Rime varie (Alfieri, 1903)/CXXXI. Capitolo a Francesco Gori-Gandellini

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CXXXI (1784). Capitolo a Francesco Gori-Gandellini, su la custodia dei cavalli

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CXXXI (1784). Capitolo a Francesco Gori-Gandellini, su la custodia dei cavalli
CXXX. Ciò che il meglio si appella e vuol più lode CXXXII. L'Arno già l'Appennino e il Po mi lasso

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CXXXI (1784).

CAPITOLO

SU LA CUSTODIA DEI CAVALLI.

Checco mio, pazïenza: i’ t’ho da dire
Su le mie bestie, che ti do in consegna,
Cose più forse che non puoi tu udire.

Ma pur, perchè tu sane le mantegna,
E l’impresa rïesca a lieto fine,
Or d’eseguirle in quanto puoi t’ingegna.

Frontino è un tal monello, a cui piccine
Convien le parti far di fieno e biada:
Ch’ei mangeria a suo senno sei decine.

Ciò dico affin ch’ei presto a mal non vada
E disperda quel corpo smisurato,
Che il rende triste in stalla e pigro in strada.

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E, perchè sol la coda hangli tagliato,
Ti prego di badar che alle giumente
Non sia mai nè un istante posto a lato.

Casto è finora, e non ne sa nïente,
Ma natura fa presto ad insegnare;
E il sa chi del collegio ha i fatti in mente.

Frontin tra tutti è il sol che cavalcare
Anco potresti senza alcun periglio;
Onde il farai, se a te pur piace o pare.

Giannino che ha un coraggio di coniglio,
Ci sta con sue gambucce spenzolate:
Ci porrebbe ogni padre il proprio figlio.

Corvo, destrier di somma agilitate,
Dal vïaggio non ha ben tondo il fianco
E a lui fia nimicissima la state:

Non gli venga mai l’acqua innanzi manco;
Ch’ei rïavrassi al mio ritorno (spero)
Non cavalcato passeggiando in branco.

Bajardo, umano agevole sincero,
Bene aggiustati i ferri abbia davanti,
Perchè ai nodelli in dentro il pel sia intero.

Del resto è sano più di tutti quanti;
E saría ben cavallo paladino,
S’io mi fossi un dei cavalieri erranti.

Rondello pecca anch’ei dove Frontino:
Ma, in ber più che in mangiare intemperante,
Abbeverar si vuol coll’orciolino.

Egli è giovine, vispo, saltellante:
Non è da cavalcar da alcun di voi,
Che al ventre vi afferrate con le piante:

E veramente da moderni eroi
Ci state, quasi foste alla predella,
Staffeggiando, premendo, e gridand’: Ohi!

Ma Fido, il buon corsiero, a sè mi appella
E vuol che in dir di lui sia più lunghetto;
Perchè nostra amistade è men novella.

Questo è l’ardente mansüeto e schietto,
Che il dolce peso della donna mia
Portò, pien di baldanza e d’intelletto.

Nè mai cura di lui soverchio fia:
Ciò tanto or più, ch’ei del novel drappello
Par con certa ragion geloso sia.

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Fido mio, già non sei di lor men bello,
Perch’essi un po’ ti avanzino di mole:
Nessuno ha pari al tuo vago il mantello,

Ch’oro tu sei quando t’irraggia il sole;
Nè un più bel falbo non ho visto mai.
Ma, senza ch’io più faccia qui parole,

Già ben cinque anni accompagnato mi hai
E portato di me la miglior parte:
Quindi il mio più gradito ognor sarai.

Nel Fido, o Checco, hai da impiegare ogn’arte,
Perch’ei del dritto piè ritorni sano;
Chè picciol mal da sanità il diparte.

Col sambuco farai, che fresco e piano
Rïabbia il nervo: indi il nitrato agresto
Gliel guarirà col passeggiar pian piano.

Nè creder ciancie mai di quello o questo
Nè molto meno all’asin manescalco,
Quanto il medico all’uomo, a lor funesto.

Sole è un raro animal: quand’io il cavalco,
Veramente mi par d’esser gran cosa;
Quasi Alessandro del Granico al valco.

Tanta è beltà superba e maestosa,
Tal leggerezza in così late membra,
Tanta in aspetto uman vista animosa,

Che a voler tutto dir favola sembra.
Era questo il destrier di Curzio audace;
Il cui nome la storia non rimembra,

Ed ha gran torto; chè desìo verace
Di acquistar fama al suo signor lo spinse
Là dove ogni altro sprone era fallace.

Spesso in battaglia è il palafren che vinse,
Giungendo ardire a chi premeagli il dorso,
Sì che a far maraviglie lo costrinse.

Così a Sole convien ch’io freni il corso,
Perchè alle voglie sue fervide ed alte
Pone il mio secol vile un duro morso.

Pazïenza è mestier che il cor mi smalte;
Che, se il fero corsiero al far m’inspira,
Mia stella vuol ch’io gli altrui fatti esalte. —

Ma fuor di stalla mi ha tirato l’ira;
Mentre tutti al presepio or ci condanna
Quel poter contro cui nullo si adira.

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Torno a Sole; di cui molto mi affanna
Quella gamba di dreto così grossa,
Che un cotal po’ pur sua bellezza appanna;

Non sua bontà; ch’ei con la stessa possa
E sale e scende e trotta e salta e corre;
Assai più l’affatica, e meno ingrossa.

Ma spero che tal macchia abbiangli a tôrre
Otto o dieci spalmate dell’unguento
Che l’ossa infino alle midolle scorre.

Il mal vien presto, e se ne va poi lento:
E’ ci vuol flemma; e, de’ due giorni l’uno,
Dare a Giannin questo divertimento.

Ei porrà il guanto, se lo osserva alcuno;
Ma, s’egli è sol, potrà far anche senza:
Dei due può far non ne guarisca niuno?

Finchè dura il fregare, abbi avvertenza
Che fredd’acqua la parte mai non tocchi:
Del resto lascia far la provvidenza.

Fin qui il mio chiacchierar par che trabocchi
D’un discreto ricordo un po’ i confini:
Ma questi sei destrier sono i miei occhi.

Ora a fretta, con pochi versuccini,
Dei be’ nove castagni disbrigarmi
Spero, e di noia trarre il Gandellini.

Dal mio tèma non vo’ più dilungarmi:
E in prova io ti vo’ dir ch’egli è gran danno
Che non usin più carri in fatti d’armi;

Ch’io certo arrecherei mortale affanno
A chi tentasse all’accoppiata foga
Di questi miei por fren con forza o inganno.

Leone, a chi il primato ben si arroga,
È quell’altero, non stellato in fronte,
Che con Toro a timon sempre si aggioga.

Sani entrambi: ma Toro avrà più pronte
L’ali, se togli a lui d’inutil carne
Libbre assai che in Leon fien meglio impronte.

Brillante anch’ei potrà molte acquistarne,
Senza che all’alta mole sua disdica:
Ma non saprei da qual degli altri trarne.

Bell’Aria è il suo fratel che ha tanto amica
Dell’uom la faccia; e in sue fattezze grosse
«Sono un minchion,» par veramente ei dica.

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Nessun mai credería che costui fosse
Un bambolone di quattr’anni appena,
Tai smisurate gigantesche ha l’osse.

D’ogni cibo a costui parte strapiena:
E beva, e mangi, e ben quadrato cresca;
Ch’ei pagherà poscia in sudor l’avena.

A Favorito anco è mestier molt’esca:
Questi è solo, e il calesse è il carro suo;
Bench’io tal volta ai maggior quattro il mesca.

Son Gentile ed Ardente un solo in duo:
Sì ben fattini ed appaiati sono,
Che dirian duo padroni: È il mio o il tuo?

A Gentile finora io ben perdono,
Ch’ei pur talvolta del tirar fa niego:
Non è malizia; e a giovinezza il dono.

Ai piè d’Ardente assai badar ti prego,
Ch’ei davanti non ha l’ugna ben salda.
Ponvi dentro, s’ei duolsi, aceto e sego.

Ecco l’ultima coppia, e la più calda;
Sincero e Docil, cui la bianca striscia
Segna la faccia amabilmente balda.

Vorrei tornasse a Docile ben liscia
La gamba ov’ebbe mal sì crudo e lungo:
Vedestil tu com’ora al carro ei sguiscia?

Guarito è omai: ma, quasi mezzo un fungo,
Un callucciaccio gli riman sul nerbo:
Se non cresce, si lasci infin ch’io giungo;

Chè a provarci l’unguento mi riserbo:
Ma, se la gamba umor novello insacca,
Si rifaccia quel bagno al naso acerbo,

Zolfo, allume, ed orina ma di vacca:
Giannin, già cuoco, il fa; ch’or di cucina,
Mercè i cavalli, non ne sa più un’acca.

Ecco, dell’una e mezza mia decina
Ti ho detto a parte a parte ogni magagna,
E data, com’io so, la medicina.

Se il Bianchi od altro nostro ti accompagna
In stalla, ivi a lor leggi il foglio mio,
Che non ben dal letame si scompagna:

Ma, s’ei rider vi fa, ben l’ho scritt’io.