Ricordanze della mia vita/Parte terza/I. L'ergastolo di Santo Stefano. Notizie storiche

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I. L'ergastolo di Santo Stefano. Notizie storiche

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I. L'ergastolo di Santo Stefano. Notizie storiche
Parte terza Parte terza - II. L'ergastolo

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I

L’ergastolo di Santo Stefano.
Notizie storiche1.


L’isoletta, o per meglio dire lo scoglio di Santo Stefano, lontano circa un miglio da Ventotene, è sita rimpetto a Gaeta, distante da essa un trenta miglia, ventiquattro da Ischia, venticinque da Ponza: ha un circuito minore di due miglia, non altri edifizi che l’ergastolo, non altri abitatori che i miseri condannati, i loro custodi, poche capre che dánno latte per gl’infermi, e qualche asino. Difficilmente vi si approda, e voltando sopra piccoli battelli, perché intorno è irta di scogli, e lo stretto mare che la divide da Ventotene è sempre agitato e rumoroso. Tutti i venti la battono, e vi portano in uno stesso giorno il rigore, il tepore, il calore di tutte le stagioni. È fama che queste due isolette di Santo Stefano e di Ventotene un tempo fossero state unite e poi divise per terremoto; e che l’una e l’altra eran chiamate con un nome comune: Pandataria. Io credo che se questa separazione fu vera avvenne in tempi remotissimi; che il nome di Pandataria o Pandateria, guastandosi in Vandataria siasi cangiato nel presente Vendotene o Ventotene, e solamente a quest’isola fu dato; e che Santo Stefano ebbe altro nome particolare, il quale pel tempo e per la piccolezza dell’isola andò obbliato e perduto. Nondimeno [p. 290 modifica] le tradizioni storiche di Ventotene appartengono ancora a Santo Stefano; dappoiché coloro che abitarono quell’isola vennero ancora in questa vicina.

Queste due isole rendute celebri per le sventure di antiche donne illustri, furono sempre albergo di pene e di dolori. In Pandataria fu relegata Giulia, figliuola di Ottaviano, celebre per bellezza e lascivia, la quale qui pianse per la vendetta di Livia e la fredda ferocia di colui che uccise la patria e la figliuola: di quel furbo fortunato che dagli adulatori fu detto Augusto. Qui stette la sventurata donna sette anni, privata di ogni cosa, consolata sol dalla madre Scribonia che volontaria l’accompagnò nell’esilio: e dipoi fu mandata in Reggio di Calabria, dove morí di miserie e di stenti. Nella parte piú alta di Santo Stefano sono alcune rovine di una villa, che serba ancora il nome di casa di Giulia; e son poche mura di fabbrica reticolata, alcune pareti che serbano vivi i colori onde furon dipinte, qualche pavimento a mosaico, ed una cisterna ancor buona ed usata. Un secolo fa cavandosi la terra vi fu trovato un sepolcro, che da una lapide, ora serbata nel museo di Napoli, si conobbe essere stato di un Metrobio, liberto di Augusto prefetto di Pandataria, e quivi morto: il quale forse fu il custode e il tormentatore della misera Giulia. Tiberio vi mandò Agrippina, la magnanima moglie di Germanico, e ve la fece morire. Caligola divenuto imperatore venne in Pandataria, tolse le ceneri della madre, e quelle dei fratelli morti in Ponza, e le portò in Roma onoratamente. Nerone vi chiuse l’infelice Ottavia sua moglie; e dopo di averle ucciso il padre ed il fratello, averla sprezzata e posposta a Poppea, fattala accusare dal carnefice Aniceto, a vent’anni le fe’ segare le vene in un bagno. Cornelio Tacito, grande scrittore di grandi sventure, ci lasciò queste memorie: e se fossero rimaste tutte le sue opere, avremmo anche conosciuti i dolori della buona Domitilla, congiunta di Domiziano, la quale perché non temette di confessarsi seguace di Cristo, fu qui relegata dal ferocissimo tiranno.

Caduto l’impero romano, queste due isole furono soggette ai greci imperatori, che le aggiunsero alla signoria de’ duchi [p. 291 modifica] di Gaeta. Nell’anno 813, saccheggiate dai barbari che correvano il mare, rimasero deserte d’abitatori ed incolte: pensomi che nelle miserie e nell’ignorante obblio di quel tempo Santo Stefano perdette il suo nome antico. Rimasero cosí abbandonate sino alla metá del secolo XI: ed Adinolfo secondo duca di Gaeta nel 1063 le donò ai monaci cisterciensi che erano in Ponza. Di lá alcuni di quei frati si recarono in queste isole per menarvi una vita solitaria e tranquilla: e nell’isoletta minore fabbricarono una chiesetta in onore di papa Stefano, che essendo ancor frate si piaceva di questa solitudine. E da lui l’isoletta ebbe il novello nome. Altri pontefici vi fecero costruire un picciol carcere per chiudervi e correggere i preti discoli. Ma la chiesa il carcere ed ogni cosa fu distrutto dal tempo, dai pirati, dai venti; e le due isole rimasero un’altra volta deserte ed incolte, come Ponza e gli altri isolotti sparsi intorno. Divennero nidi di corsari, che da essi spiccavansi per devastare le vicine spiagge; e solo pochi arditi pescatori per speranza di guadagno venivano da Ischia e da Gaeta per tagliar legne in queste isole selvagge, e per pescar nel mare che le circonda. Uno di questi pescatori è degnissimo di ricordanza.

Nella state dell’anno 1768 Pasquale Regine di Forio d’Ischia, padrone di una di quelle barche pescherecce che diconsi paranzelli, con un suo figliuoletto di dodici anni a nome Vincenzo da lui teneramente amato, e con altri sei pescatori suoi paesani e parenti, venne in Ventotene per tagliar legne. Approdò in un piccol seno detto Cala di Battaglia, e lasciati quattro compagni a guardia della barca e del figliuolo, con gli altri due si avviò per una valletta, che fu un antico sepolcreto romano, sparsa di grotte che allora erano vuote ed ora servono di abitazioni ad uomini, asini e maiali. Mentre il dabbene uomo sul monte tagliava le legne coi compagni, ecco una galeotta tunisina, nascosta in un altro seno dell’isola, uscire d’agguato, assalire e predare la barca, i pescatori, il fanciullo. Allo strepito lontano volgesi il misero padre, e veduto il vero gettasi a correre giú piangendo e gridando come [p. 292 modifica] forsennato: giunge al lido, e veduta la galeotta che spiegava le vele e si traeva dietro la barca, slanciasi nell’acqua, e nuota, e giunge, ed offresi di andare schiavo col figliuolo. Si rallegrano i ladri di questa nuova preda; e si rallegra l’amoroso Pasquale di abbracciare il diletto figliuolo, e spera di potergli serbare l’onore e la fede. Giunti in Tunisi, il bey, scegliendo fra i catturati, compera il fanciullo, il padre ed un altro: e vuole che il fanciullo lo serva in casa, e gli altri due lavorino ne’ giardini. Lavorava il buon Pasquale, e di continuo teneva gli occhi sul figliuolo, che per la fresca etá e l’avvenenza della persona aveva pur bisogno di chi lo tenesse saldo nella fede di Cristo, e gli desse forza a resistere alle insidiose promesse di ricchezze e di onori che gli faceva il barbaro padrone. Scrisse il dabben uomo alla moglie, fece vendere ogni masserizia, e raggruzzolati quanti denari potè, aggiuntine altri dai buoni frati di Santa Maria della mercede della redenzion de’ cattivi, dopo due anni riscattò il figliuolo. E poi che l’ebbe baciato e benedetto, lo mise in barca per l’Italia, e ringraziò Iddio che aveva liberato quel suo caro innocente dai pericoli della schiavitú. Indi ad un anno fu riscattato anch’egli ed i compagni.

Intanto essendo re Ferdinando I di Borbone, fu mandata in Ponza una colonia di molti condannati per vari delitti, e furono invitate ad andare ad abitarla molte famiglie povere di Torre del Greco, cittá allora distrutta dal Vesuvio, e pescatori d’Ischia. E volendosi ripopolare anche Ventotene, vi furono primamente mandati nel 1768 dugento galeotti a costruire le case per la colonia, ed un castello per un bastevol presidio di soldati. Questa povera gente finí le fabbriche, ma quasi tutti morirono, perché la notte eran rinchiusi nelle rovine di una antica, vasta ed umida cisterna romana. Nel 1771 vi andò la colonia: erano tutti ladroncelli, ai quali furono date in mogli alcune donne condannate: vi corsero ancora famiglie di Torre del Greco e d’Ischia; tra le quali Pasquale Regine con la moglie ed il figliuolo. Tutti ebbero terre, arnesi rurali, sementi, frumento, e viveri sino alla ricolta. Andovvi [p. 293 modifica] un curato e tre preti: e fu eretta una chiesa a santa Candida di Cartagine, una cui immagine nascosta fra le rovine era adorata dai pescatori che qui approdavano. Ora nella chiesa vedesi l’immagine della santa, a cui stanno innanzi genuflessi e presentando le catene un vecchio ed un fanciullo, che sono Pasquale Regine ed il figliuolo. Oggi Ventotene è una vaga isoletta con mille abitatori, piú che quattro miglia di circuito, quattrocento moggia di terreno coltivabile, ed a tramontana un porto per piccole barche. In Ponza ed in Ventotene si mandano tutti i condannati alla relegazione, la piú parte ladri: ed ora senza condanna vi sono piú di quattrocento giovani generosi che hanno il delitto di aver combattuto da prodi su i campi della Lombardia e della Venezia. Rispettati ed onorati dagli stessi nemici, qui stanno mezzo nudi, mutilati, con le ferite ancor sanguinanti, misti ai ladri, penando nella miseria, scherniti da chi non rispetta neppure i sacri diritti della sventura.

Ripopolata Ventotene, rimaneva ispida e selvaggia la vicina Santo Stefano, dove nel 1794 fu costruito l’ergastolo, e ne fu architetto Francesco del Caprio. Qui furon mandati tutti i galeotti condannati a vita, e quelli che nelle altre galere erano piú feroci ed incorreggibili: onde divenne luogo di piú grave pena, ricetto di scelleratissimi. Nel 1799 vi furono chiusi ed incatenati oltre cinquecento prigionieri politici; tra i quali il carissimo padre mio che vi penò quattordici mesi. Dopo i tristi casi del 1821 quei condannati a morte, ai quali fu fatta grazia del capo, furono qui gettati e sepolti: qui stettero il marchese Tupputi, il colonnello Celentano, e il cavalier Fasulo, il maggiore Gaston, e tra moltissimi altri l’infelice capitano Piatti, che qui visse dodici anni filando canape. In tutti i paesi civili d’Europa i prigionieri politici sono tenuti con rigore sí, ma con rispetto; non sono misti ai ladri, agli assassini, ai parricidi, come si fa nel nostro paese. Questa compagnia di uomini perduti e scellerati fa piú dolore che la catena ed i ceppi, perché tormenta il cuore e l’anima: quasi che non bastasse di punire la virtú, si vorrebbe anche macchiarla, [p. 294 modifica] schernirla, e spegnerla, se la virtú potesse spegnersi. Nel 1836 questo edifizio fu destinato per i soli condannati all’ergastolo, e per pochi e pessimi condannati ai ferri. La pena dell’ergastolo stabilita nel nostro codice fu sostituita all’altra dei ferri in vita: per essa il condannato è chiuso in una stanza per tutta la sua vita, senza ferri, e con gli abiti suoi: perde tutti i diritti civili, è considerato come morto ab-intestato, e si apre agli eredi la successione. Pena terribile, perché senza speranza.

Ma entriamo in questa tomba dove sono sepolti circa ottocento uomini vivi: vedremo dolori che il mondo non conosce e non può mai immaginare: vedremo uomini imbestiati che sono discesi all’ultimo fondo dell’abbiezione morale: e da questo abisso di dolori e di delitti innalzeremo gli occhi e la voce a Dio affinché consoli chi soffre, e consigli chi fa soffrire.


Note

  1. [I primi cinque capitoli di questa terza parte costituivano un lavoro scritto dal Settembrini nell’ergastolo, col titolo: L’ergastolo di Santo Stefano. N. d. E.]