Poesie campestri/Lamento d'Aristo
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LAMENTO D’ARISTO
IN MORTE
di
GIUSEPPE TORELLI.
Stracciò dal crine il mirto, onde solea
La poetica fronte Aristo ornarsi;
Aristo d’ermi campi, e d’erme selve
Fatto pensoso abitator: dal crine
Quelle stracciossi allegre frondi, e il colle
Salì rapidamente, alla cui vetta
Sorgon bruni cipressi, ond’è ricinto
Del pallido Eremita il sacro albergo,
Ed un ramo ne svelse, e intorno al capo
Sel girò, se l’avvinse; indi si fece
Sedil d’un sasso, di rincontro a balze
Di grato orror dipinte; e poi che alquanto
Con la mente vagò da sè lontano,
Trasse lungo dal core imo un sospiro,
E tai sensi innalzar l’udì la Notte,
Che già in fosco tingea la terra, e il cielo.
Queste del gufo, il qual duolsi alla Luna,
Non son le voci flebili, allungate,
Che nel silenzio della notte bruna
Ad un oppresso cor giungon sì grate?
O pensieroso augel, di ria fortuna
Portator ti accusò la vecchia etate:
Ma udito, se ver fosse il detto antico,
T’avrei la notte, in ch’io perdea l’Amico.
Spirto gentil, la solitaria vita,
E questi, ov’io mi chiusi, ermi soggiorni,
Fanno che alla mia scorsa età fiorita
Con la memoria, e a te più spesso io torni:
Ma da rimorso ho l’anima ferita,
Chè dappoi che tu vivi eterni giorni,
Mille e più volte il Sole uscío dall’Indo,
Nè ti sparsi su l’urna un fior di Pindo.
Pur chi di te sovra il mio canto avea
Dritto maggior, che al fianco mio prendesti
Spesso il più erto della via Dircéa,
E me, che vacillava, in piè reggesti?
Forse a chiaro d’onor segno io giungea,
Se tu givi più tardo in fra i Celesti:
Forse con gli anni tuoi Morte superba
Anco la gloria mia recise in erba.
Or più di questa gloria io non mi curo,
Chè un nulla al fine la conobbi anch’essa.
Un ben più assai, che quel non è, sicuro
Alma, che sa cercar, trova in sè stessa.
Mia delizia è il sedermi, ove d’oscuro
Bosco cader vegg’io l’ombra più spessa,
Ove con interrotto e tardo passo
Mormora un roco rio tra sasso e sasso.
Come, se fossi meco in questi colli,
Lieto vedresti i pensier fermi e gravi
Tu, che spesso dai vani un tempo e molli
Con dolce improverar mi richiamavi;
della schiavitù degli amor folli
Sciorre l’incatenata alma tentavi.
Io, benchè amante del mio mal, la mano
Baciava, che volea tornarmi sano.
Ma no, non fu con la mortal tua vesta
Il suon per me della tua voce spento.
Entro mi parla, e chiara e manifesta
Dal fondo alzarsi del mio cor la sento.
Tale sovente, o non diversa inchiesta
Le movo: È morte così fier tormento?
È l’arrestarsi nell’uman vïaggio
Duro così? Non è, risponde, al Saggio.
VII.
Ed in vista dei ben falsi, e di quanto
È nel Mondo d’errore e di follia,
Di bassa ambizïon, d’inutil vanto,
Festoso ei dal suo fral si disciorria:
Ma l’amistà, ma l’amor fido alquanto
Fanno al suo dipartir l’alma restía,
Onde ai più cari suoi, languido e tardo
Rivolge indietro, e sospiroso un guardo.
Con quest’ultimo sguardo io m’incontrai,
Che al tuo letto di morte era dappresso,
E sì tenacemente lo serbai
Da indi in qua negli occhi fidi impresso,
Che non pur ch’io vedessi oggetto mai,
Che fitto si restasse in lor, com’esso,
Ma quel, che ho innanzi, con sì vivi tocchi
Forse non si colora a me negli occhi.
Oh fatal sempre e amara rimembranza,
Ma cui non posso far ch’io non sia tratto!
Ogni più debil luce di speranza
Quel primo orribil dì fu spenta a un tratto,
Che il Fisico gentil nell’egra stanza
Venuto, e messo di chi ascolta in atto,
Toccò la vena, e di presaga stilla
L’amica a un tempo inumidì pupilla.
Tutto allor mi s’offrì l’eccidio mio
Compendïato in quel funesto segno.
Rapido cresce il fatal morbo, ed io
Con l’arti inefficaci invan mi sdegno.
E la voce talvolta al cielo invio:
Più che d’eletti spirti il sommo regno,
Forse non ha, per tante macchie immondo,
Mestier di virtuosi esempi il Mondo?
Mentr’io sì fatte cose in cor favello
Presso i cari origlier (già Notte andava,
Nè maggior lume ivi splendea di quello,
Che scarso e tristo una lucerna dava)
Ecco a un tratto veder parmi un drappello,
Che al doloroso letto intorno stava,
Di molto in vista ragguardevol donne:
Ma con viso piangente, e fosche gonne.
Eran le Sagge, a cui vien posto il nome
Dalle onorate lor belle fatiche,
Critica, Geometria con sciolte chiome,
Poesia, Storia, e le Favelle antiche.
Gíansi tra lor riconfortando, come
S’usa in fortuna ugual tra fide amiche:
Ma il fean così, che più che dar, di loro
L’una all’altra parea chieder ristoro.
Poi dal letto scostarsi, e d’improvviso
Le veggo in fila dall’un canto porsi,
Come a dar loco, riguardando fiso
Verso la porta, ov’io pur l’occhio torsi;
E la soglia varcar Donna di viso
Maraviglioso, e d’atto augusto io scorsi,
Che al tetto giunge con la fronte, e intorno
Raggia dalle pupille un aureo giorno.
Come vi lampeggiasse, il loco tutto
D’un tremolo fulgor si rivestiva.
Pur la nobile Donna avvolta in lutto
Tenea la faccia: or che saria giuliva?
Ma d’ogni pianto era il bel volto asciutto,
Dolente, sì, ma qual conviensi a Diva;
Tal che il duol nel suo viso, e in un del vinto
Duolo il trionfo si vedea dipinto.
Alle bende del crine, ed a quel bianco
Velo, che ricopria le membra ignude,
Alla catena, ond’è sventura ir franco,
Temprata d’ôr su non mortale incude,
E all’aurea chiave, che pendea dal fianco,
Ove sculto appariva il Ciel dischiude,
Religïon conobbi, e un sacro orrore
Mi sentíi l’imo ricercar del core.
Ma mentre veggo, che all’amico letto
Ha la celeste Donna il piè rivolto,
E ch’io già del ginocchio in terra metto,
Da quella dolce visïon fui tolto.
Egli moría; ma con sicuro aspetto
Attendea l’ora, che l’avria disciolto:
Non io così, ch’era a soffrir men forte
Quella, che mia parea più, che sua morte.
Se la pompa feral di quella sera
Romper non vidi l’orride tenebre
Col tetro lume della bianca cera,
Nè il sacro udíi di pace inno funebre,
Qual pro, se tutto nell’orecchio m’era,
Tutto innanzi mi stava alle palpebre?
Se della tomba sua ne’ sentier bui,
Benchè lontano, io discendea con lui?
Poscia in me tal provai lugubre senso,
Come dal ciel mi fosse il Sol caduto;
Nè che restasse mai notturno io penso
Viandante in cammin deserto e muto,
Com’io rimasi, nè tra mare immenso,
Senz’ago conduttor, nocchier perduto:
Ed anche in mezzo a cittadino stuolo
Gran tempo andò, ch’esser mi parve solo.
Ma tu, che ove non è fiamma, nè gelo,
Godi, e di stella in stella ora t’aggiri,
Queste ricevi, che ti mando in cielo,
Non so s’io debba dir lodi, o sospiri.
Io sempre Notte pregherò, che il velo
Stenda, e nessuna in ciel nube si miri,
Quasi or vederti, Anima grande e bella,
Mi paja in una, ora in un’altra stella.
Così Aristo cantò: poscia dond’era
Toglieva il male riposato fianco,
Scendea dal colle, e a sua magion voltava
Tra le compagne ombre notturne il passo:
Ma sentia poco raddolcita in core
Dal balsamo Febéo l’antica piaga.