Ricordanze della mia vita/Appendici/III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso/Capo II. - Processo a me particolare. Addentellati in altri processi

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Capo II. - Processo a me particolare. Addentellati in altri processi

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Capo II. - Processo a me particolare. Addentellati in altri processi
III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso - Capo I. - Mia vita ed opinioni III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso - Capo III. - Processo dell'esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849
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CAPO II

processo a me particolare — addentellati in altri processi

Con questa vita, con questi sentimenti, con le piú sante intenzioni del mondo io mi trovo quinto tra quarantadue persone, che il procurator generale ha chiesto di sospendere a quarantadue forche, perché ci accusa tutti di appartenere alla setta dell’Unitá italiana, di cui i primi quindici sono capi, di voler cangiare la forma del governo, di cospirare contro la sacra persona del re, di avere stabilito di pugnalar ministri e magistrati, di voler rovesciare e distruggere mezzo mondo, e pone me tra i primissimi capi e motori di questa grande macchina di setta e di rivoluzione. In diversi tempi ed in vari luoghi la polizia aveva fatto processi contro varie persone per causa di questa setta: il procurator [p. 510 modifica] generale li ha riuniti tutti pel solo titolo della setta, senza badare che i fatti e le persone non avevano alcuna relazione tra loro; ha unito i briganti, i truffatori, i galeotti, gl’infami con uomini di chiara fama e di specchiata onestá, giá stati ministri, deputati, magistrati, e con altra gente onorata, quasi per avvilirli e renderli spregevoli. Cosí è nato un mostruoso processo dove sono le piú strane e scellerate fantasie che diconsi pruove: e da questa informe congerie si cava l’accusa, e si fa come chi volesse torre una storia vera dall’Orlando furioso. Io so che i grandi apparati nascondono sempre povertá; e pare che si sia accozzato un gran processo per fare una grande mostra ed un grande spavento sul volgo; ma chi non è volgo con un po’ di giudizio e di pazienza osserva le cose placidamente, vede sparire di mano in mano il castello incantato, e sorride. Io dunque parlerò prima del mio processo particolare, e poi del generale per quella parte che mi riguarda.

I miei nemici che fieramente e ingiustamente mi odiavano e volevano vendetta ad ogni modo, dissero fra loro: «Settembrini fu altra volta accusato come settario, e lo dicono acre scrittore; facciamolo dunque accusare come settario dell’Unitá italiana, e come autore di un proclama rivoluzionario». Tra i delatori pagati, che sono testimoni in ogni processo, e che quantunque carcerati per truffe e per furti o per note calunnie, sono sempre carezzati ed adoperati, fu scelto quel tristo Iervolino, e fu comperato per accusarmi. Costui è un agente salariato della polizia, come lo mostra quel suo rapporto al Cioffi che sará presentato dal Poerio, era un cagnotto del Cioffi, è un malvagio che riceve per prezzo d’infamia dodici ducati il mese. Nel 1844 si faceva accusatore di suo padre, dicendo che parlava male del governo con Gaetano Bracale, a cui il commessario Marchese mostrò la denunzia scritta dal figliuolo contro il padre e contro di lui: il Bracale disse a me quest’orrendo fatto. Ecco l’uomo che fu scelto.

Costui, il giorno 23 aprile 1849 scriveva un libello e diceva: che trovandosi senza lavoro e senza pane cominciò ad assistere il Poerio per avere un impiego, e non avendolo subito, pensò che l’indugio derivasse da non appartenere egli ad una societá, onde fe’ premura al Poerio di ascriverlo, sperando cosí di spingerlo a dargli un impiego essendo lui il ministro di stato: che il Poerio accolse con piacere questa domanda, e lo spedí a Nicola Nisco, facendolo accompagnare da Nicola Attanasio: che il Nisco [p. 511 modifica] lo condusse in casa di Federico d’Ambrosio, il quale gli fe’ prestar giuramento, gli diè parole e segni settarii: che il Poerio contento di tutto questo gli fece larghe promesse non mai adempiute, quantunque egli assistesse sempre il Poerio, il Nisco, il Settembrini (cosí io son nominato la prima volta, quasi caduto dalle nuvole): che da tutti noi ebbe incarico di diffondere tra gli elettori dei cartellini in istampa per far nominare deputato Settembrini, Ignazio Turco, e Nisco; e diffondere manifesti stampati coi quali si consigliava il popolo a non fumare, non giocare al lotto, non pagar fondiaria: che gli amici e confidenti del Poerio erano il Settembrini, il Nisco, l’Attanasio, il padre Grillo cassinese: confidenti del Nisco Luigi Fittipaldi e Giovanni Turco: gli amici e confidenti miei erano diversi, ma non sapeva il nome di alcuno.

Dopo 23 giorni, cioè il 6 maggio chiamato dal commessario di polizia signor Maddaloni dichiara che il libello è scritto e sottoscritto da lui, che la setta è l’Unitá italiana, che per la remotezza del tempo non ricorda il giuramento, le parole, i segni; che conobbe me per mezzo del Poerio; che il Poerio, il Settembrini, il Nisco, l’Attanasio, l’Ambrosio, il Grillo son tutti settari: che non può dar testimoni di questi fatti perché tutto avveniva nel segreto.

Il 29 maggio scrive un altro libello che diceva: essere andato in casa Poerio, avervi trovato un farmacista, il deputato Cicconi, e tre altri ignoti, i quali tutti parlavano di un cancelliere ucciso negli Abruzzi per opera di una setta che voleva uccidere tutti i nemici de’ liberali: il Poerio averlo spinto a venire da me; egli venne per sapere alcuna cosa di nuovo, io gli dissi non saper nulla, ma gli dimandava quanti uomini egli aveva alla sua dipendenza e quanti armati; ei mi disse una bugia, io me la bevvi, e gli disse di tornare altra volta.

Ecco l’accusa, ma vaga e preparatoria; ma diretta principalmente contro il Poerio e contro me: tutti e due dovevamo essere colpiti, io prima, egli dipoi: per tutti e due bisognava un fatto, per me fu facile trovare un proclama, per lui dovettero fingere una lettera speditagli dal Dragonetti. Circolava per Napoli un proclama sedizioso, si pensò di attribuirlo a me, e di trovare cosí un fatto pel mio arresto. Questo pensiero trasparisce chiaramente dal vol. 20, fol. 3, processo a mio carico, dove è scritto. «Certifico io sottoscritto cancelliere di polizia che emergendo da indicazioni riservate di alta polizia che l’orefice Luigi Iervolino avesse [p. 512 modifica] scienza e potesse somministrare chiarimenti intorno alla diffusione di un proclama sedizioso, circolato nei scorsi giorni per questa capitale, il commessario di polizia don Giuseppe Maddaloni in seguito d’incarico superiore ha disposto chiamarsi il suddetto Iervolino onde sentirlo opportunamente. Napoli 6 giugno 1849».

Che cosa sono queste indicazioni riservate? Iervolino che è diligentissima spia e scrive tutti i suoi libelli, come non scrive un altro libello per dire che egli sa del proclama? come la polizia sa che egli lo sa? se lo sa dall’Iervolino, perché non c’è una dichiarazione o un libello di costui? perché costui parla di poi? Perché prima non sapeva niente. Infatti nello stesso giorno va innanzi il commessario, e dimandato, non risponde a voce, non fa scrivere le sue parole dal cancelliere, ma le scrive egli stesso, cioè presenta il libello datogli e da lui copiato: nel quale dice: che mi conosce da piú tempo, ed è varie volte venuto in mia casa, perché io son dell’Unitá italiana, alla quale anche egli fu affiliato. Che il 2 giugno venne in mia casa, io gli dissi di andare da Ludovico Pacifico, che egli chiama mio fido, per farsi dare un proclama che io gli aveva dato; che egli vi andò, non l’ebbe, tornò da me che gliene diedi quattro copie con l’incarico di diffonderle, e che egli consegna alla polizia: che avendomi veduto spesso nella libreria di Gabriele Rondinella crede che costui abbia fatto stampare il proclama.

Tutti questi libelli scritti di mano dello stesso Iervolino con molti grossi errori di ortografia, ma con accorte e maliziose parole e con regolare filo d’idee, mostrano chiaramente che furono copiati da lui, inventati da altri. E veramente il Maddaloni, vecchio e sagace commessario di polizia, che aveva per mano altri processi settari, con insolita bonarietá si contenta di queste dichiarazioni, e non dimanda al denunziatore mille cose e del Poerio, e di me, e degli altri tutti. Intorno a me per esempio poteva dimandargli: «Non ricordi il tempo preciso che conoscesti il Settembrini? Ti ha dato mai catechismi, diplomi, o altre carte? Ti ha mai parlato della setta? Ti ha detto a che tendeva? Se andavi spesso in casa sua, come non conosci il nome di nessuno de’ suoi amici? Quanta è questa remotezza di tempo che ti ha fatto dimenticare le parole ed i segni della setta? Come sai che il Pacifico è fido di Settembrini? gli hai veduti mai insieme, e come, e dove, e quante volte? Conosci tu il Rondinella? l’hai udito mai parlar [p. 513 modifica] col Settembrini, e di che?» Nessuno dirá che il Maddaloni non fece queste dimande perché mi voleva bene e non voleva scoprire il vero; non si può dire che non le fece per ignoranza, perché egli sa bene il suo mestiere, e le son tali che anche un bambino le avrebbe fatte. Si dee dunque dire che le dichiarazioni scritte gli furono mandate, ed ei dovette rispettarle perché la fazione che mi odiava e che gliele mandò non sapeva far di meglio, e credeva che quello che era scritto bastasse a perdermi, perché si voleva un pretesto per arrestarmi, non una regolare accusa. Se la denunzia fosse stata vera, il commessario l’avrebbe sminuzzata in minime parti, avrebbe fatto ben tornar la memoria al denunziante, lo avrebbe ritenuto come complice non come testimone a carico, avrebbe chiarito ogni cosa, e in quello stesso giorno 6 giugno, avuto facilmente il permesso del ministro, avrebbe fatto arrestar me, cercar la mia casa e la libreria del Rondinella: ma per contrario si dá tutto il tempo di diffondere i proclami per l’Europa, perché io sono arrestato il 23 giugno, e la libreria del Rondinella è dimenticata; e solo in luglio, e per ordine di un altro commessario, è ricercata, e non vi si trova nulla. Se opera cosí chi vuole scoprire il vero, io rinunzio alla qualitá di essere ragionevole. Il commessario dovette tacere e rispettare i libelli avuti; e capí che era un pretesto messo in mezzo per arrestarmi, e mi fece arrestare. Il Poerio fu colpito di poi, il Nisco era giá in prigione: gli altri furono tenuti in serbo, perché meno odiati.

Legalissimamente, cioè in linea di prevenzione e per ordine del ministro dell’interno, fui arrestato dagl’ispettori fratelli Cioffi, i quali accompagnati dal loro vecchio padre, che si tenne nascosto nelle scale, vennero in mia casa, cercarono e frugarono per tutto con assai diligenza. Era con me il mio egregio amico, avvocato Nicola Mignogna di Taranto, e fu arrestato anch’egli, perché, secondo dice il verbale, «sfornito di carte giustificative e per conservare diverse carte»; mentre egli è in Napoli da venti anni, ed aveva in tasca citazioni sentenze, ed altri libelli giudiziari. Sopravvenne un distributore di libri a nome Angelo Barrafaele romano, che soleva portarmi libri a dispense, e fu arrestato col pretesto di essere «sfornito di carta di soggiorno, e per avergli trovate carte manoscritte addosso»; ma la causa vera fu perché seppero che era romano e parlava un orribile dialetto. Sopravvennero dei giovani studenti: gli ispettori videro loro libri e carte, e forse ebbero vergogna di arrestarli. Fummo condotti in prefettura: quei [p. 514 modifica] due gettati nei criminali e misti ai ladri, io in un luogo men reo. Anche legalissimamente dopo quattro giorni fui condotto innanzi al commessario Federico Bucci incaricato della istruzione del processo; il quale con modi assai garbati esaminò le mie carte, e non vi trovò nulla che avesse potuto farmi temere o arrossire. Poi m’interrogò e disse: «Voi siete negli arresti perché imputato di far parte della setta nominata Unitá italiana, e di aver diffuso un proclama col quale si eccita il popolo ad armarsi contro l’autoritá reale, cangiar la forma del governo, ed eccitar la guerra civile nel regno». Allora seppi finalmente l’accusa che era il pretesto della mia prigionia, e risposi non conoscere questa setta nemmeno di nome; per indole, per ragione, e per trista esperienza abborrire le sette, e sprezzarle: cercai, ma inutilmente, di sapere chi fosse il mio accusatore, di vederlo in viso per confonderlo; dissi di non aver mai dato proclami, chiesi leggere quello, e mi fu letto. Era una sozza e pazza scrittura. Io allora con un poco di santa superbia rammentai e feci scrivere tutte le azioni della mia vita, rammentai le antiche ed ingiuste cagioni che mi facevano odiare, rammentai gli scritti da me pubblicati nei quali si scorgono franche ed oneste opinioni; e col semplice tuono della veritá dissi cose per le quali il commessario faceva atti di maraviglia, e mi pareva dicesse fra sé: «Questi è quel terribile uomo che mi hanno detto»? Infine divenimmo quasi amici: e pochi giorni appresso egli disse ad un mio amico che a me lo ripeteva: «Io non so perché si debba temer tanto del Settembrini ed odiarlo, mentre egli è un onesto uomo». Se tutti quelli che mi odiano volessero vedermi e parlarmi, forse mi diverrebbero amici. Fui condotto nelle prigioni di Santa Maria Apparente, e non fui piú interrogato: intanto il processo seguitava.

Il 30 giugno il commessario chiamò l’Iervolino e gli dimandò: «Se tu sei stato piú volte in casa Settembrini, chi vi hai trovato?» E quegli, che aveva detto di non conoscere il nome di alcuno dei miei amici, subito nominò il Mignogna che era stato arrestato con me. E poi disse che egli veniva in casa mia quando la polizia mi arrestava, onde corse a darne avviso al Poerio, il quale lo mandò subito ad avvisarne l’architetto Francesco Giordano: ei va, non lo trova nel caffè dove soleva trattenersi, e per dargli l’avviso del mio arresto non trova altro espediente che scrivere il suo nome su di un pezzo di carta, e darlo al caffettiere incaricandolo di farlo capitare al Giordano: ripete che mi conobbe [p. 515 modifica] per mezzo del Poerio; dice che non ha mai veduto in casa mia il Rondinella, che non lo conosce nemmeno di vista, ma che arguisce la nostra intimitá perché m’ha veduto spesso nella libreria. Dall’intimitá che un uomo di lettere ha con un libraio si arguisce che costui abbia stampato un proclama. Logica di polizia!

Interrogato il Mignogna dice: non conoscere l’Iervolino, non averlo mai veduto in casa mia: messi a confronto entrambi, ognuno sostiene il suo detto. Ma il Mignogna gli dimanda: «A qual ora mi hai veduto?» e quei non ricorda. E dopo tutto questo, dopo che il Mignogna fu arrestato per caso, e accusato come mio complice e settario, e pena ben sette mesi in prigione, allora si cerca la libreria del disgraziato Rondinella, e non si trova nulla: si esaminano le carte trovate in casa del Mignogna e del Barrafaele e non si trova nulla: si cerca la casa di Pacifico, e nulla, e lo lasciano pacificamente. Solamente in casa del Giordano il 4 luglio trovano un notamento di 87 persone con sopra questo scritto: nota di Sessa, ed un altro notamento di 90 persone: ma il Giordano non è arrestato, e solo dopo sei giorni, il 10 luglio, è chiamato dalla polizia a voler dare spiegazioni su quelle note. Ei dice: che in febbraio 1848 un tale Siniscalchi di Salerno gli diede quelle note di persone cui si dovevano dare soccorsi gratuiti; non saper del Sessa: conoscer me fin dall’infanzia in Caserta, dove suo padre era tenente di gendarmeria, e mio padre era impiegato nell’intendenza. (Il buon padre mio era un onesto e libero avvocato, e non fu mai impiegato d’intendenza. Io conobbi il Giordano nell’infanzia; ma nella giovinezza e nella virilitá nol vidi piú, e per diversitá di studi e di occupazioni non ebbi mai dimestichezza con lui): disse non avere intime relazioni col Poerio; non conoscere l’Iervolino; aver saputo nel caffè che una persona lo cercava, ma non aver avuta la carta col nome. Si cerca delle persone notate, e si trova esser poveri ed arrestati. Chiamato e richiamato il Giordano, finalmente il tre agosto dice aver saputo che quel Siniscalchi era morto il 15 maggio 1848. Il commessario se ne contenta, e lo fa rimanere in prefettura per esperimento, dopo che lo fece star libero un mese dalla ricerca fattagli in casa. Intanto la polizia verifica la morte del Siniscalchi, e non potendo sapere altro dal Giordano, il 19 agosto lo libera. Un uomo accusato come settario, come amico mio e del Poerio, la qual cosa suona peggio di settario, un uomo a cui si trovano in casa due note di 177 persone è liberato. La polizia fu giusta ed umana [p. 516 modifica] questa volta. Il povero Barrafaele dopo due mesi, e dando cento ducati di cauzione, potè finalmente uscire di carcere.

Qui finisce il mio processo particolare, il quale comincia dalla denunzia scritta dall’Iervolino il 6 giugno: le altre antecedenti servono per dar principio al processo contro il Poerio, arrestato circa un mese dopo di me, il 19 luglio; il quale esporrá egli e confonderá le stoltissime ed invereconde accuse a lui fatte. Qui io debbo dire che egli dice di conoscere l’Iervolino, perché quand’era direttore dell’interno, questi gli chiedeva un posto, che ei non potette dargli perché non c’eran vacanti: quando egli era deputato, quel tristo gli chiedeva un posto subalterno alla Camera ed egli con lettera lo raccomandò al presidente signor Capitelli. Non avere avuta altra relazione con lui, non averlo mai mandato da me. Lo scelleratissimo uomo si vendette l’anima al Cioffi, che la comperò per 12 ducati: cominciò dal calunniare chi gli aveva fatto bene e non aveva potuto fargliene maggiore: poi si prestò a tutte le voglie, fu strumento di tutte le vendette.

Ecco la sostanza del mio processo, dal quale non risulta altra pruova contro di me, se non un’assertiva che può essere smentita da un’altra assertiva; un’assertiva di un malvagio la quale è solennemente mostrata falsa da tutta la vita di un uomo onesto; un’assertiva di una spia salariata a cui la legge stessa comanda che non si presti fede1. E nessuno gli prestava fede, e la polizia stessa vedeva e sapeva la nullitá del processo: onde non faceva istruzione su i libelli, non incarcerava alcuno dei nominati in essi, neppure quel Federico d’Ambrosio, che l’Iervolino accusa di averlo ascritto nella setta; il quale di poi e ben tardi fu arrestato, ma per esperimento, e per altra cagione, e presto liberato. Io potrei dire: «Infine Iervolino che pruove dá che io gli ho consegnato un proclama? nessuna. E perché si dee credere a lui e non a me che sono un onesto uomo»? Ma questo dire potrebbe lasciare un dubbio nell’animo di chi vuol sapere netto il vero; se la non curanza di un solerte commessario, le denunzie stesse copiate dall’Iervolino, l’essere egli considerato come testimone, mentre apparisce complice, e il non esser mai venuto a me innanzi, non [p. 517 modifica] mostrassero chiaramente che quel tristo è stato strumento dell’odio altrui, e mi ha sfacciatamente calunniato.

Il processo cadde nell’acqua: tutti mi dicevano, ed io lo sentiva, che m’avevan posto in carcere per un cieco sdegno di cui si sa la cagione. Ed io mi rassegnai a soffrire le pene del carcere, vedeva solamente mia moglie ed i diletti figliuoli che venivano a visitarmi; aspettava la mia sorte tranquillamente; udiva con indifferenza le voci di amnistia sparse ad arte dai tristi per tormentare, ripetute dai buoni per desiderio di consolare, credute dai prigionieri che soffrono e sperano, da me, che credo solo ai fatti, non credute né discredute.

Mentre le liete fantasie napoletane fingevano e credevano un’amnistia, i delatori si preparavano, i processi si istruivano, e s’istruivano a questo modo. In un popolo per tanti anni e tanti modi corrotto non è stato difficile di trovare un centinaio di delatori pagati, i quali come cani rabbiosi si gettano contro quelli che ad essi vengono designati, o che essi odiano per particolari cagioni. Uno di essi fa da accusatore, e chiama gli altri per testimoni; e questi dicono le stesse cose con lo stesso ordine, le stesse parole, la stessa fronte, la stessa coscienza; e poi vanno attorno alle famiglie dei denunziati, e per vie indirette cercano denari, e se non ne hanno quanti ne vogliono, son pronte altre denunzie. Cosí ha fatto un Francesco Paladino, che cercò 300 ducati al Nisco, il quale lo proverá; cosí hanno fatto i famosi delatori Barone e Carpentieri, che sono carcerati perché stancarono il mondo con le loro sfacciate ribalderie e scrocconerie. Cosí nel processo contro il Barilla ed il Leipnecher ha fatto Gaetano Vittoria che ha chiamato come testimoni gli agenti di polizia Stefano Longobardo, Natale Ardissone, Luigi Antico, Giacomo Vitolo, il famoso Gerardo Guida, ed altri. Nello stesso modo si fa un processo contro tutta la provincia di Salerno: si manda in Salerno un Ruggiero Marano, per iscoprire la pretesa setta: questo scellerato inventa le piú infami e stolte calunnie contro gli uomini migliori della provincia, accusa lo stesso intendente signor Consiglio, come colui che faceva due parti in commedia, il realista ed il liberale; addita come testimoni Emilio Gentile, Samuele Longo, Oronzo Villari, Giacomo Carpentieri, ed altra canaglia poliziesca, di cui scrivo i nomi affinché sieno conosciuti e ricordati. Il commessario Maddaloni va in Salerno, fa un’istruzione segreta, e senza saputa dell’intendente, il quale sospettando di segrete mene fa [p. 518 modifica] arrestare il commessario, ma poi egli è tolto di uffizio. Altri poi si fa incarcerare, e tormentando i miseri prigionieri, torcendone le parole, numerandone i sospiri, li denunzia; come ha fatto Bernardino Cristiano, del quale io posso mostrare a tutti le scellerate denunzie, le note delle persone che ei dice pertinaci nel repubblicanismo, le dimande con cui cerca un impiego e in cui espone i suoi meriti di essersi chiuso due volte nel carcere di San Francesco per ordine de’ commessari Cioffi e Maddaloni, carte scritte tutte di sua mano. Parlo di questi, perché questi sono accusatori e testimoni in processi sull’Unitá italiana, i quali insieme al mio formano il gran processo riunito, che è un ammasso di nefandezze, di stoltezze, di sporchezze, è una sporta di cenciaio, e fa piú vergogna a chi l’ha tessuto che paura a coloro contro cui è stato fatto. In alcuni dei quali processi particolari ci è sempre una velenosa dimanda sul conto mio, la quale non ha avuta una velenosa risposta, perché c’era altro di piú grave, e perché io non era additato principalmente. Fra i piú schifosi e fecciosi denunziatori è un Antonio Marotta, di Pietrapertosa in Basilicata, or carcerato per ladro in Avellino ed accusato presso la corte criminale di Potenza per calunnia in causa politica che egli ordí contro il canonico Caramella di Tricarico. In luglio 1849 accusa come settario il prete Francesco Nardi, suo zio, ed uomo di poca levatura; e per persuaderlo a confermar le sue denunzie si veste pulitissimamente ed accompagnato dall’ispettore Campagna, va in carcere dallo zio, gli dice che è cameriere di un ministro ed ha tutti i beni del mondo; che anch’egli avrebbe una buona cappellania se volesse confermar le sue parole: e persuase il prete. Poi denunziò il Romeo come stampatore della setta e capo di un comitato settario; denunziò molte altre persone di mano in mano secondo che egli se ne ricordava, cioè secondo gli erano additate, e voleva o compensi o vendetta. In una stalla del Romeo si trovano moltissime stampe settarie, le quali costui dice avere stampate per commissione avuta dal signor Antonio Miele, in casa del quale dice di aver udito parlare di setta, e che ne erano capi il Settembrini, il Poerio, il duca Proto, l’ex ministro Bozzelli, ed il principe di Torella. Nominava questi due ultimi quando eran giá usciti dal ministero in luglio 1849. Anche questo colpo contro di me andò fallito, perocché nessun altro, neppure il Marotta, mi nomina, ed il Romeo stesso nel suo costituto ritratta questa particolaritá, mentre conferma le altre, e confessa che gli è stata suggerita. [p. 519 modifica]

Ma chi odia fortemente non si stanca mai: io riposava sicuro della mia coscienza, e v’era chi non riposava per perdermi, per farmi comparire non solo settario, ma consigliatore di assassinii; per tormi non solo la pace e la libertá, ma la vita ancora e l’onore. Ma l’onor mio non è in mano de’ miei persecutori; io difendo la mia causa, il mondo dia l’infamia a chi si appartiene.


Note

  1. Procedura penale, art. 202. A pena di nullitá non possono essere ammessi a deporre nella pubblica discussione; 1. gli ascendenti ecc.; 2. il denunziante la cui denunzia è pecuniariamente ricompensata dalla legge.