Pensieri e discorsi/Il sabato/IV

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IV.


Il sole non si dileguava così presto dietro il Sanvicino: esso colorava qua in rosa tenue, là in rosa carico, qua in oro, là in violetto, le nuvole che parevano essere convenute per assistere alla sua discesa. A un volger d’occhio, quella si scolorava in ardesia, questa trascolorava in porpora. E non mi pareva che il sole dicesse cadendo quelle triste parole. Già con me erano di troppo: ma mi ricordo che quando ero, non un poeta giovane, ma un giovane proprio, il sole al tramonto mi diceva sempre, come dirà anche oggi ai giovani lettori del Leopardi:

Che la beata gioventù vien meno.

Il Passero solitario dicono che sia concezione, se non lavoro, della prima giovinezza del Poeta: dell’anno 19 che fu a lui il più ricco di ispirazioni. Fu concepito, in vero, quando il poeta non curava più

 sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia;

quando non era più quel fanciullo giocondo di cui egli stesso narra: [p. 64 modifica]

 In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
5Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza.

Giacomo godè il suo Sabato, “giorno d’allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno„. La sua fanciullezza passò, come raccontava il suo fratello Carlo, tra giuochi e capriole e studi; ma passò in un collegio. Carlo lodava suo padre “d’averli tenuti presso di sè„: ma certo questi li tenne più da rettore che da padre. Monaldo credeva d’aver ricevuto una instituzione molto imperfetta. “L’ottimo Torres„ egli dice “fu l’assassino degli studi miei, ed io non sono riuscito un uomo dotto, perchè egli non seppe studiare il suo allievo e perchè il suo metodo di ammaestrare era cattivo decisamente„. Ora sin dall’età di anni quattordici egli aveva detto fra sè che avendo figli non avrebbe permesso ad alcuno lo straziarli tanto barbaramente. Come tenne il suo proponimento? In una cosa intanto: nel non mandare in monastero la figlia Paolina, come vi era stata mandata la sorella di lui, con la quale e col fratello finchè gli visse, aveva trascorso i suoi primi anni. Egli sofferse molto di quell’allontamento e non volle dare a Giacomo e a Carlo il dolore che aveva provato esso. Poi: avrà certo raccomandato ai precettori che forniva ai suoi figli, di non essere così pedanti da esigere da essi la recitazione a memoria di “libri intieri senza il più piccolo errore„. Ma i precettori volle che fossero preti: don Giuseppe Torres per primo (il suo maestro “di una severità intollerabile„); poi don [p. 65 modifica]Sebastiano Sanchini. Egli diede inoltre ai figli un pedagogo, che sempre li accompagnasse, “pedante, vermiglio, grasso, florido„, don Vincenzo Diotallevi, buon bevitore. Quelli erano i maestri o professori, questo il prefetto; il rettore, s’intende, era Monaldo. I giuochi dei ragazzi erano quali si fanno oggidì nei collegi un poco all’antica; quali mi ricordo d’aver fatti anch’io nel collegio dei buoni Scolopi, ai quali sono grato dal profondo del cuore: battaglie romane. Intanto che Napoleone (Monaldo nel 1797 avrebbe potuto vederlo. “Passò velocemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi, perchè quantunque stessi al suo passaggio nel palazzo comunale, non volli affacciarmi alla finestra giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo„) intanto che Napoleone combatteva ad Austerlitz e a Iena, i piccoli Leopardi e i piccoli cugini Antici, battagliavano a Canne o a Zama, nel gran salone, al chiarore delle nevi, o nel giardino; e Giacomo mostrava, sotto il nome o di Scipione o di Annibale, quell’ardore guerresco, che si adempiè poi nel 18 coi celebri versi:

L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.

Sanno di collegio le passeggiate fatte sempre insieme e sempre col prefetto o pedagogo; sa di collegio la burla fatta al buon prete, che Giacomo descrisse nella poesiola “la Dimenticanza„; sa di collegio quel porsi nomi finti (Giacomo era Cleone; Carlo, Lucio; Paolina, Eurilla). Si narra persino del romanzo letto di nascosto... Nè mancavano gli esami [p. 66 modifica]e le premiazioni. “Noi tre„, racconta Carlo, “fratelli più grandi, Giacomo, io e la Paolina, davamo talvolta in casa saggi quasi pubblici dei nostri studi„. E da questa vita di soggezione continua e di regolarità uniforme veniva quel bisogno delle fole e delle novelle, che Giacomo raccontava e Carlo ascoltava a lungo; e derivò presto quell’opposizione di pensieri col loro padre, che nei collegi è solita tra alunni e superiori. Giacomo “l’onorare i genitori non intendeva esserne schiavo„. Ciò nei tempi in cui si confessava, poichè “ne fu dichiarato empio dal prete„. Il noto dissidio tra padre e figlio, che ha diviso gli studiosi del Leopardi in due fazioni, quella dei Monaldiani e quella dei Giacomiani, nacque, o almeno fu reso facile o possibile, da questo fatto: che Giacomo, come i suoi fratelli, vide da fanciullo nel padre più il superiore che il genitore; e ciò attenua la colpa sì di Monaldo, se è di Monaldo, perchè egli operava a fin di bene, sì di Giacomo, se è di Giacomo, perchè egli non credeva di fare tanto male. Col tempo, Carlo lodò suo padre e della severa educazione e dell’istruzione “forse migliore di quella dei collegi„, come lodiamo noi ora quel buon rettore di cui da ragazzi dicevamo tanto male. Certo noi ameremmo o amiamo i nostri figlioli in modo diverso; ma non si può dire che Monaldo non li amasse a modo suo. Oh! egli avrebbe fatto meglio, dico io non ostante le lodi di Carlo, a metterli a dirittura in un collegio vero e fuori di casa. Nella tristezza della solitudine, che si fa in esso così fiera nella celletta dopo il chiasso del giorno e il brusìo della sera, si sarebbero essi con tutta l’anima rivolti alla famiglia lontana. Pare assurdo il dirlo; eppure è così: al poeta del dolore [p. 67 modifica]mancò nella sua fanciullezza un po’ di dolore. Non ne ebbe assai, di dolore, Giacomo Leopardi, da fanciullo!

Io ricordo che strette al cuore sentivo quando mi giungeva, la notte, nella veglia non consolata, “il suon dell’ore„. Era la voce della città straniera; non del borgo natio. E io pensavo al babbo e alla mamma. E Giacomo non poteva nemmeno, fuggendo dal padre, correre al seno della madre. Essa tutta occupata nel restaurare il patrimonio Leopardi, non accarezzava i figli che con lo sguardo. Se era così dolce, come so io d’un’altra, come sanno tutti, o quasi, d’una, poteva bastare. Ma...