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Poesie (Parini)/IV. Le odi/XV. La magistratura

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XV. La magistratura

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IV. Le odi - XIV. Il pericolo IV. Le odi - XVI. Il dono

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XV

LA MAGISTRATURA

(Per Camillo Gritti podestá di Vicenza)

[1783]

     Se robustezza ed oro
utili a far cammino il ciel mi desse,
vedriansi borine impresse
de le rote che lievi al par di Coro
5me porterebbon, senza
giammai posarsi, a la gentil Vicenza:
     onde arguta mi viene
e penetrante al cor voce di donna,
che, vaga e bella in gonna,
10dell’altro sesso anco le glorie ottiene;
fra le Muse immortali
con fortunato ardir spiegando bali,
     E da gli occhi di lei
oltre lo ingegno mio fatto possente,
15rapido da la mente
accesa il desiato inno trarrei,
colui ponendo segno
che de gli onori tuoi, Vicenza, è degno.
     Che dissi? Abbian vigore
20di membra quei che morir denno ignoti:
e sordidi nipoti
spargali d’avi lodati aureo splendore.
Noi delicati e nudi
di tesor, che nascemmo ai sacri studi,

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     25noi, quale in un momento
da mosso speglio il suo chiaror traduce
riverberata luce,
senza fatica in cento parti e in cento,
noi per monti e per piani
30l’agile fantasia porta lontani.
     Salute a te, salute,
cittá, cui da la berica pendice
scende la Copia, altrice
de’ popoli, coperta di lanute
35pelli e di sete bionde,
cingendo al crin con spiche uve gioconde.
     A te d’aere vivace,
a te il ciel di salubri acque fe’ dono;
caro tuo pregio sono
40leggiadre donne, e giovani a cui piace
ad ogni opra gentile
l’animo esercitar pronto e sottile.
     Il verde piano e il monte,
onde si ricca sei, caccian la infame
45necessitá, che brame
cova malvage sotto al tetro fronte;
mentre tu l’arti opponi
all’ozio vii corrompitor de’ buoni.
     E lungi da feroce
50licenza e in un da servitude abbietta,
ne vai per la diletta
strada di libertá dietro a la voce,
onde te stessa reggi,
de’ bei costumi tuoi, de le tue leggi:
     55leggi che fin da gli anni
prischi non tolse il domator romano;
né cancellar con mano
sanguinolenta i posteri tiranni;
fin che il lione altero
óo te amica aggiunse al suo pacato impero.

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     E quei mutar non gode
il consueto a te ordin vetusto;
ma generoso e giusto
vuol che ne venga vindice e custode,
65al variar de’ lustri,
fresco valor de gli ottimati illustri.
     Ahi! quale a me di bocca
fugge parlar che te nel cor pereote,
a cui giá su le gote
70con le lagrime sparso il duol trabocca,
e par che solo un danno
cotanti beni tuoi volga in affanno!
     Lassa! davanti al tempio
che sul tuo colle tanti gradi sale,
75supplicavi che uguale
a un secol fosse, con novello esempio,
il quinquennio sperato
quando l’inclito Gritti a te fu dato.
     Ed ecco, a pena lieto
80sopra l’aureo sentier battea le penne,
a fulminarlo venne,
repentino cadendo, alto decreto,
che, quasi al vento foglie,
ogni speranza tua dissipa e toglie.
     85E qual dall’anelante
suo sen divelto innanzi tempo vede
lungi volgere il piede
nova tenera sposa il caro amante,
che tromba e gloria avita
90per la patria salute altronde invita;
     cosí l’eroe tu miri
da te partirsi; e di te stessa in bando,
vedova afflitta errando
e di querele empiendo e di sospiri
95i fòri ed i teatri
e le vie giá si belle, e i ponti, e gli atri,

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     e i templi a le divine
cure sagrati, che di te si degni,
de’ tuoi famosi ingegni,
100 ahimè! l’arte non pose a questo fine,
altro piú ben non godi
che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.
     Non giá per ch’ei non porse
le mani all’oro o a le lusinghe il petto;
105né sopra l’equo e il retto
con l’arbitro voler giammai non sorse;
né le fidate a lui
spada o lanci detorse in danno altrui.
          Vile dell’uomo è pregio
110non esser reo. Costui da i chiari apprese
atavi donde scese,
d’alte glorie a infiammar l’animo egregio,
e a gir dovunque, in forme
piú insigni, de’ miglior splendano Torme.
     115Chi si benigno e forte
di Temide impugnò l’util flagello?
O chi pudor si bello
diede all’augusta autoritá consorte?
O con si lene ciglio
120fe’ l’imperio di lei parer consiglio?
     Davanti a piú maturo
giudizio le civili andar fortune,
o starsene il connine
censo in maggior frugalitá securo
125quando giammai si vide
ovunque il giusto le sue norme incide?
     Ei, se il dover lo impose,
al veder lince, al provveder fu pardo;
ei del popolo al guardo
130gli arcani altrui, non sé medesmo ascose;
né occulto orecchio sciolse,
ma solenne tra i fasci il vero accolse.

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     Ei gli audaci repressi
tenne con l’alma dignitá del viso;
135ei con dolce sorriso,
poi che del grado a sollevar gli oppressi
tutto il poter consunse,
a la giustizia i benefici aggiunse.
     E tal suo zelo sparse
140che grande a i grandi, al cittadino pari,
uom comune a i volgari,
rettor, giudice, padre a tutti apparse;
destando in tutti, estreme
cose, amicizia e riverenza insieme.
     145Ben chiamarsi beata
può, fra povere balze e ghiacci e brume,
gente cui sia dal nume
simil virtude a preseder mandata.
Or qual fu tua ventura,
150cittá, cui tanto il ciel ride e natura!
     Ma balsamo che tolto
vien di sotterra, e s’apre al chiaro giorno,
subitamente intorno
con eterea fragranza erra disciolto;
135tal che il senso lo ammira,
e ognun di possederne arde e sospira.
     Quale stupor, se brama
del nobil figlio al gran senato nacque;
e repente, fra Tacque
160onde lungi provvede, a sé il richiama?
Di tanto senno a i raggi
voti non sorser mai, altro che saggi.
     Non vedi quanti aduna
ferri e fochi su Tonda e su la terra
165vasto mostro di guerra
che tre imperi commette a la Fortuna:
e con terribil faccia
anco l’altrui securitá minaccia?

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     Or convien che s’affretti,
170cotanto a le superbe ire vicina,
del mar l’alta regina
il suo fianco a munir d’uomini eletti,
ov’ardan le sublimi
anime di color che opposer primi
     175al rio furore esterno
il valor, la modestia ed i consigli;
e da i miseri esigli
fecer l’Adria innalzarsi a soglio eterno;
e sonar con preclare
180opre del nome lor la terra e il mare.
     Godi, Vicenza mia,
che il Gritti a fin si glorioso or vola:
e il tuo dolor consola,
mirando qual segnò splendida via
185co’ brevi esempi suoi
a la virtú di chi verrá da poi.