Ricordanze della mia vita/Appendici/III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso/Capo III. - Processo dell'esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849

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Capo III. - Processo dell'esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849

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Capo III. - Processo dell'esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849
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CAPO III

processo dell’esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849 — sevizie — giudizio di ricusa — ricorsi per eccezioni d’incompetenza.


Stava io pazientemente nel carcere di Santa Maria Apparente quando il giorno 29 ottobre 1849 fui chiamato dall’ispettore di polizia signor Primicile Carafa, il quale con una di quelle solite bugie che sono le cortesie che fa la polizia per non ispaventar la gente, dissemi che il prefetto voleva parlarmi; e senza darmi tempo nemmeno di mutar panni, cosí come era vestito mi fe’ salire in carrozza e mi condusse in Castel dell’Ovo, dove fui chiuso solo in una stanza, e mi furono rasi villanamente quei pochi e modesti peli che io portavo alle gote. Seppi che dopo di me vi fu condotto anche l’egregio mio amico signor Filippo Agresti, che poi vidi rinchiuso in orrida spelonca incavata nel sasso, buia, e sozzissima per un cesso dove gettavansi i vasi immondi degli altri prigionieri. Esule diciotto anni, era tornato in Napoli in febbraio 1848, fu arrestato in marzo 1849, ed è ancora mio compagno d’infortunio. Io sapeva che la polizia pochi giorni innanzi per uno di quegli arbitrii che sono indorati col nome di misure amministrative, dalle prigioni di Santa Maria Apparente aveva tramutati nella Vicaria i signori Trincherá, Cammarota, Nisco, Guadagno; che di notte aveva balestrati in castel Sant’Elmo il Leopardi, il Dragonetti, il Pica, il Barbarisi, l’Avossa, lo Spaventa; che il Poerio ed il Pironti erano stati condotti in Castel dell’Ovo: onde io credeva che per una simile misura fossi stato ivi condotto anche io. E credeva, come credo e sono certo, che di tutti questi trabalzamenti eran cagione le calunnie di un delatore carcerato, che mi odiava perché io lo conosceva, lo sprezzava, e quando io [p. 520 modifica] era in uffizio non aveva voluto ascoltare una sfacciata domanda di lui sfacciatissimo gridatore.

Ma il giorno 11 novembre il commessario signor Silvestri mi fe’ chiamare, e m’interrogò dicendomi che io era accusato di appartenere all’Unitá italiana, e di essere autore di un proclama. Risposi e feci scrivere che il commessario Bucci cinque mesi prima m’aveva dimandate le stessissime cose, onde io mi riportava a quello che aveva risposto a lui. Sottoscritto questo brevissimo interrogatorio, io chiesi perché mi si facevan le medesime domande. E il commessario mi rispose, che egli istruiva un processo contro coloro che erano imputati di aver voluto il 16 settembre disturbare la benedizione che il papa dall’alto della reggia dava al popolo, facendo scoppiare una bottiglia di materia accensibile. «E in questo che c’entro io che son carcerato da giugno?» «Quel fatto fu ordinato dalla setta, della quale voi siete accusato essere uno dei capi, di aver tenuto riunioni in vostra casa, nelle quali si propose di uccidere quattro ministri; che nel carcere voi coll’Agresti e col Pironti approvaste il disegno di uccidere il ministro Longobardi, il prefetto di polizia signor Peccheneda, ed il presidente della corte criminale signor Navarra». Io non ricordo che parole io dissi quando intesi cosí scellerate e codarde calunnie, con quanta istanza chiesi di vedere in faccia quel vilissimo uomo che mi trafiggeva l’onore cosí malignamente. Allora intravidi tutta l’opera che i miei nemici avevano fatto contro di me, tutto l’odio implacabile, tutta la vendetta che volevano compiere. Non piú solamente settario, ma capo; non datore, ma autore, di un proclama; non solo imputato politico, ma consigliatore di assassinii. Dissi, dissi, ma il freddo commessario mi rispose con un’eloquente stretta di spalle, e mi rimandò nella mia stanza. Il dimane il processo compiuto fu mandato alla corte criminale; onde per sola sevizia io stetti quarantadue giorni nelle segrete del castello, per sola forma fui interrogato; ché molti altri sono avvolti in questa causa e non furono mai nel castello.

Il 12 dicembre fui condotto nelle buie e fetenti caverne della Vicaria, dove conobbi che i venuti dal castello eravam ventisette: e fummo tutti gettati in mezzo ad altri tormentati politici, ed in mezzo ai ladri, ai falsatori, agli omicidi. Io avrei voluto che i magistrati che ci debbono giudicare fossero stati presenti quando la prima volta c’incontrammo e ci guardammo tutti per questo buio: avrebber veduto che pochissimi si conoscevan tra loro, che io [p. 521 modifica] conosceva pochissimi, che non eran tra noi quelle relazioni che malignamente si credono e si affermano. O con che cuore io rividi ed abbracciai Carlo Poerio, uomo chiaro per fama paterna e propria, chiaro per isventure, per ingegno, per amabile facondia, giá ministro e consigliere del re, poi due volte deputato, ora carcerato, ammalato, gettato a perir nella Vicaria: abbracciai Michele Pironti giá valoroso avvocato in Salerno, poi deputato, e giudice criminale in Terra di Lavoro, e che io conobbi in casa del marchese Basilio Puoti: abbracciai Filippo Agresti, che io conobbi in Malta: con dolorosa maraviglia rividi ed abbracciai Michele Persico uomo placidissimo ed onesto, che io conobbi perché mi chiese leggere una mia scrittura stampata, che in luglio era andato in Francia per suoi negozi, n’era tornato in ottobre per essere gettato in carcere: rividi il cavalier Ferdinando Carafa de’ duchi di Andria, che io conosceva perché venne in mia casa ad udire una prolusione alle mie lezioni di letteratura, che io lessi in marzo 1848, e col quale talvolta per istrada aveva scambiati saluti e cortesie d’uso. Gli altri io non conosceva, io non sapeva che esistessero al mondo.

E nelle prigioni della Vicaria io ho saputo cose maravigliosamente terribili, le quali io voglio dire affinché la storia le registri ed il mondo conosca il modo onde è stato compilato questo processo. Lorenzo Vellucci accusato di avere appiccato ad una cantonata un cartello rivoluzionario nella notte che precedette il 16 settembre, e Salvatore Faucitano accusato come autore della esplosione avvenuta innanzi la reggia, quando furono arrestati e legati, ebbero a soffrire strazi inauditi. Strascinati a spettacolo della plebaglia per le strade della cittá, furon battuti, feriti, sputati in faccia, insultati da pochissima canaglia che seguiva il notissimo tavernaro detto Monsu Arena, il quale entrò fin dentro al castello, ed al cospetto di onorati militari svelse i peli ad uno ad uno dalla faccia di quei disgraziati, e presosi una ciocca dei capelli rasi al Vellucci se ne andò con essa trionfante. Il Faucitano stanco e rifinito dai tormenti, atterrito dalle minacce di altre battiture e di morte, essendo innanzi all’inquisitore ed al prefetto, e chiedendo un bicchier d’acqua per ristorarsi, gli fu porto un gran bicchier di vino, e poi fu interrogato: come egli stesso dirá e proverá. Il prefetto di polizia che non doveva immischiarsi nella istruzione, e che in questa causa è parte offesa, assisteva agl’interrogatorii, ed interrogava i detenuti Faucitano, Margherita, Carafa. Luciano Margherita arrestato in Siracusa e condotto legato ed a piedi in Messina, e [p. 522 modifica] di lá in castel dell’Ovo, dove stette tre giorni digiuno, fu assalito con altre arti. Gli si disse che ei dovesse sottoscrivere una dichiarazione che non nuocerebbe a nessuno ma assicurerebbe il governo. Gli fu promesso un impiego e la protezione dei principi italiani, se no una palla al collo e gittato in mare. La dichiarazione fu scritta, il prefetto la postillò ben quattro volte e ricopiata che fu, il Margherita la sottoscrisse, credendo non nuocere ad alcuno, aver l’impiego e la protezione. Nello stesso modo fu assalito il Carafa, il quale nato ed educato gentilmente, spaventato da minacce e dal carcere solitario, disse e scrisse quello che da lui si voleva. Ognuno degl’imputati ha raccontato quello che ha patito nel castello. Nicola Muro fu tenuto cinque giorni con le mani legate, scioltagli sola una mano quando doveva cibarsi di solo pane ed acqua. La moglie di Giovan Battista Sersale fu tenuta cinque giorni in una segreta del castello. Gaetano Errichiello dovendo esser raso e tosato fu fatto sedere su di una seggiola in una piazza in mezzo a soldati armati che dicevano doverlo fucilare. Io e pochissimi fummo in stanze non orride perché le terribili erano occupate da altri, perché io giunsi tardi, compiuto il processo, rallentati i rigori. Ho saputo ancora che alcuni imputati furono moltissime volte chiamati dall’inquisitore, il quale diceva loro: «per non fare confusione aggiungiamo queste novelle cose al primo interrogatorio, e facciamone uno solo». Gl’imputati ignoranti acconsentivano: si lacerava il primo interrogatorio, se ne scriveva un altro con la data del primo; cosí compariscono prima molte cose dette di poi, cosí si leggono dichiarazioni lunghissime, ordinate, studiate, rotonde, ed anche eleganti. Questo fatto non può provarsi, perché avvenuto tra l’inquisitore, il cancelliere, e gl’imputati veduti ed ascoltati solamente da Dio; ma l’inquisitore, il cancelliere, e gl’imputati dovranno giurare innanzi a Dio sulla veritá del fatto. Ho saputo che il comandante del castello signor colonnello Almeyda, onorato e gentile militare, spinto da lodevole zelo, ma ignorando le attribuzioni sue e quelle d’inquisitore, fu adoperato anch’egli nella istruzione di questo processo strano. Sforzandosi di persuadere il detenuto Gualtieri di dir molte cose, gli dettò alcune dimande, e volle che il Gualtieri gli rispondesse in iscritto. Questi tornato nella sua stanza lesse quel dettato all’Agresti che era in una stanza contigua alla sua e divisa per una porta: rispose, e ritenne la minuta la quale comincia cosí: «Si chiede conoscere dalla giustizia i seguenti particolari, mentre la stessa è in piena conoscenza con [p. 523 modifica] prove incontrastabili» e dopo tre dimande finisce cosí. «I tristi congiurati a commettere delle nuove rivoluzioni non che progettarsi in tradimento per uccidere il prefetto della polizia, e il degno magistrato della presidenza criminale». Chi conosce l’Almeyda lo ascolta parlare. Nondimeno io non intendo di offendere quell’egregio uomo, e cortesissimo verso di me, e che io pregio altamente, ma voglio indicare chi lo spingeva a questi atti e in quale modo fu fatto il processo.

Il procuratore generale credè che questo processo fosse piccola cosa, e piccolo il numero di ventisette persone; onde raccolse tutti i processi dell’Unitá italiana, nei quali si leggono accusate di setta piú di dugento cinquanta persone, e tra i presenti ed arrestati ne sceglie quarantadue, e contro tutti i quarantadue scaglia un’accusa di morte, e chiede che il giudizio si faccia dalla corte criminale con rito speciale, cioè con procedimento piú breve, senz’appello, e la decisione si esegua tra ventiquattr’ore. Dopo quest’atto d’accusa ne seguirono tre altri simili, l’uno contro quindici poveri contadini di Gragnano1 il secondo contro dodici popolani del mercato2, il terzo contro 57 persone imputate di aver fatto una dimostrazione il 29 gennaio 1849 per festeggiare l’anniversario della costituzione. Cosí in poco piú di un mese il procurator generale Filippo Angelillo chiede umanissimamente la morte di cento sei uomini.

Essendo ancor segreta l’accusa fummo chiamati a costituto innanzi la corte criminale. Allora quelli che avevano patito, parlato o scritto, narrarono i loro tormenti, dissero le suggestioni, le minacce, le lusinghe avute, ritrattarono quello che avevan detto nella prima istruzione. Gl’imputati Poerio e Pironti dissero che [p. 524 modifica] tra le accuse v’era quella che i settari avevan fatto disegno di uccidere il signor presidente Navarra, giudice nella causa e commessario; onde rispettosamente e senza intenzione di offenderlo lo ricusavano. Questa ricusa fece sospendere i costituti: fu sottoscritta un’apposita dimanda da dodici di noi imputati, e dagli avvocati signori Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo, e presentata alla corte per giudicarne. Per veritá prima di questo il signor presidente si aveva fatto questo scrupolo, ma la corte glielo aveva levato, decidendo che il presidente poteva giudicarci: onde rigettò la nostra ricusa. Ne facemmo ricorso in suprema corte, e questa rigettò il nostro ricorso, e c’impose come presidente, giudice, e commissario della causa il Navarra, contro la cui vita, come dicevano alcuni imputati confessi, si macchinava, e congiurava dai settari. Le decisioni della corte criminale e della suprema corte sono stampate, e si possono leggere da chi desiderasse sapere quali furono le ragioni e le considerazioni per le quali ostinatamente fu rigettata la nostra dimanda. Io non le ho mai capite, perché sono un uomo fatto alla grossa, con solamente un po’ di senso comune in capo, ed il senso comune ora è cosa differente dalla legge, ed in certi tempi il senso comune e la legge son cose che si debbono mettere da banda. Ricominciamo i costituti: ultimo il Pironti lesse per tre ore una sua lunghissima memoria di descarico, e nello stesso giorno, che fu il 9 febbraio di quest’anno, la corte dopo di aver meditato con divina intelligenza le memorie presentate dal Poerio, dal Pironti, dal Nisco, da me, e tutti i discarichi di quarantadue imputati, dopo una discussione di mezz’ora conferma l’accusa, e passa serenamente a trattar la causa de’ contadini di Gragnano. Cosí è pubblicato l’atto di accusa, che è un bel libro, stampato, con l’elenco de’ documenti, e la decisione della corte criminale che lo conferma. Allora vidi tutta la tela variatissima del processo, conobbi di che io era accusato, quali eran le volute pruove contro di me, e scorsi l’opera della malizia, dell’odio segreto e represso, che meditò contro me una terribile e infallibile vendetta.

Parlerò del processo nel capitolo seguente: ma prima di finir questo, debbo dire due cose gravissime. La prima è che Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo nostri avvocati, che con la parola e con gli scritti avevano coraggiosamente difese le nostre ragioni nel giudizio di ricusa, furono il Tofano imprigionato, il De Filippo costretto a fuggire dal regno. Questi uomini generosi certo non [p. 525 modifica] si son doluti di aver incontrata una sventura per aver esercitata una virtú; ma ben ci siamo doluti noi per la bruttezza del fatto, e per aversi compagni nel dolore.

La seconda cosa è la seguente. Contro la decisione che conferma l’accusa e dichiara la corte speciale abbiamo fatto tre ricorsi alla suprema corte di giustizia. Il primo in nome di tutti dice: «Noi siamo accusati di cospirazione contro la sacra persona del re: di questo reato non ci avete nemmeno interrogati, ed il procurator generale nell’accusa non ne adduce la piú piccola e la piú lontana pruova: onde la corte, che ha ammessa l’accusa ritenendo i fatti e le pruove espresse dal procurator generale, ha fatta una decisione non motivata, ha male giudicato, e la sua decisione dev’essere cassata». È stata confermata. L’altra in nome del Poerio, il quale diceva: «Voi mi accusate di un delitto che l’accusa stessa sostiene che io ho commesso quando io era deputato: or l’articolo 48 dello statuto dice che i deputati che hanno commesso un delitto durante il tempo del loro mandato debbono essere giudicati dalla camera de’ pari costituita in alta corte di giustizia; e però se ancora v’è la costituzione, se lo statuto non è lacerato, la corte criminale non può giudicarmi». La suprema corte l’ha rigettato. Il terzo in nome di Nisco diceva: «Tra le accuse datemi c’è quella che io voleva sedurre i militari. La legge dice che se a questo reato se ne aggiungono altri qualunque, debbono tutti essere giudicati dal consiglio di guerra: dal quale io dimando di essere giudicato». La corte suprema, che ha rimandati al consiglio di guerra molti accusati che dicevan belle ragioni per esser giudicati dalla corte criminale, si riserve delle stesse belle ragioni e le ritorce per rigettare il ricorso, e rimandar Nisco alla corte criminale. E quasi che tutto questo fosse poco, abbiam dovuto sofferire di leggere sul giornale il Tempo che le nostre eccezioni eran cavilli e pretesti per ritardare la causa e la condanna che meritiamo. Sia lecito al Tempo di sragionare e di calunniare noi, purché non calunnii e non offenda una nazione sventurata.

Rimane adunque la pubblica discussione, tremenda per tutti, perché in essa si scopriranno molte e forti veritá. In essa interverranno solo pochi uomini e presenti, molti dei quali sono preoccupati da oblique opinioni o sono stupidamente curiosi, e non possono formare quel chiaro ed imparziale giudizio che chiamasi pubblica opinione, e che sará formato sicuramente ed esattamente dai lontani e dai posteri, ai quali io volgo il pensiero e credo di parlare in queste carte.


Note

  1. Di questi poveri contadini sette furono condannati al terzo grado dei ferri, e sono stati subito mandati in galera: gli altri sono ancora in carcere.
  2. La causa di questi popolani è stata fatta l’altr’ieri. Compariscono loro accusatori i soliti denunzianti pagati, fra i quali il sozzissimo Ardissone. Si è scoperto che si comperarono cinque testimoni per trentacinque grana l’uno. Il procurator generale, che lanciò un’accusa di morte contro tutti dodici, ha dovuto nella requisitoria orale chiedere libertá per sei, pena di prigionia per gli altri sei. La corte ha deciso libertá per undici, cinque anni di prigionia per un solo convinto di aver parlato contro il re. Il Tempo parlerá della giustizia con cui si fanno le cause fra noi, e fará venire a tutti il desiderio di essere accusati e giudicati a questo modo.
     Il maggiore Antonino Gaston, di 62 anni, di animo e di cuore ottimo, accusato a morte per aver parlato male del papa e del re, è stato liberato con decisione di costa che non dopo otto mesi di prigionia.