il cambiamento possibile dei suoi sentimenti stessi? la durata della sua vita, da cui può dipendere che un’azione la quale, fino a un certo tempo, aveva portato utile, porti danno, e viceversa? Quale sarà la guida che possa condurlo al termine d’una tale ricerca?
L’esperienza, dicono.
Guida eccellente, senza dubbio, ma fin dove può arrivare essa medesima. L’autorità dell’esperienza, riguardo ai fatti contingenti avvenire, è fondata sulla supposizione tacita (che la riflessione poi dimostra ragionevolissima) d’un ordine che comprende ugualmente i fatti che sono stati e quelli che sono, e quelli che saranno; e del quale, per conseguenza, i primi, cioè quelli tra i primi, che possiamo conoscere, sono per noi una certa qual manifestazione limitata e parziale, e quindi un indizio de’ futuri. Se poi anche il sistema deduca da quest’ordine l’autorità dell’esperienza, e se possa ammetterlo senza rinnegar sè medesimo; o su che altro fondi quell’autorità, e se ci sia altro su di che fondarla, non occorre qui di farne ricerca. Basta al nostro assunto quella verità innegabile, che dall’esperienza non si può ricavare, riguardo al futuro, nulla più che un indizio di maggiore o di minor probabilità. E l’esperienza medesima, facendoci, per dir così, passar davanti agli occhi tanti e tanti fatti prodotti da cagioni imprevedute e imprevedibili, attesterebbe, se ce ne fosse bisogno, che non si può da essa ricavare una regola certa dell’utile o del danno individuale che possa risultare da un’azione; e non occorre aggiungere: dell’utile e del danno generale. Anzi, a prima vista, come ho già accennato, questa seconda scoperta può parere la più difficile. Ma chi appena ci rifletta deve vedere che non si tratta qui di maggiòre o minor difficoltà: sono due scoperte ugualmente impossibili. A far conoscere il futuro l’esperienza è inetta per chi non conosce il tutto, superflua per Chi lo conosce. All’uomo non basta; Dio non n’ha bisogno.
Ma, replicano, quando mai ci siamo noi sognati di chiedere e d’attribuir tanto alla previsione umana? Chi non sa che l’esperienza non può condurre alla cognizione assolutamente certa del futuro? che l’utile e il danno avvenire non possono esser altro che materia di probabilità? E appunto perchè l’uomo non possiede l’onniscienza, deve contentarsi della semplice probabilità.
Se fossero veramente persuasi di ciò, non si vede come potrebbero credere che ci sia una scienza della morale: e lo credono però certamente, poichè dicono d’averne trovato il vero fondamento. Cosa sarebbe infatti una scienza fondata su un principio, e armata d’un criterio, volendo applicare il quale, non si trovasse a ogni immaginabile quesito altra risposta che: forse sì, e forse no? Cosa sarebbe, non dico una scienza, nell’applicazione della quale l’uomo potesse qualche volta rimaner dubbioso (che questa è una condizione di tutte le scienze, o piuttosto dell’uomo); ma una che, al dubbio di chi ricorre ad esso, non potesse mai rispondere se non col dubbio? Per avere delle nozioni certe, non è punto necessaria l’onniscienza, basta l’intelligenza; anzi non ci sarebbe intelligenza senza di questo. E si noti che, nell’altre scienze, il dubbio, oltre all’essere solamente parziale, anzi per questo esser solamente parziale, è anche relativo al momento in cui viene espresso. Finora, si dice in que’ casi, non s’è potuto, su questo e su quel punto, arrivare ad altro che a dell’opinioui più o meno probabili. Delle nove e più attente osservazioni, una qualche accidentale e felice scoperta, una di quelle occhiate penetranti di qualche grand’ingegno, potranno sostituire all’opinioni una cognizione certa, da aggiungere a quelle che già la scienza possiede. — La sola scienza della morale avrebbe per sua condizione universale e perpetua la probabilità! val a dire, sarebbe condannata al dubbio su tutti i punti e per sempre! Ma se fosse tale, il chiamarla scienza non sarebbe altro che una contradizione. Il dubbio parziale e accidentale limita la scienza: il dubbio universale e necessario la nega.
Ma, come accennavo, non credono davvero loro medesimi che nella morale non ci sia altro che probabilità; e quando mettono in campo una così strana sentenza, non lo fanno già per esserci stati condotti da una serie di osservazioni e di ragionamenti; ma perchè è l’unica replica che possano fare a chi oppone al loro sistema la mancanza d’un criterio assoluto. Allegando da principio l’esperienza, non avevano pensato a esaminare la natura e i limiti della sua autorità. Tenendola per una buona guida, com’è tenuta universalmente, e com’è infatti dentro que’ limiti, supponevano gratuitamente e in confuso, che dovesse bastare al loro intento. Quando poi si sentono opporre che l’esperienza non può somministrare altro che un criterio di probabilità, dicono che la probabilità sola deve bastare. È l’usanza dell’errore, darsi a intendere d’avere scelto il posto dov’è stato cacciato, e chiamare inutile o impossibile ciò che non può dare. Ma non ne sono veramente persuasi, nemmeno dopo averlo detto. E se paresse una temerità il voler così entrare nella mente degli altri, non c’è nulla di più facile che il far dichiarare la cosa a loro medesimi, cun risolutezza, anzi con emozione. Domando infatti a qualsiasi di loro, se, per esempio, uccidere l’ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, sia o non sia un’azione che cada sotto un giudizio della moralità. E sottintesa la risposta, che non può esser dubbia, ragiono così: O il criterio della morale non può farci arrivare che a un giudizio di mera probabilità; e si dovrà dire che uccidere l’ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, è un’azione probabilmente, nulla più che probabilmente, contraria alla morale; e che, per conseguenza, c’è anche una probabilità, piccola quanto si vuole, ma una probabilità, che possa essere un’azione morale; o..... Ma non mi lascia finire: non può sentire senza indegnazione enunciar come problematico un tale giudizio. Eppure, per avere il diritto d’enunciarlo assolutamente, il diritto di dire: no, non c’è, nè ci può essere probabilità, nè grande, nè mezzana, nè minima, che una tale azione sia conforme alla morale, non c’è altro mezzo che dire: l’utilità futura, essendo materia: di mera probabilità, non può essere il criterio della morale. O rinunziare al sistema, o rinunziar all’indegnazione.
Ma, dicono ancora, cos’altro facciamo noi, che osservare i fatti, e fatti essenziali della natura umana, e esporli? Siamo forse noi che abbiamo suggerito agli uomini d’appetire l’utilità, e di procurarsela? Siamo noi che abbiamo inventata l’usanza di prenderla per motivo nella scelta dell’azioni, e di crederla un motivo legittimo e ragionevole? È una «condizione della natura umana il pensar, prima di tutto, al proprio interesse1.» Prendetela con la natura umana; prendetela col senso comune, che la nostra teoria non ha fatto altro che interpretare, riducendo i suoi giudizi uniformi e costanti a una sintesi precisa e fedele. Andate a dire a tutti gli uomini, che il criterio di cui si servono perpetuamente per la scelta delle, loro azioni, è immorale e antilogico.
Non ci vuol molto a scoprir qui un falso ragionamento fondato sull’alterazione d’un fatto. Altro è che l’utilità sia un motivo, cioè uno de’ motivi per cui gli uomini si determinano nella scelta dell’azioni, altro è che sia, per tutti gli uomini, il motivo per eccellenza, l’unico motivo delle loro determinazioni. Non hanno osservato que’ filosofi, o piuttosto sono riusciti a dimenticarsi (giacchè è un’osservazione che non hanno potuta non fare migliaia di volte, e non solo sugli altri, ma sopra loro medesimi) che, per gli uomini che si propongono d’operar moralmente (e la questione, essendo sulla moralità, non contempla se non questi), l’utilità è bensì un motivo, ma un motivo subordinato e secondario; e che, lungi dall’esser presa per criterio in una questione di moralità, la suppone già sciolta, o che non ci sia neppure il bisogno d’esaminarla. È verissimo che, in molte, anzi in moltissime deliberazioni, anche questi uomini non considerano altro che l’utilità: Ma quando e perchè? Quando si tratti di scegliere tra delle azioni, ognuna delle quali sia, riguardo alla moralità, conosciuta, eleggibile, e conosciuta tale per un criterio affatto diverso, e che contempla, non gli effetti possibili e ignoti dell’azioni, ma la loro essenza medesima; cioè per la nozione della giustizia. Un galantuomo che deliberi intorno al comprare una cosa qualunque, nelle circostanze che rendono legittima una tale azione, potrà bilanciar lungamente l’utile dell’acquisto e l’inconveniente della spesa, senza che gli venga neppure in mente che ci sia una moralità al mondo. Ma qual maraviglia che una considerazione non entri dov’è sottintesa? che la mente non cerchi in un’azione la qualità ch’era già associata ad essa? che la prudenza parli sola, quando la giustizia non ha che dire? Ecco dove l’esperienza è una bona guida: dove basta ciò che essa può far trovare, e che non si troverebbe senza il suo aiuto: cioè una maggiore probabilità. Ecco fin dove è tenuta tale dal senso comune, al quale, così a torto, s’appella il sistema. L’errore, inetto a scoprire, non ha che l’abilità d’alterare; e qui ha preso al senso comune il metodo d’applicare il criterio dell’utilità e i dati dell’esperienza a una categoria, e categoria subordinata, di deliberazioni; e, per farne una cosa sua, e dargli una nova forma apparente, non ha fatto altro, che trasportarlo a tutte le deliberazioni; da un posto secondario, dove aveva la sua ragion d’essere, al primo, anzi a un unico posto, dove non n’ha veruna.
Ma oltre i casi, frequentissimi senza dubbio, ne’ quali la considerazione della moralità non dà nell’occhio, perchè sottintesa, ce ne sono; eccome! di quelli in cui entra esplicitamente, sia per riprovare un’azione come, ingiusta, sia per esaminare se un’azione sia giusta o ingiusta, lecita o illecita. E in questi casi, l’utilità, non che esser presa (s’intende sempre dagli uomini che si propongono d’operar moralmente) nè per il solo, nè per il preponderante criterio, non è nemmeno presa in considerazione.
So bene che i propugnatori del sistema dell’utilità dicono che questa è una mera illusione; che, in fatto, ciò che si considera anche in que’ casi, è l’utilità e il danno; e che le parole «giusto» e «ingiusto» quantunque presentino in apparenza e confusamente un altro significato, tornano in ultimo a quel medesimo: cioè che «giusto» non significa in fondo, se non ciò che porta più utile che danno; e «ingiusto,» ciò che, quando pure paresse avere, o avesse anche con sè una qualche utilità immediata, porta alla fine un danno superiore ad essa.
Ma questo è evidentemente sostituire all’esame del fatto un’induzione, e un’induzione, non dirò solamente forzata, ma opposta all’evidenza: il fatto da esaminare, è se veramente gli uomini, per «giusto» intendano più utile, e, per «ingiusto» il contrario. Ma che dico, esaminare? e a chi verrebbe in mente che ce ne potesse esser bisogno, se a que’ filosofi non fosse venuto in mente d’affermare una cosa simile? Come! Uno che non si curi o si curi poco della moralità, propone come utile un’azione a un altro, il quale non accetta il consiglio, dicendo che non la trova giusta; il primo, affine di persuaderlo, adduce novi argomenti d’utilità; l’altro ripete che non si tratta di questo, che lui non va a cercare se l’azione porterà utile o danno, che, per astenersene, gli basta che non sia giusta; e questo uomo vuol dire: l’azione che mi proponete non è abbastanza utile? In verità, la cosa è tanto forte, che uno a cui riuscisse nova, avrebbe qualche ragione di domandare se c’è proprio stato qualcheduno che l’abbia detta espressamente, o se non siamo piuttosto noi che la facciamo dire al sistema per via d’induzione. Eccola dunque detta espressamente dal Bentham, a proposito del giudizio dato da Aristide sul bel progetto di Temistocle, di dar foco alle navi de’ Greci alleati d’Atene, che si trovavano riunite a Pagasa; e ciò affine di procurare agli Ateniesi il dominio sulla Grecia intera. «Quelli,» dice, «che dalla lettura degli Ufizi di Cicerone e de’ libri de’ moralisti platonici hanno ricavata una nozione confusa dell’Utile, come opposto all’Onesto, citano spesso il detto d’Aristide sul progetto che Temistocle volle rivelare a lui solo. Il progetto di Temistocle è utilissimo, disse. Aristide all’adunanza del popolo ateniese, ma è ingiustissimo. Credono di veder qui un’opposizione manifesta tra l’utile e il giusto. Errore: non c’è altro che un bilancio di beni e di mali. Ingiusto è una parola che presenta il complesso di tutti i mali che derivano da uno stato di cose, nel quale gli uomini non possano più fidarsi gli uni degli altri. Aristide avrebbe potuto dire: Il progetto di Temistocle sarebbe utile per un momento, e dannoso per de’ secoli: quello che ci farebbe acquistare non è nulla in paragone di quello che ci farebbe perdere2.»
A questo segno potè una preoccupazione sistematica far travedere un uomo d’Ingegno, e osservator diligente, quando voleva. Non s’avvide nemmeno che, essendo nella proposizione sulla quale argomentava il progetto di Temistocle chiamato, non utile semplicemente, ma utilissimo, la sua interpretazione farebbe dire a Aristide: Il progetto di Temistocle è utilissimo, ma dannosissimo. E gli Ateniesi, per utilissimo, avrebbero dovuto intendere: utile per un momento, e dannoso per de’ secoli! Che se, come accenna il Bentham, si vuol credere apocrifo il fatto, e considerarlo semplicemente come un esempio ipotetico, si può affermare senza esitazione, che a qualunque moltitudine avente una lingua, nella quale ci siano i vocaboli utile e giusto, fosse proposta la cosa in que’ termini, s’intenderebbe che gli si vuol parlare di due qualità diverse. Per darsi a intendere che utilità e giustizia siano un concetto medesimo, con la sola differenza del più e del meno, ci vuole un lungo e ostinato studio di far parere a sè stesso ciò che non è, e di dimenticare ciò che è: studio, del quale una moltitiudine non è capace. E se si domanda, con qual ragione una moltitudine qualunque o, in altri termini, il senso comune ammetta e tenga ferma questa distinzione tra i due concetti d’utilità e di giustizia, la risposta è inclusa nella domanda: sono due concetti, come sono due vocaboli. Uno è il concetto d’una legge de’ voleri e dell’azioni, fondata nella natura degli esseri; l’altro è il concetto d’un’attitudine delle diverse cose a produrre degli stati piacevoli dell’animo. E siccome questi concetti s’applicano moltissime volte da tutti gli uomini, e le più di queste separatamente e ognuno da sè; siccome dico, si può pensare, e si pensa effettivamente, alla giustizia d’un’azione, senza pensare nè punto nè poco alla sua utilità, e viceversa; così non c’è nulla per il comune degli uomini (come non c’è nulla di ragionevole per nessuno), che porti a dubitare della duplicità di que’ concetti, a perder di vista una distinzione tanto manifesta e tanto costante, tra due oggetti del pensiero.
Ma se dicessimo che anche il Bentham l’intendeva in fondo come il popolo d’Atene e come ognuno; che concepiva anche lui la giustizia come un’essenza distinta dall’utilità, e avente de’ suoi attributi propri, che non appartengono a questa, sarebbe ora una temerità davvero? Meno che mai, perchè qui non c’è bisogno di presumere: ha detta la cosa lui medesimo in un momento di distrazione. Distrazione un po’ forte, perchè venuta subito dopo aver affermato il contrario; ma non c’è da meravigliarsi che uno sia distratto facilmente da ciò che non ha davvero nell’animo. In una nota al luogo citato dianzi, dopo aver detto che uno storico inglese ha dimostrato falso l’aneddoto, aggiunge: «Plutarco che voleva far onore agli Ateniesi, sarebbe stato impicciato bene a conciliare con questo nobile sentimento di giustizia la maggior parte della loro storia.»
Nobile sentimento di giustizia? Cosa salta fuori ora? Sentimento d’utilità, doveva dire, se non si trattava d’altro che d’un bilancio di beni e di mali. Ma allora cosa ci ha che fare la nobiltà del sentimento? Rifiutare un progetto che «farebbe perdere incomparabilmente più di ciò che farebbe acquistare,» è senza dubbio una determinazione giudiziosa; ma qual ragione di chiamarla nobile? Non voler comprare in grande una merce, quando si prevede che sia per rinviliare, l’avrebbe il Bentham chiamato un nobile sentimento? E se la giustizia, per chi non si lascia portar via dalle parole, ma ne indaga l’intimo significato, non vuol dir altro che utilità, perchè applicare a una denominazione la qualità che non s’applicherebbe all’altra? Singolare parola questa «giustizia,» che, non volendo dir nulla per sè, e non essendo altro che un mezzo indiretto e improprio di significare una cosa, può ricevere un titolo bellissimo, che al nome vero della cosa non starebbe bene! un titolo che, in morale, non avrebbe significato veruno, non si sarebbe mai potuto pensare a applicarlo a nessun sentimento, a nessuna azione umana, se la giustizia non fosse altro che utilità! Come si spiega un simile imbroglio? L’abbiamo detto. Il Bentham credeva in fondo che la giustizia ha un oggetto distinto dall’utilità, e che appunto per questo l’amore della giustizia è un sentimento nobile; e gli scappò fuori ciò che aveva in fondo. Habemus confitentem.... virum bonum. È l’onesta natura e il senso retto dell’uomo, che scacciati dalla trista forca del sistema, tornano indietro di corsa3.
Che se paresse a qualcheduno, che questo sia quasi un cogliere un uomo in parole sfuggite senza considerazione, e non richieste nemmeno dall’argomento, risponderemmo che la contradizione che abbiamo notata, è bensì, riguardo al Bentham, un fatto accidentale; giacchè non c’era nulla che lo costringesse a dare in una nota il contrario di ciò che voleva stabilire nel testo; ma è un fatto prodotto da una causa permanente e fecondissima, cioè dall’opposizione dell’assunto con ciò che attesta l’intimo senso: un fatto, per conseguenza, che si riprodurrà necessariamente ogni volta che quell’assunto sia messo a fronte dell’intimo senso. E nulla di più facile, diremo anche qui, che il farne la prova.
Supponiamo dunque che un uomo si proponga, nelle circostanze più favorevoli che si possano immaginare, d’impiegare un grosso capitale nel dissodare un suo terreno, nel farci di gran piantagioni, e nel fabbricarci delle case, per stabilirci delle famiglie miserabili e chiedenti lavoro, con gli attrezzi e il bestiame necessario alla coltura; e che questo brav’uomo si rivolga a un seguace del sistema dell’utilità, e gli dica: Credete voi che questo mio disegno sia conforme alla morale? — Non è egli vero che il filosofo si mette a ridere d’un dubbio di questa sorte? Supponiamo ora che l’altro soggiunga: — Vorrei anche sapere se, mettendo a esecuzione questo disegno, procurerò un vantaggio a me e agli altri. — Gli sarà risposto che, con quelle circostanze tanto favorevoli, e quando la cosa sia fatta a dovere, c’è tutto il fondamento di sperare un tal resultato. Ma se (è un apologo che facciamo) insiste e dice: — Vorrei che mi deste una sicurezza uguale a quella che mi avete data dianzi con quel ridere più significativo di qualunque parlare; perchè mi preme, è vero, soprattutto di non fare una cosa che non sia conforme alla morale; ma mi preme anche molto di fare una cosa utile. Ridete, di grazia, anche di questo mio dubbio; e assicuratemi in questa maniera, che è assurdo il supporre la possibilità d’un resultato contrario; — cosa risponde il filosofo? Ha riconosciuta la distinzione tra l’utilità e la moralità; in due volte, è vero, ma l’ha riconosciuta: si sente ora di ritrattarsi? Rispondo arditamente di no. Come una repugnanza morale non gli permise poco fa d’ammettere che la morale non sia capace se non d’un criterio di probabilità, così una repugnanza logica non gli permette ora d’attribuire all’utilità un criterio di certezza. E questo è un riconoscer di novo, che la questione della moralità, e quella dell’utilità sono due, non una sola espressa in diversi termini.
Allunghiamo un pochino l’apologo, e supponiamo che, compita l’impresa, e al momento di raccogliere i primi frutti, venga un terremoto e subissi ogni cosa, salvandosi il padrone a stento, di mezzo alle rovine. Ognuno chiamerà disgraziata un’impresa che, invece dell’utile sperato, ha prodotto uno scapito effettivo: ci sarà alcuno che la chiami immorale? Eppure è il giudizio che ne dovrebbe portare chiunque fosse persuaso davvero che l’utilità è il criterio della morale, che il «merito e il demerito de’ nostri sentimenti e delle nostre azioni non dipendono dalle loro cause, ma da’ loro effetti,» per servirmi delle parole d’un celebre sostenitore di quella dottrina, smentita nobilmente dalla sua vita4
Dico forse troppo? Vediamo; perchè non c’è dubbio che potrebbe benissimo esimersi dal proferire una così strana sentenza, dicendo in vece: . Non precipitiamo il nostro giudizio. Il sistema prescrive di dedurlo dagli effetti; e possiamo noi dire di conoscere gli effetti di quell’impresa? Ne conosciamo alcuni, i più immediati; ma alcuni effetti è forse lo stesso che gli effetti? Sappiamo noi quante sorte di consolazioni e di compensi potrà trovare quell’uomo? Non potrebbe dalla disgrazia medesima essere stimolato a tentar dell’altre imprese, e da successi più fortunati, dall’attività medesima impiegata a rifare il suo capitale, ricavar più soddisfazione, che non n’avrebbe avuta dal goderlo e dall’accrescerlo? Il piacere che può dar la ricchezza è forse necessariamente proporzionato alla quantità di essa? E in quanto a quelli che sono morti nella catastrofe, già è ciò che o presto o tardi, gli doveva accadere; e chi può decidere se sia stato peggio o meglio per loro il morir quella volta piuttosto che un’altra, forse dopo malattie dolorosissime, forse in una qualche maniera più atroce? Riguardo poi a un interesse più generale, chi sa se l’esempio dato da quell’uomo, l’aver visto, anche per poco, tante campagne floride dove prima non c’era che una sodaglia, non possa eccitare un’emulazione, la quale porti un aumento di produzione e di prosperità, da compensare, da sorpassar di molto il capitale ingoiato dal terremoto? . Non c’è dubbio, ripeto, che, con questi e con altri argomenti dello stesso genere, potrebbe, sospendere il suo giudizio; ma a condizione di tenerlo sospeso per sempre. Potrebbe schivar lo sproposito; ma a condizione di riconoscere che il criterio proposto dal sistema è inapplicabile. Conclusione alla quale s’arriva senza fatica, e quasi senza avvedersene, da qualunque parte si prenda a esaminarlo.
Dicendo però che Aristide, in quella sua famosa sentenza, intese manifestamente d’opporre il giusto all’utile, come cose che possano essere qualche volta inconciliabili, abbiamo forse voluto anche dire che avesse ragione d’intenderla così? Tutt’altro. Crediamo anzi col Bentham, ma per una ragione affatto diversa dalla sua, e della quale faremo un cenno tra poco, che una tale opinione non possa venire, se non da nozioni confuse e dell’utile e del giusto. Dove Aristide, se il fatto è vero, l’intendeva bene, o dove, per andar più al sicuro, l’intese bene quella volta5, fu nel . rivendicare la ragione di criterio anteriore e supremo alla giustizia, lasciata fuori perversamente da Temistocle. Ma, questa cosa bona, la fece male. Uno che avesse avute nozioni abbastanza chiare e del giusto e dell’utile, e, per conseguenza, della loro relazione necessaria, non avrebbe mai fatta quella strana concessione, che un progetto di quella sorte si potesse chiamare utilissimo. O avrebbe detto: La cosa che Temistocle vi dà per utilissima sarebbe ingiustissima; o fidandosi nella forza di questa seconda parola, nella repugnanza che gli uomini provano, per vergogna, anche quando non è per coscienza, a accettar la cosa quand’è chiamata col suo nome, si sarebbe contentato di cambiar la questione (come si deve fare con le questioni piantate in falso), e di dire semplicemente: Ciò che Temistocle propone sarebbe una grand’ingiustizia, o meglio, un’abbominevole scelleratezza.
Ma altro è il dire che, tra la giustizia e l’utilità, non ci possa essere una vera e definitiva opposizione; altro è il dire che siano una cosa sola, cioè che la giustizia non sia altro che utilità. La prima di queste proposizioni esprime una di quelle verità che, più o meno distintamente e fermamente riconosciute, fanno parte del senso comune; la seconda, è diremo anche qui, un’alterazione, una trasformazione di questa verità che il sistema ha presa dal senso comune: perchè, col mezzo proposto da esso, non si sarebbe trovata in eterno.
Infatti, se si domanda al sistema, come mai s’arrivi a conoscere che l’utilità è sempre d’accordo con la giustizia, o, per dirla con altri suoi termini, che l’azione utile al pubblico torna sempre utile al suo autore, e viceversa; se si domanda, dico, come s’arrivi a conoscere una tal cosa, con tanta certezza, da farne il fondamento e la regola della morale; il sistema risponde, come s’è visto, che ce l’insegna l’esperienza. Ma s’è anche visto che, dall’esperienza, per quanto sia vasta e oculata, non si può cavar nessuna conseguenza certa riguardo all’avvenire, e quindi nessuna regola certa per la scelta dell’azioni. E dopo di ciò, non è certamente necessario l’esaminare quale e quanta sia l’esperienza, sulla quale il sistema pretende fondare quello che chiama il suo principio. Ma, per vedere con qual leggerezza proceda in tutto, e per sua natural condizione, non sarà inutile l’osservare di quanto poco si contenti, anche dove sarebbe affatto insufficiente il molto, anzi tutto l’immaginabile di quel genere. Cos’è, dunque, l’esperienza posseduta, sia direttamente, sia per trasmissione, da quelli che credono di poterne ricavare una tal conclusione? e suppongo che siano gli uomini che ne possiedano il più. È la cognizione d’un piccolissimo numero d’azioni umane, relativamente a quelle che hanno avuto luogo nel mondo, e d’un numero de’ loro effetti incomparabilmente minore; giacchè chi non sa quanto numerosi, mediati, sparsi, lontani, eterogenei, possano esser gli effetti d’un’azione umana? effetti, de’ quali una parte, Dio sa quanta e quale, non è ancora realizzata; giacchè come s’è accennato dianzi, chi potrebbe dire che sia compita e chiusa la serie degli effetti d’un’azione antica quanto si voglia? E con un tal mezzo sarebbero arrivati a scoprire una legge relativa a tutte l’azioni passate, presenti e possibili? Che! non avrebbero nemmeno potuto pensare a cercarla; perchè il concludere dal particolare al generale, che è il paralogismo fondamentale del sistema, non sarebbe nemmeno un errore possibile, se l’uomo non avesse, per tutt’altro mezzo, l’idea del generale, che di là, non potrebbe avere. Quella che pretendono d’aver ricavata dall’esperienza, è una verità che hanno trovata stabilita, e ab immemorabili, nel senso comune.
Il senso comune tiene infatti, che l’utilità non possa, in ultimo, trovarsi in opposizione con la giustizia. E lo tiene, non già per mezzo d’osservazioni che non potrebbero mai arrivare all’ultimo; ma per una deduzione immediata, ovvia e, direi quasi, inevitabile, dal concetto di giustizia. In questo concetto è compreso quello di retribuzione, cioè di ricompensa e di gastigo; e il concetto di giustizia si risolverebbe in una contradizione mostruosa, o, per dir meglio, non sarebbe pensabile, se la retribuzione dovesse compirsi alla rovescia, e dall’opera conforme alla giustizia venir definitivamente danno, che è quanto dire gastigo, al suo autore; e viceversa. Ma come poi, e con qual ragione, dal semplice concetto di questa retribuzione, il senso comune corre, con tanta fiducia, a concludere e a credere che deva realizzarsi del fatto? Ciò avviene perchè il concetto di giustizia si manifesta alla cognizione come necessario; e quindi non può entrare nel senso comune che cessi d’esser tale, riguardo alla realtà, alla quale si riferisce, e si riferisce con uguale necessità; giacchè si può ben pensare la giustizia, senza farne alcuna speciale applicazione, ma non si potrebbe pensarla come priva di ogni applicabilità. E non già che il comune degli uomini riconosca riflessamente, e pronunzi espressamente, che ciò che è necessario in un modo non può mai diventar contingente in nessun altro; ma, appreso una volta un concetto come necessario, continua naturalmente e senza studio, senza aver nemmeno bisogno del vocabolo, a riguardarlo come tale nell’applicazioni che gli avvenga di farne. Si domandi a un uomo privo di lettere, ma non di buon senso, per qual ragione non si potrebbe supporre una combinazione di cose, per la quale, in un dato caso; dall’operar rettamente potesse resultare un danno stabile e definitivo, e dall’operare iniquamente uno stabile e definitivo vantaggio. Risponderà probabilmente: non può essere, perchè allora non ci sarebbe la giustizia. E sarà una risposta tanto concludente, quanto sarà stata irragionevole la domanda, domanda che sottintende non saprei dir quale di due cose ugualmente assurde: o che il concetto di giustizia non importi necessità; o che nella realtà possa avverarsi il contrario di ciò che è necessario per essenza.
Questo non vuol dire certamente, che tutti gli uomini abbiano sempre presente una tal verità; che essa sia sempre stata e sia sempre la regola de’ loro giudizi; che sia stato un fenomeno straordinario il sentir un uomo chiamare ingiustissima e utilissima una cosa medesima. È, come tutte le verità morali, una verità esposta nella pratica alle passioni e all’incoerenza parziali e accidentali degli uomini. E non c’è quindi da maravigliarsi che i successi temporariamente prosperi di tante azioni ingiuste, e gli avversi di tante giuste, e anche eroiche, ci portino qualche volta a dubitare di questa verità, e fino a negarla iracondamente, dimenticando che, nell’idea di retribuzione, non c’è punto compreso che deva realizzarsi nel momento che può parere a noi. Ma è una di quelle verità che, esprimendo una relazione immediata e necessaria tra due oggetti de’ più facilmente presenti a qualunque intelligenza, non lasciano a verun filosofo il carico nè il tempo di ritrovarle, e non potrebbero esser perdute di vista dall’umanità, se non quando fossero da essa dimenticati gli oggetti medesimi. Finchè i concetti di giustizia e d’utilità vivranno nelle menti degli uomini, il concetto della loro finale e necessaria concordia rimarrà, in mezzo a delle dimenticanze parziali, e a delle negazioni incostanti, perpetuo e prevalente nel senso comune.
E è di qui, che il sistema cava tutta la sua forza apparente; come, del resto, ogni errore dalla verità che altera. Appoggiati a questo sentimento universale, i partigiani del sistema dicono a’ suoi oppositori: Alle corte; o questa parola «giustizia,» che vi preme tanto, e levata la quale, vi pare che scomparisca ogni idea di moralità, significa qualcosa di definitivamente e necessariamente utile; e allora perchè l’opponete all’utilità, proposta da noi per il vero criterio della morale? O credete che significhi qualcosa che possa in ultimo riuscire dannosa, e è per questo, che volete separarla dall’utilità; allora siete voi che levate di mezzo davvero la moralità, mettendola in contradizione con la natura umana; perchè, se c’è una certezza al mondo, è questa, che l’uomo non può volere il suo proprio danno.
Ma la risposta è facile. Che la giustizia sia utile o, in altri termini, che la giustizia dell’azioni sia causa d’utilità ai loro autori, eccome lo crediamo! Ma appunto per questo, appunto perchè non possiamo credere che la cosa e la sua qualità, che la causa e l’effetto, siano quel medesimo, non possiamo credere che la giustizia e l’utilità siano quel medesimo. E opponiamo la giustizia all’utilità, non come due cose inconciliabili: neppur per idea l’opponiamo come la norma vera e razionale in questo caso, a una fuor di proposito. Non già che questa sia falsa in sè; che anzi è la vera e razionale norma della prudenza, la quale si contenta, e deve contentarsi d’una mera probabilità. Ma è una norma falsissima quando s’applichi alla moralità, la quale rimane una parola vota di senso, se non ha un criterio di certezza. Voi, supponendo affatto arbitrariamente, e solo perchè il vostro sistema n’ha bisogno, che, per giustizia non si possa intendere che, o l’utilità, o qualcosa di contrario ad essa, c’intimate di scegliere tra codesta supposta identità, e codesta supposta opposizione. Ma noi passiamo in mezzo al vostro dilemma, col dire: nè l’uno, nè l’altro; anzi il contrario o dell’uno e dell’altro, cioè distinzione e concordia. Distinzione, perchè sono due nozioni; concordia, perchè sono nozioni aventi tra di loro una relazione necessaria.
Ma a che parlare della cognizione d’una tal verità, quale gli uomini potevano averla dalla sola ragione? La concordia finale dell’utile col giusto, alla quale credevano in astratto, senza poterne vedere il modo, e come costretti solamente dalla forza di quell’essenze medesima; questa concordia è stata, spiegata dalla rivelazione, la quale ha insegnato il come, per mezzo della vera giustizia, si possa arrivare alla perfetta felicità. E l’ha insegnato, non a qualche scola di filosofi, ma ai popoli interi; ha messa, in una uova maniera, questa verità nel senso comune; cioè in quella maniera unicamente sua, di render comunissime le cognizioni, rendendole elevatissime. Sicchè il sistema, formato (o riformato, che qui è tutt’uno) nella mirabile luce6 del cristianesimo, ha trovata quella verità, non più sparsa e vagante, e come involuta, nel senso comune, ma espressa e ferma nell’insegnamento e, dirò così, nel senso comune cristiano. E, per appropriarsela, l’ha mutilata, staccandola dalla sua condizione essenziale. Ha levata dal conto la cifra della vita futura; e il conto non torna più, o, per dir meglio, non c’è più il verso di raccoglierlo. Perciò, nelle false religioni medesime, la tradizione d’una vita futura, nella quale abbia luogo una finale e infallibile retribuzione, s’è conservata forse più di qualunque altra, quantunque diversamente alterata. Era abbracciata e, per dir così, tenuta stretta, in qualunque forma, come un aiuto potente al bisogno razionale di credere alla concordia dell’utilità con la giustizia: aiuto potente, e quasi necessario contro la forza di tanti fatti, che, nel corso ristretto delle vicende mondiali, può parere che la smentiscano apertamente. E un esempio notabile ce ne presenta un filosofo dell’antichità, il quale certamente avrebbe potuto, al pari di chiunque altro, o più di qualunque altro, far di meno d’un tale aiuto, se ce ne fosse stato il mezzo: voglio dire il Socrate di Platone, nel Gorgia. Dopo avere, con quella sua soda e profonda argutezza, con quel mirabile giro d’argomenti verso delle conclusioni tanto irrepugnabìli quanto imprevedute, sostenuto successivamente contro tre avversari, che dall’ingiustizia non si può mai, in questo mondo, ricavare una vera utilità; e dopo averli ridotti, l’uno dopo d’altro, a non saper più cosa si dire, rimane sopra di sè, come non soddisfatto lui medesimo della sua vittoria, e aggiunge che «il discendere nelle tenebre con l’anima carica di iniquità, è l’estremo de’ mali.» E domandato all’ultimo interlocutore, se ne vuol saper la ragione, e rispostogli di sì, prosegue: «Senti dunque, come si suol dire, una bellissima storia, la quale ho paura che a te parrà una favola; ma io la ho per una storia vera; e come tale te la racconto. E passa a raccontare quella per noi poverissima favola in effetto, ma che a uno privo del lume della rivelazione poteva (direi quasi, con ragione, se ci fosse vera ragione fuori della verità) parer meglio che nulla; cioè quella di Minosse, Radamanto e Eaco. E lui medesimo esprime questo sentimento, soggiungendo: Già, a te non pare altro che una novella da donnicciole, e non ne fai caso veruno: e non me ne maraviglierei se, a forza di cercare, si potesse trovar qualcosa di meglio e di più vero.
Ho detto dianzi, che, levata dal conto la vita futuro, non c’è il verso di raccoglierlo. E infatti, implica contradizione il voler far resultare la felicità, cioè uno stato identico e permanente dell’animo, dal bilancio di momenti diversi e successivi dell’animo. Fingiamo anche, per fare una strana ipotesi, che un uomo potesse riconoscere e ragguagliare i momenti piacevoli e i momenti dolorosi d’una vita intera, e trovasse i primi superiori ai secondi, e di numero e d’intensità. Avrebbe da questo ragguaglio una quantità riunita, un residuo netto, di momenti piacevoli: ma questa riunione veduta dalla mente, alla quale i diversi e separati momenti possono esser presenti insieme come oggetti ideali, e quindi immuni dalle leggi del tempo; dalla mente, che in essi contempla l’unità dell’essenza, in quanto sono piacevoli, e li riferisce all’unità del soggetto in cui sono avvenuti in un modo moltiplice; questa riunione, dico, non sarebbe punto esistita nella realtà di quella vita, composta in effetto di momenti successivi, e in parte eterogenei. Dove dunque potrebb’essere collocata la felicità d’una vita temporale, per quanto si volesse restringere, impiccolire, alterare in somma, il senso della parola «felicità?» Non nell’aggregato de’ momenti piacevoli, che, in quanto aggregato, non è una realtà, ma relazioni vedute dalla mente; non in alcuno de’ momenti reali, ognuno de’ quali non sarebbe che una parte della felicità da trovarsi. La felicità non può esser realizzata fuorchè in un presente il quale comprenda l’avvenire, in un momento senza fine, val a dire l’eternità. Senonchè la religione può darci una specie di felicità anche in questa vita mortale, per mezzo d’una speranza piena d’immortalità7. Speranza che unifica, in certa maniera, in una contentezza medesima8, i più diversi e opposti momenti, facendo vedere in tutti ugualmente un passo verso il Bene infinito; «speranza che non può illudere, perchè congiunta con la carità infinita diffusa ne’ cori9; la quale, quel Bene medesimo che promette nell’avvenire, lo fa sentir nel presente, in una misura limitata bensì; e come per saggio, ma con un effetto che nessun sentimento avente un termine finito può contraffare10. Così la giustizia misericordiosa di Dio predomina anche neL tempo, dove non si compisce perchè, se è decreto di sapienza e di bontà, che la giustizia dell’uomo, non pura nè perfetta in questa vita, soffra per mondarsi, e combatta per crescere, repugna che sia veramente infelice: repugna che l’aderirà della volontà al Bene infinito comunicantesi all’anima, non partorisca un gaudio prevalente al dolore cagionato dalla privazione di qualunque altro bene11. Cosa mirabile! dice il Montesquieu, la religione cristiana, la quale pare che non abbia altro oggetto, se non la felicità dell’altra vita, ci rende felici anche in questa12. Riflessione ingegnosa, senza dubbio; ma una riflessione più prolungata fa dire: Cosa naturale.
Ci si opporrà qui probabilmente, che il sistema non ha mai messa in campo la pretensione di procurare agli uomini una felicità perfetta e immune dai mali prodotti dalle necessità fisiche; che il suo assunto, molto più modesto, non è altro che di dirigere le loro determinazioni al fine di conseguire la massima utilità, in quanto possa dipender da loro; che, del rimanente considerato in sè, cioè lasciando da una parte l’opinioni particolari che l’uno o l’altro de’ suoi partigiani gli possa attaccare, non nega punto la possibilità d’una vita futura, nella quale l’opere fatte in questa ricevono un’altra retribuzione; e tanto non lo nega, che non entra neppure in questa materia; che, per conseguenza, chi crede di dover ammettere, sia come opinione umana, sia come domma religioso, questa vita futura, il sistema glielo permette ampiamente.
Strana parola in un sistema filosofico, permettere! Dico, permettere ciò che è inconciliabile con esso. Ma è uno degli esempi tanto comuni di quell’incertezza, di quella diffidenza di sè, di quello scetticismo in somma, che, in tutte le dottrine morali che non tengon conto della rivelazione, si nasconde sotto il linguaggio più affermativo, e l’apparato piu solenne della dimostrazione. La ragione, che non conosce tali condiscendenze, non permette che s’ammetta una vita futura, se no a patto di rifiutare il sistema: Infatti, ammettere una vita futura, nella quale l’azioni della vita presente siano e premiate e punite, è ammettere una legge morale, secondo la quale, e in virtù della quale, abbia luogo una tale retribuzione; e ammessa una tal legge, tutto il sistema va a terra nel momento. Non è più un calcolo congetturale d’utili e di danni possibili nella vita presente, che s’abbia a prendere per criterio della morale: è quella legge. Ammettere la vita futura è riconoscere che l’utilità e il danno definitivo, da cui il sistema vuole che si ricavi la norma dell’operare, sono fuori della vita presente; e quindi, che c’è contradizione nel ragionare come se si trovassero in essa. È riconoscere che l’effetto più importante dell’azioni umane, riguardo ai loro autori, non ha luogo nel mondo presente; e quindi che è contradittorio un sistema, il quale, pretendendo fondarsi sul solo calcolo degli effetti, prescinde appunto dal più importante, anzi da quello che è importante in una maniera unica, poichè viene dopo tutti gli altri, e per non cessar mai. È dunque un’illusione il credere che un tal sistema possa conciliarsi con una tale credenza; e, volendo stare attaccato a quello, bisogna anche affermare che la vita futura non è altro che una falsa opinione. So bene, anche qui, che una tal conseguenza sarà rigettata con indegnazione dalla più parte de’ seguaci del sistema, Ma non si può altro che dire anche qui: o rinunziare al sistema, o rinunziare all’indegnazione.
L’idea però della moralità, quale l’ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo (meno forse quelli che negano apertamente la moralità stessa) non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa: Osserviamo brevemente un tal effetto in questa sistema medesimo che si separa dalla morale del Vangelo in due punti così essenziali, come sono il principio e la sanzione.
I diversi sistemi morali de’ filosofi del gentilesimo non proponevano, almeno direttamente, a chi li volesse adottare e seguire, altra felicità che la sua propria. La virtù degli stoici era in fondo egoista come la quiete degli epicurei, e la voluttà de’ cirenaici. Il sistema di cui trattiamo, formato o riformato, come s’è detto, nella luce del cristianesimo, al suono di quelle divine parole: «Amerai il tuo prossimo come te stesso13,» e: «Fate agli altri ciò che volete che facciano a voi14,» fu avvertito e come forzato a estendere a tutti gli uomini il vantaggio che quelli restringevano ai discepoli, e a proporre all’individuo il bene altrui come condizione del proprio. Questo miglioramento parziale, se si può chiamar così, lungi dal dar consistenza al sistema, non può altro che farne risaltar più vivamente la contradizione intrinseca e incurabile.
Infatti, perchè mai i suoi autori, dopo aver posto che futilità era il principio, la cagione sufficiente e unica della moralità (e senza di ciò, il sistema non sarebbe più, nemmeno in apparenza), non dissero poi, che ogni utilità, senza cercar di chi sia, è morale di sua natura, come doveva venir di conseguenza? È egli mai venuto in mente a nessuno di quelli che vedono la moralità nella giustizia, di dire che la giustizia, è o morale, o no, secondo a chi vien fatta? Perchè mai, dico, quegli autori distinsero, non due gradi, ma due generi d’utilità, una che non è punto morale da sè, cioè l’utilità dell’operante, e una che è necessaria per render morale la prima, cioè l’utilità generale? Dove trovavano nel loro principio la ragione, il pretesto, il permesso d’una tal distinzione? Non ci potevano trovar che il contrario; e questa distinzione la fecero perchè credevano anch’essi una cosa che, fuori del cristianesimo, potè esser messa in dubbio e anche negata, e da ingegni tutt’altro che volgari, ma che, dove regna il cristianesimo, non è, direi quasi, possibile di non credere; cioè che dall’uomo qualcosa è dovuta agli altri uomini. E sta bene; ma era un confessare tacitamente, e senza avvedersene, che l’utilità, per esser morale, deve prender la moralità d’altronde, e da qualcosa d’anteriore e di superiore ad essa; e che, per conseguenza, non può essa medesima essere il principio, la causa, il criterio della moralità.
Non vogliamo qui certamente rifarci a domandare come mai un uomo possa conoscere (cioè provvedere) futilità generale, e la relazione di essa con l’utilità privata. Pare anzi, che i seguaci stessi del sistema abbiano trovata quell’espressione d’utilità generale, o troppo indeterminata, o troppo forte. Perchè, se, per quelle parole, non s’aveva a intendere l’utilità di tutti gli uomini presenti e futuri, non si sapeva di quali uomini s’avesse a intendere; se di tutti, s’aveva a intender l’impossibile. Non saprei almeno vedere altra ragione dell’aver sostituito, come fecero dopo qualche tempo, all’utilità generale, quella del maggior numero d’uomini possibile. A ogni modo, con questa trasformazione il sistema ha perduta in gran parte la sua apparenza di moralità; è l’impossibilità dell’applicazione (s’intende sempre logica) gli è rimasta, nè più nè meno.
E in quanto al primo che il riguardo all’utilità altrui, a un’utilità diversa da quella dell’operante, sia ciò cha dà al sistema un’apparenza di moralità, oltre che è una cosa evidente per sè, si può dedurre dalla confessione medesima dei suoi seguaci. Infatti, a chi gli nega una tal qualità, perchè non è fondato che sull’interesse, rispondono gli ultimi, come rispondevano i primi: Avreste ragione se il sistema non contemplasse che l’interesse di chi delibera sull’azione da farsi o no; ma attribuirgli questo solo intento, è un calunniarlo, mentre pone per condizione essenziale anche l’interesse degli altri. — Ora, chi sono quest’altri? Qual’è la qualità che ha potuto determinare gli autori e i seguaci del sistema a farceli entrare? È evidente che, in quella tesi, è fatta astrazione da ogni qualità distintiva tra uomo e uomo, e non c’è contemplato altro che la qualità, o piuttosto l’essere d’uomo. E la formula «utilità generale,» che nella sua indeterminatezza non comprende espressamente tutti gli uomini, ma non n’esclude espressamente nessuno, poteva far credere in confuso che quella condizione del riguardo dovuto a ogn’uomo come uomo, fosse mantenuta nel sistema. In vece, il dire che ciò che costituisce la moralità d’un’azione, è il riguardo all’utilità del maggior numero d’uomini possibile, è dire che questo riguardo è dovuto ad essi, non in quanto son uomini, ma in quanto sono i più. È dire, per conseguenza, che ci sono degli uomini ai quali si può non aver riguardo di sorte veruna, e operar nondimeno moralmente, purchè siano il minor numero.
So bene che non fu questa l’intenzione di quelli che modificarono la formula del sistema. Fu solamente di levarne una condizione manifestamente ineseguibile, quando ci si voglia trovare un senso chiaro. Videro, o piuttosto badarono (giacchè è una di quelle cose, che non si può non vederle: si può bensì dimenticarle, principalmente nel fabbricare un sistema), badarono, dico, che l’utilità temporali, le sole che il sistema contempli, sono di tal natura, che in moltissimi casi, non possono gli uni goderne, senza che gli altri ne rimangano privi; e che, per conseguenza, l’aver riguardo all’utilità di tutti gli uomini sarebbe una cosa impossibile. Credettero quindi di levar quella contradizione (che non era, del resto, la sola, nè la principale), col sostituire all’utilità generale quella de’ più. E chi si trova tra i meno? Suo danno. Potrà strillare, se gli porta sollievo; ma, qualunque sia il danno che riceve, non potrà allegare alcun titolo per il quale, col farglielo soffrire, sia offesa la moralità. Anzi, se l’errore potesse esser consentaneo a sè stesso fino all’ultimo, è a quel paziente che, secondo il sistema, si potrebbe dire: Siete voi che offendete la moralità col bestemmiare un’azione, nella quale, con l’utilità del maggior numero unita a quella dell’operante, è realizzata la moralità medesima. Tali sono le conseguenze necessarie e immediate di quella formula; e le migliori intenzioni del mondo non faranno mai che si possa stabilire per unica condizione della moralità l’utile del maggior numero, senza escludere ogni e qualunque altro titolo. Che se ne viene ammesso uno qualunque, il principio è andato, e il sistema con esso. O piuttosto, quello di cui il sistema ha fatto il principio supremo della morale, rimane ciò che era, è e sarà, cioè una verità secondaria, condizionata, e nota, del resto, quanto si possa dire.
Infatti, chi dubita che il procurare l’utilità di quanti più uomini si possa; non sia un intento e un fatto conforme alla moralità? È una di quelle verità che non s’enunciano forse mai, appunto perchè si sottintendono sempre. Ma si sottintende anche sempre, che questa utilità si procuri senza fare ingiustizia a nessun altro. Si suppone adempita la condizione suprema della moralità; s’intende di lodare la beneficenza, non di verificare la moralità necessaria; s’intende che è una cosa morale, non che sia la morale. E con quella condizione, è messo interamente in salvo il riguardo dovuto a tutti gli uomini. Vuol forse dire che ogni uomo, per esser morale, deva esercitare la giustizia verso tutti gli uomini? Oh appunto! Una cosa simile non potrebbe mai entrare ne’ pensieri d’un uomo, non che nel pensar comune degli uomini. Vuol dire che ogni uomo deve esercitare la giustizia verso di quelli, coi quali si trovi in relazioni tali, da dovere per necessità essere verso di loro, o giusto o ingiusto, sia con azioni, sia con omissioni. E con questo, il riguardo dovuto a tutti è mantenuto interamente, come dicevamo; perchè, essendo la giustizia una e assoluta (e non si potrebbe nemmeno pensare priva di questi attributi), non può in nessun caso trovarsi in opposizione con sè stessa; e implica contradizione, che, col dare a uno quanto è dovuto a lui, si possa sottrarre nè punto nè poco di ciò che sia, o sia mai per esser dovuto a degli altri: mentre l’utilità, essendo relativa, non repugna punto alla sua essenza, che ciò che è utile a uno torni in danno d’un altro, anzi di lui medesimo, in un altro momento. In un’azione utile, c’è dell’utilità; in un’azione giusta, c’è la giustizia; direttamente e positivamente, riguardo a quelli che ci hanno un diritto; indirettamente e negativamente, riguardo a tutti gli altri, che non ce n’hanno veruno.
E perciò, quando si vuol lodare l’intento di procurare l’utilità d’altri uomini, non si dice, e non s’ha bisogno di dire, come fa il sistema, l’utilità del maggior numero possibile. Per il senso comune, quanti più sono gli uomini a cui uno vuol procurare utilità, tanto più il suo intento è lodevole; ma è lodevole, o molti o pochi che siano, e foss’anche uno solo. E non ci vorrebbe che un pazzo, per dire: prima di lodar quell’intento bisogna vedere se contempli la metà degli uomini, più uno almeno. Ma questa osservazione medesima sarebbe rigorosamente a proposito, chi la facesse a un partigiano del sistema così modificato, perchè, secondo questo, da quella maggioranza numerica dipende, non già che l’intento sia più o meno bello, e l’azione più o meno utile; ma che sia o non sia morale. Risponderebbe forse, che questo è un rigore pedantesco, e che, dicendo il maggior numero, s’intende naturalmente a un di presso? Sarebbe un dir di novo, che la morale è una scienza di mera probabilità, cioè che non è una scienza, come s’è visto. E s’è visto anche, sia detto a onore de’ seguaci del sistema, quanto sia facile il far loro disdire e detestare una tal proposizione. Non potrebbe, mi pare, rispondere se non che è un chiedere l’impossibile: ed è appunto la seconda cosa che abbiamo accennata; cioè che, con questa trasformazione, il sistema è rimasto inapplicabile nè più nè meno. Il riconoscere l’interesse del maggior numero degli uomini non è punto più possibile che il riconoscere quello di tutti: anzi è la stessa cosa, con un’operazione di più; giacchè, per riconoscere la maggior parte, è necessario separarla dal tutto, il che non si può fare senza averlo riconosciuto. Ma non c’è nemmeno bisogno di quest’argomento. L’impossibilità primitiva e intrinseca d’applicare il sistema, in questa come in quella, come in ogn’altra escogitabile forma, viene dal mettere che fa il suo criterio in un incognito; come abbiamo cercato di dimostrare, in diverse e forse troppe maniere.
Eppure, tanto l’affetto a un sistema può far travedere! uno de’ vantaggi principali che gli utilitari attribuiscono al loro, è la facilità d’applicarlo, e d’applicarlo universalmente e concordemente. Sentiamo anche qui il più celebre, se non m’inganno, de’ suoi autori, il Bentham.
«Partigiano» dice «del principo dell’utilità è quello che approva o disapprova un’azione privata o pubblica, in proporzione della tendenza di essa a produrre o dolori o piaceri; quello che adopra i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, bono, cattivo, come termini collettivi che comprendono l’idee di certi dolori e di certi piaceri, senza dare a questi termini verun altro significato. E s’intende che queste parole, dolore e piacere, io le prendo nel loro significato volgare, senza inventar distinzioni arbitrarie per escludere certi piaceri, o per negar la realtà di certi dolori. Non sottigliezze, non metafisica: non c’è bisogno di consultare nè Platone, nè Aristotele. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; il contadino come il principe, l’ignorante come il filosofo15.»
Cosa da non credersi, che un uomo d’ingegno e di studio come fu quello, abbia potuto confondere, in una maniera tanto strana, il dolore e il piacere congetturato col dolore e col piacere sentito! Certo: per conoscere che quello che si sente è o dolore o piacere, non c’è bisogno nè di Platone, nè d’Aristotele. Ma per conoscere la somma de dolori o de’ piaceri che potranno venir in conseguenza d’un’azione, affine di poterla chiamar giusta, morale, bona, o il contrario, non basta nè Platone, nè Aristotele, nè tutte le scole antiche, moderne e future, nè l’umanità intera: la quale, del resto, non ha mai messa in campo una pretensione simile. Ha bensì sempre tenuto che la probabilità dell’utile o del danno che possa derivare da un’azione, sia materia e studio della prudenza: non ha mai pensato a fondarci sopra il criterio supremo della moralità.
È manifestò in quel raziocinio del Bentham quel paralogismo che consiste nell’addurre tutt’altro che ciò che può servire alla dimostrazione della tesi. Questa richiedeva che si dimostrasse la possibilità di riconoscere effetti futuri; e l’autore allega la facilità, grandissima senza dubbio, di riconoscere uno stato attuale del proprio animo.
Dove, in vece, trova tutto oscurità è nell’idea dell’obbligazione: «oscurità la quale,» dice, «non potrà esser dissipata, che dalla luce dell’utilità.» Quale sia questa luce, se n’è parlato più che abbastanza; e in quanto a quell’oscurità, non ci sarà, credo, bisogno d’una lunga osservazione per scoprire nella prova che il Bentham intende di darne, un’altra evidente fallacia. Gioverà, per maggior chiarezza, riferire per intiero il luogo dove tocca questo punto.
«Chiunque, in tutt’altra occasione, dicesse: — È così, perchè lo dico io, — a nessuno parrebbe che avesse concluso gran cosa; ma, nella questione intorno alla norma della morale, si sono scritti di gran libri, nei quali non si fa altro, dal principio alla fine. Tutta l’efficacia di questi libri, e il credere che provino qualcosa, non ha altro fondamento, che la presunzione dello scrittore, e la deferenza implicita de’ lettori. Con una dose sufficiente di ciò, si può far passare ogni cosa. Da questo arrogarsi un’autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo (legare); e tale è là nuvola di nebbiosa oscurità, in cui è ravvolta questa parola, che, per dissiparla, si sono scritti de’ volumi intieri. L’oscurità rimane nondimeno fitta come prima; e non potrà esser dissipata, che col farci entrare la luce dell’utilità, co’ suoi dolori e co’ suoi piaceri, e con le sanzioni e i motivi che ne derivano16.»
In verità, ci volle anche qui tutta la prepotenza d’un sistema, per far cadere così un uomo tutt’altro che volgare in quell’errore volgarissimo, di fermar l’attenzione sopra alcuni fatti che escono dell’ordinario, e perciò danno più nell’occhio, senza farsi caso d’altri fatti innumerabili, che costituiscono appunto l’ordinario, e de quali si deve intendere, quando si dice collettivamente: il fatto. Guardò fisso alle ricerche e alle dispute d’alcuni dotti intorno all’obbligazione, agl’intieri volumi scritti su quella materia; non badò ai milioni e milioni di consensi che hanno luogo ogni giorno nell’applicazione di quella parola, cioè del concetto che esprime; ai milioni e milioni di casi, ne’ quali dicendo uno: c’è obbligazione di fare o di non fare una tal cosa, gli altri ripetono: c’è obbligazione; non già perchè l’ha detto quello, ma perchè l’avrebbero detto loro ugualmente. Non badò ai casi, anche più frequenti, ne’ quali quel concetto è sottinteso da chi sente, come da chi parla. Che su quell’applicazione medesima nascono anche dei dubbi e de dispareri, chi lo potrebbe o lo vorrebbe negare? Ma quest’incertezza di qualche volta, quest’oscurità parziale e occasionale nell’applicazione del concetto ai fatti, o al da farsi, è forse una condizione speciale del concetto d’obbligazione? No davvero: è la condizione dell’uomo nell’applicazione di qualunque concetto. Non si saprebbe da dove prenderne a preferenza le prove, appunto perchè ce n’è pertutto; se non che ce ne somministrano una affatto a proposito i concetti del dolore e del piacere, messi in campo dal Bentham. Certo, sono concetti chiari quanto si possa dire, e per tutti gli uomini ugualmente. Ma cos’accade poi nell’applicazione? Lo stesso per l’appunto, che in quella del concetto d’obbligazione; cioè che c’è un numero grandissimo d’effetti che gli uomini chiamano concordemente o piacevoli o dolorosi; ce ne sono alcuni, dove altri trovano piaceri, altri dolore. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; ma non sempre ognuno sente o dolore o piacere per le stesse cagioni. E del pari, obbligazione è ciò che ognuno intende come tale, quantunque non in tutti i casi ognuno intenda ugualmente che c’è obbligazione. E questi dispareri attestano, non meno de’ consensi, che l’idea è intesa da tutti. Infatti, come mai si potrebbe discordare sul quando uno sia o non sia moralmente obbligato, se non s’avesse in comune l’idea d’obbligazione morale? Cosa non sa trovare la malafede, per scapolare da un’obbligazione incomoda? Interpretazioni stiracchiate, falsi titoli d’eccezione, vane ragioni d’equità, impossibilità immaginarie, pretese obbligazioni opposte e prevalenti, e che so io? Ma non credo che a nessuno de’ più sottili maestri di quell’arte sia mai venuto in mente di dire: — Voi mi parlate d’obbligazione: cosa vuol dire obbligazione? Si tratta di moralità; e se c’è una materia nella quale importi aprir gli occhi, è questa sopra tutte. Come volete che un galantuomo par mio si regoli, in una tale materia, sull’autorità d’un termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità? Esaminiamo il caso alla luce dell’utilità; e quando m’avrete fatto vedere, non con l’autorità d’assiomi dottorali, ma con argomenti speciali e concludenti per questo caso, che il far io ciò che chiedete sarà confacente prima di tutto all’utile generale, o del maggior numero possibile, come vi piace, e poi anche al mio, com’è giusto, sarò prontissimo a compiacervi. — Al contrario, con quell’altre gretole che vanno cercando, confessano e attestano, se ce ne fosse bisogno, che anche loro intendono a maraviglia cosa voglia dire obbligazione.
Ecco come questa parola è oscura per il comune degli uomini. Ma quando anche si voglia non contar questi per niente, e non considerar altro che gli autori e gli studiosi de’ volumi intieri che trattano dell’obbligazione, se ne potrà forse inferire quella pretesa oscurità? Niente di più. Infatti, le ricerche e le dispute di que’ volumi s’aggirano, o anch’esse sull’applicazione, cioè su alcune applicazioni del principio di obbligazione, o sulla ragione fondamentale di essa; non già sulla sua essenza medesima, la quale è, all’opposto, il dato necessario delle questioni sull’applicazione, come abbiamo già osservato, e non meno di quelle che riguardano la ragione fondamentale. Non si fanno ricerche e dispute sul perchè e sul come l’uomo possa esser moralmente obbligato, se non in quanto s’ha in comune il concetto d’obbligazione morale: è una condizione indispensabile per i dotti, come per gl’ignoranti. Dire che il dubbio o il dissenso intorno a questo perchè, provano che non s’ha dell’obbligazione un concetto abbastanza chiaro, sarebbe quanto il dire che l’uomo non possa conoscer chiaramente, e posseder con certezza, e con legittima certezza, se non le verità delle quali abbia trovata e riconosciuta esplicitamente la ragione fondamentale. Il che implicherebbe una contradizione manifesta; giacchè l’uomo così fatto avrebbe a essere capace d’un’altissima riflessione, e incapace di cognizioni sulle quali poterla esercitare. I libri sull’obbligazione, allegati dal Bentham, non provano l’oscurità di questo concetto, più di quello che i libri i quali trattano della natura e delle cagioni del piacere provino l’oscurità di quest’altro: libri, ne’ quali ci potranno ugualmente essere delle sottigliezze; della metafisica poi ce ne sarà, di sicuro, in tutti. Che se, con un argomento derivato da quella filosofia sulla quale è fondato anche il sistema morale dal Bentham , ci si dicesse che il paragone non quadra, perchè il vocabolo piacere esprime il concetto d’una cosa che si sente, e quindi è chiaro di necessità; risponderemmo che la chiarezza de’ vocaboli non dipende dal significare oggetti d’una specie più che d’un’altra, ma dal significar degli oggetti, cioè degl’intelligibili di loro natura. E il Bentham, adoprando, in uno de’ passi citati dianzi, il vocabolo principio (per non citarne che uno il quale non può dar luogo a controversia), confidava di certo, e con tutta la ragione, che sarebbe inteso; quantunque un principio non sia una cosa che si possa sentire più d’una obbligazione.
Non possiamo qui lasciar di fare qualche osservazione anche sull’origine attribuita dal Bentham al concetto d’obbligazione morale, con quella proposizione già citata: «Da questo arrogarsi un’autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo.» E perchè questa proposizione s’intenda meglio, gioverà citare anche un passo che la precede quasi immediatamente, e al quale essa si riferisce.
«Per disgrazia gli uomini si mettono a discutere delle questioni molto importanti, già determinati a scioglierle in un dato senso. Hanno, per dir così, preso l’impegno con sè stessi di trovar che certi fatti saranno giusti, e cert’altri ingiusti. Ma il principio dell’utilità non permette questo sentenziar perentorio, e richiede che, prima di chiamar riprovevoli de’ fatti, si dimostri che tornino a scapito della felicità degli uomini. Una tale ricerca non fa per l’istruttore dommatico; quindi egli non vorrà aver che fare col principio dell’utilità. N’avrà in vece un altro adattato ai fatti suoi. Dirà con un’asseveranza che basti: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste17».
Quale argomento adduce il Bentham, per dimostrare che da questo arrogarsi un’autorità di sentenziare sulla giustizia o sull’ingiustizia di certe cose, sia nata la parola obbligazione, cioè sia entrato nelle menti il concetto d’obbligazione morale? Nessuno: lo dà per un fatto. È lui medesimo che, in questo caso, viene a dire: è così perchè io dico che è così. Eppure, se c’è qualcosa che abbia bisogno di prove, è certamente un fatto (lasciamo da una parte l’entità speciale di questo, che riguarderebbe un concetto così importante, così comune e così causale), è, dico, un fatto asserito per la prima volta da uno che sicuramente non ne fu testimone, e non ne potrebbe citar nessuno, nè vivo, nè morto; giacchè dove si trovano documenti o tradizioni d’un’epoca, in cui gli uomini non avessero il concetto dell’obbligazione morale?
In mancanza d’ogni prova di questo genere, ha almeno il Bentham tentato di dimostrare la necessità logica di quella supposta origine? Neppure; anzi si può credere che, se avesse intrapresa una tale ricerca, avrebbe messa quella supposizione da una parte; perchè si sarebbe dovuto accorgere che implicava contradizione.
Infatti, come mai, dall’aver sentiti, degli uomini affermare, con quanta prosopopea si voglia, che le tali e le tali cose non erano giuste, avrebbero degli altri uomini, ligi quanto si voglia all’autorità di quelli, potuto inferire che c’era obbligazione di non farle, se non avessero veduta o creduta vedere, se par meglio, una relazione tra la giustizia e l’obbligazione morale? Che un dottorone, per un’autorità conferitasi da sè medesimo, dica: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste; e degli uomini di testa debole ripetano docilmente: ergo non sono giuste; ci vedo un effetto possibilissimo del concorso di quelle due cause, presunzione degli uni, e deferenza degli altri. Ma perchè quest’altri vadano avanti e dicano: ergo c’è obbligazione di non farle, è proprio necessario l’intervento d’un’altra causa, cioè del concetto d’obbligazione morale, di cui quest’ergo è un’applicazione, e di cui i dottoroni non avevano neppur fatto cenno. La deferenza, quando non è regolata dalla ragione, può produrre de’ miserabili, e anche de’ perniziosissimi effetti; ma non degli effetti per i quali si richieda un’altra causa. E il Bentham (sia detto col riguardo dovuto al suo ingegno, ma con la libertà necessaria alla ricerca del vero) ha voluto far nascere il concetto dall’applicazione del concetto medesimo; che è quanto dire, l’istrumento dall’operazione, la possibilità dal fatto, la causa dall’effetto.
Che il vocabolo obbligazione, in senso morale, sia un traslato del verbo latino, obligo, non ne può nascer dubbio. Ma perchè un traslato ottenga il suo effetto, che è di far pensare una cosa, col nominarne un’altra, bisogna assolutamente che gli elementi necessari a costituire il novo concetto, o si trovino indicati nell’espressione adoprata a quest’ intento, o la mente gli abbia d’altronde. Ora il vocabolo legare non esprime che un’operazione, e sottintende, non solo qualcosa a cui quest’operazione si faccia, ma qualcosa che la faccia. E quindi nessuna mente potrebbe mai passare, per mezzo d’un tal vocabolo, a ideare l’effetto morale che s’intende per obbligazione, se non avesse l’idea di qualcosa che possa produrre quest’effetto nell’ordine della moralità. È evidente che l’autorità non è quest’idea, come suppone il Bentham. L’autorità, in quanto autorità, non fa altro che attestare: è una ragione estrinseca al concetto che pronunzia: potrà farlo accettare, a diritto o a torto, senza prove e senza dimostrazione; ma non può entrare a costituirlo. Se un dottore dommatico qualunque, col solo mezzo dell’Ipse dixit, e senza trovare preparato nelle menti l’elemento causale e necessario del concetto d’obbligazione, avesse detto addirittura: — Io pronunzio che siete obbligati a fare, o a non fare, — avrebbe predicato nel deserto: non sarebbe stato creduto, perchè non sarebbe stato inteso; e non sarebbe stato inteso, per mancanza di materia intelligibile. Il vocabolo obbligazione, non trovando nelle menti il mezzo indispensabile per esser trasferito a un significato morale, non avrebbe destato in esse altro che il suo concetto proprio d’un legar materiale. Ma che dico? quest’ipotesi stessa è assurda: come mai sarebbe arrivato lui medesimo al concetto d’obbligazione morale, per imporlo agli altri, senza una causa relativa ad esso, e distinta e affatto diversa dalla sua persona? E si veda l’autore stesso, mentre vuol far nascere, e immediatamente, quel concetto dall’autorità del dottore, gli fa dire: «Io pronunzio che queste cose non sono giuste.» Ci mette di mezzo, senza avvedersene, l’idea della giustizia: e con questo, viene, per una di quelle, direi quasi, insidie della verità, a riconoscere implicitamente quella che, come passiamo a osservar brevemente, è la vera generazione logica del concetto d’obbligazione.
È un fatto, tanto manifesto quanto universale, che gli uomini applicano a un genere di cose l’idea di giustizia, e, per conseguenza, a un altro genere opposto l’idea negativa d’ingiustizia; e ciò per una speciale convenienza che trovano nell’une, e per una speciale repugnanza che trovano nell’altre. Trovano, per esempio, quella speciale convenienza, un naturale incontro, un affarsi e un comporsi tranquillamente di cose, nel mantenere i patti, nel rendere il deposito, nel rispettare la vita, la persona e la roba altrui, nel ricompensare il merito, e simili. Trovano quella speciale repugnanza e contradizione di cose nell’affermare ciò che si sa non esser vero, nel far suo l’altrui, o per forza o per arte, nel contraccambiare un benefizio con un’offesa, e simili. Quando poi tali cose si considerano in relazione col potere che l’uomo ha di farle o di non farle, di volerle o di rifiutarle, con atti del suo libero arbitrio, allora ciò che, riguardo all’intelletto, era semplicemente verità, cognizione, prende naturalmente, riguardo a quell’altra facoltà, la forma di legge. Ed ecco come. L’operazione alla quale l’uomo è eccitato in que’ casi, è quella di scegliere. E tra quali cose? Tra una conosciuta dall’intelletto come giusta, e un’altra come ingiusta. Ora, c’è contradizione nel dire che una cosa la quale si manifesta all’intelletto come repugnante, possa diventar conveniente riguardo alla volontà; in altri termini, che una cosa muti la sua essenza, passando dall’esser semplicemente conosciuta, a essere appetita. Rimane dunque che, delle due determinazioni, tra le quali l’uomo è messo in que’ casi, una sola può esser retta, quella cioè che è consentanea alla giustizia.
Ed è appunto questo esser l’uomo ridotto a non si poter determinar giustamente, che in una sola maniera; questo essere aperta alla rettitudine una sola delle due strade aperte al libero arbitrio; questo trovarsi la volontà soggetta a un comando, a un divieto, che può esser trasgredito col fatto, ma che ha in sè una ragione assoluta; è questo, dico, che s’intende significare col termine d’obbligazione morale, o con quello di dovere, o con qualunque altro vocabolo, o forma verbale s’adoperi a significare il concetto medesimo18. Ho detto, qualunque forma verbale, perchè a significare un concetto, o (per non andar senza bisogno nelle generali) a significar quello di cui si tratta, non è punto necessario un vocabolo che ne rappresenti l’essenza direttamente e in astratto, e sia per dir così, il suo nome proprio. Questo può esser nato molto tardi, da un’osservazione più avanzata, e per opera, sia de’ filosofi, sia della filosofia che lavora secretamente anche nelle teste degli uomini che non ne fanno professione. È un vocabolo utile senza dubbio, ma, come dico, non necessario; e n’è la prova, che anche in lingue, dove pure c’è, e ce n’è più d’uno, si continua, in moltissimi casi, a esprimere il concetto, senza ricorrere a questi. Così è comune a diverse e probabilmente a molte di queste lingue, il dire che una cosa non si può fare, per significare che non è lecita. E, certo, non si vuol dire che non si possa assolutamente, in nessuna maniera; anzi si dice in opposizione al potere che l’uomo ha di farla in effetto: si vuol dire che non si può farla, e operar rettamente. Così, di chi abbia a scegliere tra due o più partiti diversi o anche opposti, ma nessuno de’ quali sia opposto alla giustizia, si dice che è libero di prendere quello che più gli piace. E si vuol forse dire che l’uomo sia libero solamente in que’ casi? Tutt’altro: si vuol dire che, in que’ casi, non è legato dalla giustizia a non poter prendere rettamente che un partito solo. Così si dice che la giustizia vuole, esige , richiede, prescrive, comanda, permette o non permette, esimili: tutte locuzioni che equivalgono al dire: c’è obbligazione di fare, o di non fare.
Questa è la ragione semplicissima, per cui il concetto d’obbligazione morale è pensato, significato, inteso pertutto dove s’intende che ci sono delle cose giuste e delle cose ingiuste; cioè pertutto dove ci son uomini. È un concetto che deriva da quello di giustizia; e non già, come in altri casi, da lontano, e per una lunga serie di concetti intermedi, dimanierachè potesse rimaner latente per un tempo indefinito, e finchè venisse un qualche gran pensatore che, di deduzione in deduzione, arrivasse a cavarnelo; ma ne deriva immediatamente e, dirò così, ne scappa fuori da sè. Qual uomo ha potuto dire: non sono cose giuste, o sentir queste parole intendendole, senza trovarci dentro subito, che si deve non farle?
Ma anche qui il Bentham non tarda a contradirsi, e nella stessa maniera che abbiamo osservata l’altra volta; cioè rinnegando implicitamente, per la forza del bon senso e del senso morale, ciò che aveva affermato per esser fedele al sistema. Poche righe dopo il passo che s’è esaminato ora, dice: «Far risaltare la connessione tra l’interesse e il dovere, in tutte l’occorrenze della vita privata degli uomini, è il nostro assunto. Quanto più addentro s’esaminerà il soggetto, tanto più manifesta apparirà la concordia tra l’interesse e il dovere.»
Ecco dunque quell’obbligazione (giacchè per dovere non si può qui intendere che la stessa cosa; e anche il Bentham fa vedere d’intenderla così, poichè usa promiscuamente i due vocaboli19, quel termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità, eccolo, tutt’a un tratto, diventato chiaro quanto mai si possa desiderare; giacchè, per poter riconoscere una connessione, una concordia manifesta tra due concetti, bisogna di necessità che siano chiari tutt’e due. Con un concetto tutto nuvole e nebbia non ci può essere nè concordia, nè contrasto, nè nulla. Ma lasciamo pure da una parte l’obbligazione, atteniamoci alla parola dovere; e vediamo che strane contradizioni, riguardo al sistema, escano dall’averlo ammesso, come fa il Bentham in quella proposizione, qualunque sia poi il posto che gli ha dato.
Quella proposizione implica necessariamente che il concetto del dovere sia, non solo chiaro, ma noto independentemente dal sistema; il quale, per cercar la moralità, non si serve punto di esso, anzi lo esclude, e non si serve, non parla d’altro, che dell’interesse. Quindi, per trovar la concordia del dovere con questo, bisogna aver già d’altronde la cognizione del dovere. E se, quanto più s’esamini, cioè quanto più chiunque esamini addentro il soggetto, tanto più gli appare manifesta una tal concordia, bisogna che la cognizione del dovere sia affatto comune.
Quella proposizione implica ancora, che il concetto del dovere contenga la verità; altrimenti, come potrebbe trovarsi d’accordo con l’interesse, che è posto dal sistema come la suprema verità morale?
Ora, chi dice dovere, dice una ragione di fare o di non fare: se si sottrae al vocabolo questo significato, non gliene rimane veruno. E dice di più una ragione morale; giacchè, levato da quest’ordine d’idee, il vocabolo perde ugualmente ogni significazione.
Avremo dunque, mettendo insieme quella proposizione col sistema, una ragione morale del fare e del non fare, chiara, nota, vera, e alla quale non si deve ricorrere per la scelta del fare e del non fare, in ciò che riguarda la moralità. Riguardo a questa s’ha a prendere una tutt’altra norma, quella dell’interesse: il dovere non c’è, che per trovarsi d’accordo con esso. La sua essenza è di prescrivere; e, tanto secondo il Bentham, quanto secondo la ragion delle cose, prescrive sempre ciò che è a proposito: secondo la ragion delle cose, perchè è un’applicazione diretta della giustizia, principio supremo della morale; secondo il Bentham, perchè concorda sempre con l’interesse, principio supremo della morale; e con tutto ciò, non s’ha a far caso nessuno delle sue prescrizioni. È una verità che non può essere applicata alla sua propria materia, una regola di condotta (cos’altro sarebbe?) che non potrà mai esser regola di condotta.
In queste o simili contradizioni sono caduti necessariamente tutti gli altri scrittori che, ponendo per principio della morale l’utilità, non hanno poi potuto a meno di non dare un posto qualunque a de’ vocaboli esprimenti qualcheduna di quell’idee che appartengono davvero all’essenza della moralità. Tali idee, che tra di loro formano un bellissimo e pacatissimo ordine, trasportate in un ordine artifiziale e apparente di tutt’altre idee, ci portano uno scompiglio, una confusione stranissima; divengono inquiete, perturbatrici, in qualunque posto si mettano, perchè è della loro natura di volere il tutto. Vediamone un altro solo esempio.
«Chiunque ammette il principio dell’utilità,» dice un altro celebre scrittore, «ammette anche il principio del giusto e dell’ingiusto20.»
Ecco, come dicevamo, ciò che accade naturalmente, nel progresso della discussione, a chi pone per principio d’una scienza ciò che non lo è: ammetterne anche un altro, o degli altri; che è un contradire insieme e a sè stesso e alle leggi della ragione. Per principio s’intende una verità che includa virtualmente un ordine, un complesso di verità relativamente secondarie, che si possano cavar da essa, come conseguenze. Ogni principio quindi contempla un tutto, e comprende una serie intiera di conseguenze (quali e quante siano poi quelle che se ne ricavano in fatto); e c’è contradizione nel dire che due verità diverse possano essere insieme principi d’una scienza, cioè subordinare a sè tutte, e riguardo al numero, e riguardo all’essenza, le medesime conseguenze; giacchè, appunto per essere verità diverse, deve ciascheduna includerne delle sue proprie, non già opposte, ma diverse da quelle dell’altra.
So bene che alcuni negano che tutte le conseguenze d’un principio siano vere nell’applicazione, quanto il principio medesimo; e dicono che non ci sono princìpi senza eccezione. Ma una così strana sentenza non ha altro fondamento, o piuttosto non ha altra origine, che il ricavare il concetto della cosa dall’abuso di essa. Può accadere (e se accade!) che uno o alcuni o molti diano il nome e la forma apparente di principio a una massima più generale, più comprensiva di quello che la verità richieda e permetta. E che tali massime patiscano dell’eccezioni non c’è dubbio. Ma su cosa cadono quest’eccezioni? Su un principio? Neppur per idea: cadono su una massima predicata arbitrariamente, e a torto; come un principio. E farebbe, di certo, un’opera molto utile chi prendesse a esaminare di proposito quella sentenza, se a metterne in chiaro partitamente e alla distesa l’erroneità. Ma per dimostrarne la fallacia radicale (e il nostro argomento non richiede di più) possono bastare poche parole. Si domanda dunque, se l’eccezioni che, secondo alcuni, patisce in pratica ogni principio, cadano su tutte le sue conseguenze, o sopra una parte solamente. Non potranno dire che sopra tutte; giacchè allora sarebbe negazione d’ogni principio, non sarebbero eccezioni a ogni principio. Se dunque non cadono che sopra una parte, ne viene di necessaria conseguenza, che, fatte tutte l’eccezioni, rimanga qualcosa che non patisce eccezione. E questo è appunto il principio, assoluto di sua natura, nella sua sfera legittima. Ammettere e adoprare il vocabolo, e negar questo attributo al concetto, è quanto dire che c’è verità nel predicare d’una totalità di cose ciò che non sia vero se non d’una parte di esse.
Il preservativo naturale contro questo errore, che renderebbe impossibile il ragionamento, e che, non potendo far tanto, riesce però a perturbarlo, e non di rado con incalcolabili conseguenze, sarebbe d’osservare, prima di proporre o d’accettare una massima, se abbia veramente quella ragione così generale che è espressa ne’ suoi termini. Ma ciò che impedisce di far uso, come si dovrebbe e si potrebbe, di questo preservativo, è che torna comodo alle volte di proporre o d’accettare come principio una sentenza dalla quale si possano cavare delle conseguenze che premono: sia poi, o non sia, ne’ limiti del vero, non importa. Quando poi vengono avanti degli altri che, avendo presa la sentenza più sul serio, richiedono che se ne cavino dell’altre conseguenze che non piacciano ai primi, come si fa? Rinnegare il principio, non conviene, perchè se n’ha bisogno per mantenere quelle tante, per amore delle quali s’era proposto o accettato. Si dice dunque: — Il principio è sacrosanto: non crediate che vogliamo ritrattarlo. Ma badate che ogni principio patisce le sue eccezioni: non ci sono principi assoluti. Voi volete andar troppo avanti con la logica; e la logica conduce all’assurdo. —
Senza dubbio, quando si prendono le mosse dall’assurdo. È il vizio naturale della logica, di condurre avanti l’uomo nella strada che ha preso lui.
E dove si troverà poi una regola per riconoscere fin dove le conseguenze d’un principio siano altrettante verità, e da quel punto in là diventino assurdi? È il bon senso dicono, che la fa trovare ne’ diversi casi. Ma se il bon senso è in lite con la logica, di quale istrumento si potrà servire, per ragionarle contro? che obbligo può avere il bon senso di prestare il suo aiuto, in un’occorrenza di questa sorte? È forse lui che ha suggerito di proporre o d’accettare una proposizione battezzata col nome di principio, prima d’esaminare quali siano le sue conseguenze logiche? Abiurare la logica (giacchè mutilarla è abiurarla), per servire al comodo o alla precipitazione d’alcuni, è un sacrifizio che il bon senso non può assolutamente fare.
Ora, per tornare al punto speciale in questione, essendo impossibile il subordinare in fatto uno stesso intiero ordine d’idee e d’azioni a due princìpi, quand’anche fossero due verità; dev’esser anche troppo facile che chi ha detto di volerlo fare, dica il contrario in un altro momento. Così è avvenuto nel caso presente. Nello stesso scritto, e nello stesso paragrafo, l’autore citato dice espressamente: «Il solo principio dell’utilità prescrive e proibisce (di credere e d’operare), perchè ne deve resultare o del bene o del male.» Cedeva, in quel momento, all’esigenza della logica, ma insieme all’esigenza del sistema, il quale non ha la sua forma apparente e il suo nomen habes quod vivas21, se non da una tale esclusività. E per far credere a sè stesso di poter mettere insieme due cose tanto contrarie, fu ridotto a attribuire espressamente la forza di prescrivere o di proibire all’utilità, la quale può bensì essere un motivo di fare o di non fare, ma non contiene nella sua essenza nulla, nulla affatto d’imperativo; e a negar virtualmente quella forza alla giustizia, la quale, o prescrive e proibisce davvero, o è una parola senza senso, e quindi da non ammettersi, né sola, nè in compagnia.
«Quando il bene prodotto diventa la preda di chi non ci ha alcun diritto», prosegue lo stesso autore, applicando alla morale il linguaggio dell’economia politica, «è prodotta un’ingiustizia; ora, ogni ingiustizia è un male (qui nel senso di danno), prima per chi ne patisce, e poi per la società, perchè disanima dal fare il bene, è contraria a ciò che aumenta la somma de’ beni, e insieme aumenta la somma de’ mali.»
Diritto? Ecco un’altra di quelle parole che il sistema non può accogliere impunemente. Certo, il diritto ha per oggetto o, dirò così, per materia un bene; ma non è, nè dalla natura, nè dalla quantità di questo bene, che nasca il diritto: tanto che, per servirci delle parole stesse dell’autore, un bene medesimo che per uno è materia di diritto, non è per un altro, che una preda. Il diritto, per conseguenza, porta con sè, dovunque e in qualunque maniera sia introdotto, una ragione sua propria che non lascia luogo a verun’altra; giacchè, o è anch’esso un vocabolo senza forza, e perchè metterlo in campo? o ha una forza, e è quella di prescrivere. E fitto questo, non rimane più ad altro nulla da fare.
Ogni ingiustizia è un male. Senza dubbio; ma quando si sa questo, che bisogno c’è di cercare un’altra norma per giudicare e per regolarsi, riguardo all’azioni dov’è interessata la giustizia? Che bisogno c’è di buttarsi nell’avvenire, per indovinare l’utilità o il danno che verrà da una azione, quando c’è un mezzo di saperlo, cioè il suo esser giusta o ingiusta? Con questa concessione, che non è, certo, esorbitante, e che era anzi naturalissima dalla parte d’un uomo onorato come fu l’autore che citiamo, viene a riconoscere che quand’anche l’utilità fosse quella che costituisse la moralità dell’azioni (il che non si vuol, certo, concedere), il criterio della moralità di esse si dovrebbe prendere dall’Idea della giustizia. Tanta, e così rigogliosa e rinascente è la forza de’ vocaboli che rappresentano dei veri princìpi, e de’ princìpi altissimi, come questo!
Non voglio dire che producano necessariamente e sempre un tale effetto. In un altro luogo di quel medesimo Saggio sul principio dell’utilità, l’autore dice solamente che, tanto nelle cose pubbliche, quanto nelle private, l’onesto è quello che c’è di più utile; e che, se si può citar qualche caso in cui un’azione contraria alla giustizia sia riuscita in profitto del suo autore, o de’ suoi autori, se ne può citare dieci volte tanti del contrario. E da questo conclude che «bisogna governarsi secondo il successo più probabile, cioè più sicuro e costante, malgrado alcuni esempi contrari.» Qui non concede, è vero, ma si contradice. E tra l’ogni e la più parte, non ci corre una di quelle differenze che si possano trascurare, perchè non cadono nell’essenza della cosa. Non è differenza, è opposizione: E dove? Nel dato fondamentale del sistema.
E non è egli, diciamolo pure, una cosa deplorabile il vedere scrittori e celebri e benemeriti per altri titoli, condannati a questo perpetuo Exclusit revocat22? a eliminare virtualmente la giustizia e il dovere, per servire al sistema; e a riammetterli, in una maniera qualunque, per ubbidire al bon senso e al senso morale? a posarsi, ora sulla probabilità, perchè il sistema non può dar altro; ora sulla certezza, perchè la cosa ne richiede una?
E per liberarsi da tali contradizioni, quale studio, qual fatica, quale sforzo s’ha egli a fare, finalmente? Nient’altro che scotere il giogo pesante, ma posticcio e fragile, d’un sistema arbitrario; lasciar, per amore, la giustizia al suo luogo, in vece d’esser ridotti a dargliene uno per forza; lasciare al suo luogo la prudenza, in vece di collocarla in un’altezza solitaria, dove non si riesce a mantenerla; non darsi a credere, in somma, d’aver costruito un edilizio novo con lo spostar due cose tanto vecchie.
E avremmo finito; ma non ci pare inutile il prevenire un’obiezione, o un’osservazione, se si vuole, che potrebbe venirci da tutt’altra parte. Essendo già morti da qualche tempo i più celebri sostenitori del sistema, e sopite d’allora in poi le controversie che aveva fatte nascere, potrà dir qualcheduno, che è una questione oramai antiquata, e che non ci era quindi nessuna opportunità di rimetterla in campo. E potrà probabilmente aggiungere che sono venuti in campo tutt’altri sistemi; i quali non parlano, in vece, che di giustizia sociale; ma d’una giustizia nova, inaudita, portentosa in ciò che pretende, come in ciò che promette. Sistemi, dirà, che hanno fatto andare in obblivione quello, intorno al quale abbiamo spese tante parole, come il sollevarsi della burrasca fa scomparire l’onda leggiera del bel tempo.
A questo si potrebbe, prima di tutto, rispondere che il non esser più, da qualche o da molto tempo, una dottrina argomento di trattati e di controversie, è tutt’altro che un indizio sicuro dell’esser, nè cessata nè indebolita la sua efficacia pratica. Può anzi indicare il contrario, cioè che abbia ottenuto il suo effetto. Quando la materia messa nella caldaia del tintore ha preso il colore bene, la tinta si lascia andar via. E non già (come abbiamo accennato altrove, e come, del resto, nessuno ignora) che questa sia una dottrina affatto nova. Anzi, come errore pratico, è il più antico di quanti siano entrati nel mondo. Sarete come Dei23, è il primo consiglio d’utilità che sia stato opposto a una regola, e regola suprema, di giustizia, qual è l’ubbidienza della creatura al Creatore; come il più spaventoso di quanti ne vennero in conseguenza, fu quell’altro: «Torna conto a voi che un uomo moia per il popolo24.» L’utilità pubblica fu sempre un pretesto per violar la giustizia; essendo, come abbiamo anche accennato, il mezzo più spiccio di sostituire a una questione in cui non si troverebbero che argomenti contrari, e d’immediata riprovazione, un’altra dove ce n’è per una parte e per l’altra; e argomenti, i quali, a chi non riflette e, per conseguenza, non distingue, possono parer validi, perchè in un altr’ordine di cose, hanno un loro valore. Fu, come s’è visto, l’espediente adoprato da Temistocle, ma non inventato da lui. E anche speculativamente, la dottrina che fa derivare la morale dall’utilità, era stata enunciata più d’una volta, ma o con asciutte sentenze, o con applicazioni limitate e parziali25. Quello che ci fu di novo, fu il ridurla a sistema, con un metodo chiamato e creduto da molti scientifico, e con un’apparenza, quantunque superficiale e incostante, d’unità e d’universalità. E chi sa dire quanta autorità possa, non solo dare, ma mantenere a un sistema l’essere sostenuto da degli scrittori, l’autorità de’ quali, in altri argomenti, s’è stabilita e si mantiene per bonissime ragioni?
Che se si dovesse (cosa, per fortuna, non richiesta in una questione accessoria) venire alle prove di fatto, noi crediamo che ci mancherebbe tutt’altro che la materia. Non so se ci sia mai stata un’epoca piena, quanto la presente, di fatti grandi e gravi, sia per questa o per quella nazione, sia per una parte più vasta dell’umanità; ma credo che, senza incontrare contradizione, si possa affermare che non ce ne fu alcuna in cui i fatti d’un tal genere siano stati come in questa, preceduti, mossi, spinti, attraversati, modificati, seguiti da dibattimenti pubblici, o da libri e scritti d’ogni genere, ragionamenti, storie, relazioni storiche, memorie, come le chiamano, diatribe, apologie e va discorrendo. Mai la parte della società, che legge e che scrive, non ebbe, come in quest’epoca, il campo e la voglia di far conoscere la sua maniera, cioè le sue maniere di pensare su un tal proposito. Ognuno può quindi, in quella farraggine di documenti, o anche semplicemente nelle sue rimembranze, o nelle cose del momento, osservare se sia stato e sia, o raro o frequente il caso di sentire proposta l’utilità (presunta, non si dimentichi) come l’unica e independente ragione della bontà delle risoluzioni da prendersi; raro o frequente il caso, che all’obiezioni o ai lamenti fondati (bene o male, non importa ) sul principio della giustizia e del diritto, si sia creduto e si creda di rispondere categoricamente e trionfalmente col dire che il danno sarebbe di pochi, e l’utilità d’un numero molto maggiore.
Ma un altro argomento da non trascurarsi, e da potersi anch’esso accennar brevemente, ce lo somministrano que’ sistemi medesimi che ci potrebbero essere opposti da qualcheduno.
Cosa sono essi infatti, se non una nova fase del sistema utilitario, nove applicazioni di quel così detto principio? Parlano, è vero, di giustizia26; ma cosa intendono poi per giustizia? Null’altro che il godimento de’ beni temporali ugualmente diviso. Ora, anche i primi utilitari erano pronti a permetter che s’usasse questa parola, a usarla loro medesimi, purchè non gli si desse altro significato che quello d’utilità, o anche d’un non so che altro, se si voleva, ma d’un non so che, il quale non avesse alcuna ragione sua propria, e non la potesse ricavare se non dall’utilità o dal danno che possa esser cagionato dall’azioni umane. Senonchè, quelli tra di loro che trattarono materie, sia di legislazione, sia d’economia politica, sia d’altri rami della scienza sociale, furono, come accade spesso ne’ primi passi, ben lontani dall’applicare alla totalità di ciasceduna di quelle materie il prinpipio sul quale pretendevano che dovessero esser fondate. Ammisero a priori, e senza badarci (perchè della parola avevano orrore), un certo stato della società, certi princìpi di diritto pubblico e privato, ricevuti ugualmente e dalla scienza e dalla credenza comune; e a tutto ciò subordinarono, nella maggior parte de’ casi, le loro ricerche intorno all’utilità. E questa loro infedeltà al sistema spiega, sia detto incidentemente, il come più d’uno di loro abbia potuto trovare, in questa e in quella materia, delle regole molto giudiziose, degli espedienti molto vantaggiosi, rimettere nel loro vero punto molte questioni, e combattere vittoriosamente degli errori accreditati, e dominanti nella pratica. Cercavano l’utilità; ma, in que’ casi, la cercavano nell’ordine di cose secondario, dov’è ragionevole il cercarla; applicavano l’esperienza, l’osservazione de’ fatti, ma ne’ limiti della sua vera autorità. Quando poi, da tali verità secondarie, volevano salire a quelle più alte e più complessive, che si chiamano princìpi, trovavano la strada chiusa da un muro che s’erano lasciati alzare dietro le spalle, cioè da una filosofia, al dominio della quale s’erano assoggettati, e che li faceva voltare per luoghi senza strada, e correre a dell’apparenze chiamate trariamente e contradittoriamente princìpi, senza poter nemmeno rimanerci poi di piè fermo.
Gli autori de’ novi sistemi, trovando eccellente quello ch’era stato chiamato il principio dell’utilità o, (che è lo stesso, se non di più prendendo le mosse da quello, senza neppur pensare che si devano, nè che si possano prender d’altronde, videro quanto fosse inadequata l’applicazione che n’avevano fatta i loro antecessori. — A noi, dissero a questi, o fu come se dicessero, a noi a far fruttare il gran principio che predicate e mettete in cima di tutto, senza intenderne il senso profondo, l’esigenza e la potenza. Utilità avete detto; e avete spiegato benissimo che utilità in ultimo, non significa altro che piacere, godimento, sia fisico, sia morale. Egregiamente. Godimento dunque (in questa vita, s’intende), ma per tutti e davvero, come richiede il principio. E cos’avete fatto finora voi altri economisti e legisti, per realizzarne l’intento? Vi siete baloccati intorno a dell’istituzioni secondarie e parziali, che ne suppongono delle primarie e generali, e di queste avete ammessa a credenza la necessità e la ragionevolezza, per l’autorità del fatto materiale e di consuetudini e d’opinioni formate e stabilite, da un pezzo senza dubbio, ma quando il gran principio non era apparso nella sua piena luce, e nemmeno entrato nella scienza. Avete cercato qual sia la maggior somma d’utilità che si possa ottenere, date certe istituzioni; in vece di cercare, come richiedeva il principio, quali siano l’istituzioni adattate a produrre la maggior somma d’utilità per tutti. E dopo di ciò avete lasciato all’individuo l’incarico di combinare il suo utile proprio con quello degli altri. Era un dire a alcuni: Voi, ai quali l’istituzioni sociali assicurano, per privilegio, una gran quantità di godimenti, sacrificate al vostro interesse ben inteso un di più che una cupidigia poco accorta potrebbe farvi desiderare. Era un dire a moltissimi: Voi altri poi, che l’istituzioni sociali privano di tanti e tanti di que’ godimenti, il vostro interesse ben inteso vuole che vi contentiate de’ pochi che vi concedono; perchèquell’istituzioni sono congegnate in maniera da farvi capitar peggio, se non ve ne contentate. È egli codesto un applicare sinceramente e logicamente il principio dell’utilità alla società umana? All’istituzioni, dunque, dev’esser commessa la grande impresa, non agl’individui, che, nella società come è stata accomodata, viene a dire alcuni che non vogliono, e moltissimi che non possono; a delle nove istituzioni; che costringano gli uni, e soddisfacciano gli altri. E siamo qui noi a proporle. —
Come le proposte siano state concordi, ognuno lo sa: e si poteva prevedere; giacchè, quanto più si tenta d’applicar fedelmente e in grande un falso principio, tanto più si va lontano dal poterlo fare nella stessa maniera.
Alcuni di questi scrittori hanno negata, senza tergiversare, anzi con sdegno, la vita futura. E fu anche questo un progresso logico, come s’è toccato sopra, nell’applicazione del principio dell’utilità. Proporla per regola e per fine di tutte l’azioni umane, e restringerla in fatto al godimento de’ beni temporali, lasciando poi in sospeso se, al di là della vita presente, ci siano per l’uomo altri beni e altri mali, è un contrasto troppo evidente tra la franchezza delle conclusioni e l’esitazione delle premesse. È lo stesso che se uno vi presentasse come definitiva una somma raccolta appiè d’una pagina d’un libro di conti, senza sapervi dire se sia o non sia l’ultima pagina. Che alcuni riescano, dirò così, a sonnecchiare fino alla fine in una tale indecisione, può darsi benissimo; ma tenerci tutti gli altri, no. E col moltiplicarsi il numero de’ seguaci d’una dottrina che mette il tutto nell’utilità, e tutta l’utilità nella vita presente, dovevano, quasi di necessità, uscirne quelli che ci aggiungessero, come un postulato indispensabile, che il conto finisce con la morte.
Che se, finalmente, alcuno dicesse che sono questioni divenute antiquate anche queste, essendo tali novi sistemi stati tutt’a un tratto sepolti nel silenzio; risponderemmo in genere, che, quand’anche non dovessero più vivere altro che nella storia (e hanno fatto abbastanza per questo), non è mai superfluo il ricercare l’origine d’opinioni che abbiano trovati de’ seguaci, tanto d’aver tentato di passare nella realtà e in una vastissima realtà; e risponderemmo in specie, che molto meno ci pare superfluo il dare occasione a tanti che trovano pure strani que’ sistemi, d’esaminare più a fondo di quello che abbiamo saputo far noi, se non nascano direttamente e quasi inevitabilmente, da una dottrina che forse trovano molto sensata. Quel silenzio è venuto da un fatto; e i fatti non ottengono una vittoria finale, non solo sulla verità, ma nemmeno sull’errore, quando la più alta cagione di esso rimane viva e invulnerata nelle menti; e tanto più, se inavvertita. I princìpi veri e i falsi princìpi sono ugualmente fecondi; senonchè col dedurre dai primi, s’aggiunge; col dedurre dagli altri, si muta: e appunto perchè non si riesce mai a farne un’applicazione che soddisfaccia la logica, si continua, finchè conservano quella falsa autorità, a tentarne delle nove applicazioni, sia col fantasticare delle nove forme d’errore, sia col rimetterne in campo, a tempo più opportuno, di quelle che da altri si credevano sepolte per sempre.
Note
- ↑ Bentham, Deontology, etc. Deontologia, ovvero Scienza della moralità, etc. Part. I, Cap. I.
- ↑ Traités de Législation civile et pénale, extraits des manuscrits deT. Béntham, par Et. Dumont; Principes de Législation, Chap. V. — Un altro scrittore, celebre, e meritamente per più d’un titolo, G. B. Say, ripetè e fece sua quella strana interpretazione. Essai sur le Principe de l’Utilité, § 1.
Non si potrebbe poi attribuire se non a un grosso inganno della memoria, quel far ricavare una nozione confusa dell’utile, come opposto all’onesto, dalla lettura degli Ufizi di Cicerone, dove quel fatto non è citato; che per cavarne la conseguenza contraria: Maneat ergo, quod turpe sit, id numquam esse utile. III, 12. E nella conclusione di quel terzo libro, in cui si tratta appunto delle relazioni dell’utile con l’onesto: Utilitatem nullam esse docuimus, quæ honestati esset contraria, 35. - ↑ Naturam expellas furca, tamen usque recurret. Horat. I, Epist. X, 24.
- ↑ De Tracy, Élémens d’ideologie, Tome V: Seconde partie du Traité de la volonté: De nos sentimens et de nos passions, ou Morale; Chap. I.
E scambievolmente si dovrebbero, stando a quella massima, giudicare immuni da ogni immoralità altre azioni, delle quali si può ugualmente asserire con tutta sicurezza che i sostenitori della massima porteranno un giudizio opposto. Vediamone anche qui la prova in un esempio. Un uomo ben diverso dal dissodatore di poco fa, si propone d’avvelenare due galantuomini che gli danno noia; a uno dà effettivamente del veleno; all’altro, per uno sbaglio fortunato, amministra una sostanza innocua, o anche salutare. Ecco due effetti passabilmente diversi: trovatemi l’uomo che, per mantenersi coerente alla massima, giudichi diversamente le due azioni, chiamando immorale la prima, e l’altra no. Applicata poi a’ sentimenti, quella massima fa necessariamente la stessa riuscita, ma con qualcosa di specialmente strano, in quanto, potendo i sentimenti non produrre alcun effetto, la morale, in questo caso, non avrebbe nulla a dire intorno ad essi. Un uomo, in punto di morte, desidera in cor suo, con un odio disperato, la rovina d’un innocente; un altro, nello stesso stato, con una benevolenza pietosa, ne desidera la salvezza: dov’è, dirò ancora, il partigiano di quella dottrina, il quale dica, pensi, sogni, che que’ due sentimenti, perchè privi d’effetto, non possano esser chiamati né morali nè immorali? - ↑ Se crediamo a un celebre moralista antico, citato da Plutarco, e a Plutarco medesimo, Aristide avrebbe professata e messa in pratica anche la massima opposta a quella che è sottintesa nel giudizio che diede del progetto di Temistocle. Ecco il passo di Plutarco nella vita d’Aristide, secondo la traduzione del Pompei.
«Aristide fece poi giurar gli altri Greci intorno alle convenzioni dell’alleanza, ed egli stesso giurò a nome degli Ateniesi, e fatte le imprecazioni contro chi violasse quel giuramento, gittò roventi masse di ferro nel mare. Ma in progresso di tempo, costretti venendo gli Ateniesi dalla qualita degli affari» quale abuso di parole! gli affari che costringono la volontà «ad usar un alquanto più autorevol dominio, esortò gli Ateniesi stessi a rivolgere tutto lo spergiuro sopra di lui medesimo, dove tornasse meglio governar le faccende in diversa maniera di quella che avevan giurata. Teofrasto però, generalmente parlando di quest’uomo, dice che, quantunque egli in tutte le cose domestiche, e ne’ particolari negozi dé cittadini, giusto fosse al maggior segno, pure negli affari pubblici molte cose faceva secondo la costituzione e le circostanze della patria sua, come se queste esigessero che frequentemente usar si dovesse ingiustizia. Conciossiachè raccontasi da quello scrittore, che, consultandosi intorno al trasportare i danari delle pubbliche contribuzioni da Delo ad Atene, ed essendo que’ di Samo che ciò insinuavano, egli disse che la cosa non era veramente giusta, ma utile.»
Ecco un ma che fa un ufizio ben diverso da quello dell’altra volta. E è veramente singolare che Plutarco, il quale riferisce nella Vita medesima, e il consiglio dato a proposito del progetto di Temistocle, e quest’altri due, non abbia avuto nulla a dire di una contradizione tanto enorme. E più singolare ancora, che da Plutarco in poi, si sia continuato a citare e a celebrare quel primo consiglio, come una prova della severa e segnalata moralità d’Aristide, e a chiamar anche costui, all’occorrenza, il giusto per antonomasia, come se la storia, vera o falsa, non riferisse di lui altro che quello. - ↑ Qui de tenebris vos vocavit in admirabile lumen suum. Petr. 1, Epist. II, L, 9.
- ↑ Et si coram hominibus tormenta passi sunt, spes illorum immortalitate plena est... III, 4.
- ↑ Expectatio iustorum lætitia. Prov. X, 28. . Spe gaudentes. Rom. XII, 12.
- ↑ Spes autem non confundit; QUIA charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est vobis. Ibid. V, 5.
- ↑ Pax Dei, quæ exsuperat omnem sensum. Philip. 1V, 7
- ↑ Sicut abundant passiones Christi in vobis, ita et per Christuin abundat consolatio nostra. II Corinth. I, 5. Quasi tristes, semper autem gaudentes. Ibid. VI, 10.
- ↑ Esprit des lois. Liv. XXIV, Chap. 3.
- ↑ Diliges proximum tuum sicut teipsum. Matth. XIX, 1
- ↑ Omnia quæcumque vultis ut faciant vobis homines, et vos facite illis. Matth. VII, 12.
- ↑ Traités de Législation civile et pénale, extraits des manuscrits de J. Bentham, par Èt. Dumont; Principes de Législation, Chap. I.
- ↑ Deontology, etc. Deontologia, ovvero della Scienza Morale, ecc. Parte 1, Cap. I.
- ↑ Ibid.
- ↑ V. Rosmini, Filosofia del Diritto; Sistema morale, Sez. i, viii.
- ↑ Subito dopo gli argomenti contro l’idea d’obbligazione che abbiamo esaminati, aggiunge: «È infatti una cosa affatto inutile il parlar di doveri; il vocabolo stesso ha in sè qualcosa di disaggradevole e di repulsivo: e per quanto ci si parli sopra, non diventerà mai regola di condotta.» È evidente che qui dovere sottentra come sinonimo a obbligazione.
Questo vocabolo «dovere» si trova anche nel titolo dell’opera che citiamo: Deontologia, ovvero Scienza della morale: in cui è dimostrata e esemplificata l’armonia del dovere con l’interesse proprio, ecc. - ↑ J. B. Say, Essai sur le principe de l’utilité, § I.
- ↑ Joan. Apoc. III, 1.
- ↑ Terent. Eun. I, 1, 4
- ↑ Eritis sicut dii. Genes. III, 5
- ↑ Vos nescitis quidquam, nec cogitatis quia expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo. Joan. XI, 49, 50.
- ↑ Tra gli scrittori che presero l’utilità per norma suprema de’ loro giudizi nelle cose politiche, toccò al Machiavelli il tristo privilegio di dare il suo nome, in più d’una lingua, a una tale dottrina; anzi a una sola e speciale applicazione di essa; giacché i vocaboli derivati da quel nome furono destinati a significare esclusivamente l’uso della perfidia e, a un bisogno, della crudeltà, al fine di procurare l’utilità o d’uno, o d’alcuni, o di molti. Il giudizio implicito in que’ vocaboli non è vero che in parte. Il Machiavelli non voleva l’ingiustizia, sia astuta, sia violenta, come un mezzo nè unico, nè primario, ai fini proposti. Voleva l’utilità, e la voleva, o con la giustizia, o con l’ingiustizia, secondo gli pareva che richiedessero i diversi casi. E non si può dubitare che il suo animo non fosse inclinato a preferire la prima. Senza ricorrere al testimone della sua condotta, e come politico, e come privato, la cosa appare da’ suoi scritti medesimi: poichè, se nel lodare o nel consigliare l’ingiustizia, è sottile; nel maledirla, e nel lodare e consigliare il contrario, è anche eloquente e qualche volta affettuoso. Ne è un bel saggio il capitolo X del libro I de’ Discorsi sulle Deche di T. Livio, che ha per titolo: «Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o d’un regno, tanto quelli d’una tirannide sono vituperabili.»
Più lontana dal vero, per tutti i versi, fu certamente l’opinione d’alcuni, i quali non videro delle massime inique, che in una sola opera del Machiavelli, cioè nel Principe; e per giustificarne l’autore, dissero che in quel libro non s’era proposto d’esporre i suoi veri sentimenti, ma di dare de’consigli pessimi a’ dominatori della sua repubblica, per farli cadere in un precipizio. Da una parte, la scusa sarebbe troppo peggiore del fallo. Strana maniera di purificare un insegnamento perverso, il farlo diventare anche un’impostura e un agguato! E strana retribuzione quella che dovesse portar rovina e infamia ai discepoli, lode e trionfo al maestro! Dall’altra parte, basta scorrere i Discorsi sulle Deche, per trovarci non di rado lodata e consigliata l’ingiustizia supposta utile. Così, dopo avere, nel Cap. XXI del libro III, mostrato con vari esempi, e segnatamente con quello di Scipione, quanto possano tornar utili, nelle cose di Stato, «gli atti d’umanità, di pietà, di castità, di liberalità,» passa l’autore, nel capitolo seguente, a cercare come mai Annibale abbia potuto, «con modi tutti contrari, cioè con violenza, crudeltà, rapina e ogni ragione d’infedeltà, fare il medesimo effetto in Italia che aveva fatto Scipione in Spagna;» e trova che l’una e l’altra di queste due condotte ha i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti; e conchiude, «come non importa molto in qual modo un capitano si proceda, purchè in esso sia virtù grande che condisca bene l’uno e l’altro modo di vivere; perché, com’è detto, nell’uno e nell’altro è difetto e pericolo, quando da una virtù straordinaria non sia corretto.» E chi non sapesse che, per virtù, il Machiavelli, intende abilità e forza d’animo, non saprebbe raccapezzarsi come la virtù abbia a condire la violenza e quell’altre cose simili. E per citarne un altro esempio solo, nel Cap. XIII del libro II vuol dimostrare che «la fraude fu sempre necessaria ad usare a coloro che da piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire; la quale è meno vituperabile, quanto è più coperta.» E qui, se non m’inganno, si vede il perchè, nel Principe, dedicato a Lorenzo de’ Medici, che era appunto in un tal caso (e la dedica lo accenna), la fraude abbia molta più parte che ne’ Discorsi.
Un così brutto mescuglio negli scritti d’un così grande ingegno non venne da altro che dall’aver lui messa l’utilità al posto supremo che appartiene alla giustizia. E quante mirabili cose non ci sono come offuscate da una troppo diversa compagnia! Quanta sagacità nel discernere e nel connettere le cagioni degli avvenimenti, nel vedere la concordanza o il contrasto tra gl’intenti degli uomini e la forza delle cose! Quanti consigli nobilmente avveduti, quanti umani e generosi intenti, in tutti quegli scritti, ogni volta che la giustizia c’è, o rettamente predicata, o semplicemente sottintesa! E che mirabile e feconda unità non si sarebbe formata ne’ concetti di quella mente, se quello della giustizia ci avesse sempre tenuto, o nell’una o nell’altra maniera, il suo posto! - ↑ L’opera del Godwin, che fu, se non m’inganno, la prima di questo genere, tra le moderne, che abbia avuta celebrità, porta quella parola nel titolo medesimo: Inquiry concerning political justice, etc. Ricerche intorno alla giustizia politica, e alla sua influenza sulla felicità. Londra, 1793.