Rivista di Scienza - Vol. I/Problemi di Chimica organica
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PROBLEMI DI CHIMICA ORGANICA.
Da molte parti si ode oggi proclamare che nell’ultimo quarto di secolo uno spirito nuovo è penetrato nella vecchia chimica portando in questa scienza un radicale rivolgimento. Questa affermazione ha il suo lato esatto; tuttavia i risultati raggiunti non debbono far dimenticare quanto resta ancora da realizzare. Le nuove dottrine non hanno fatto progredire in modo uniforme tutti i rami della chimica; la chimica organica meno di ogni altra parte ne è stata toccata.
Per questa disciplina vale sempre ciò che ebbe a dire van ’t Hoff in un suo discorso, che di fronte alla chimica organica le teorie della termodinamica rimangono impotenti come di fronte ad una macchina arruginita.
Così è infatti e la ragione di questa impotenza è presto trovata: tutte le leggi della chimica generale si riferiscono a relazioni quantitative prescindendo dalle qualità della materia. Così le leggi dei gas come quelle delle soluzioni diluite sono indipendenti dalla natura delle sostanze e similmente la regola delle fasi di Gibbs e il principio dell’equilibrio mobile di van ’t Hoff e Le Chatelier. Allorquando, come nella legge dell’azione di massa, la natura chimica delle sostanze ha influenza, essa viene nello equazioni relative confinata abilmente in una costante sulla quale non si può dire ulteriormente nulla. Per processi relativamente semplici quali intervengono prevalentemente nella chimica inorganica, si riesce fino ad un certo punto ad esprimere le qualità mediante quantità. Così segnatamente la teoria della dissociazione elettrolitica ha fornito il punto di partenza per intendere la salificazione e tutte le reazioni che sono connesse con questa. L’azione chimica degli acidi e delle basi appare nettamente definibile in base alla loro conduttività elettrica e la così detta energia di quelle sostanze può essere espressa numericamente.
Nella chimica inorganica le trasformazioni sono per la massima parte di natura semplice e stanno spesso in uno stretto nesso colla salificazione; la chimica generale ha infatti potuto riportare in questo campo i suoi migliori trionfi. Nella chimica organica invece le cose stanno affatto diversamente; intervengono bensì anche qui processi che corrispondono alla salificazione ed in questi casi le teorie della meccanica chimica hanno infatti trovato applicazione. L’eterificazione e la saponificazione e tutti gli altri processi confrontabili con esse si possono perciò trattare teoricamente come i corrispondenti problemi inorganici.
Questi processi rappresentano però nella chimica organica una parte subordinata, e le reazioni più numerose e più importanti non stanno con essi in alcuna relazione. I composti del carbonio presentano un gran numero di differenti tipi i quali per lo più nulla hanno di comune cogli acidi e colle basi e quindi nessun legame colla teoria della dissociazione elettrolitica. È perciò facilmente comprensibile come la chimica organica sia ancora quasi completamente dominata dall’empirismo sperimentale, e non è facile cosa il prevedere quando e come questo empirismo potrà essere vinto.
Questo largo campo di studi non avrebbe avuto uno sviluppo così fecondo se altre idee direttive non fossero intervenute. Solamente, e ciò caratterizza il periodo di sviluppo in cui si trova la chimica organica, si trattava sostanzialmente di svolgere e di costruire la sistematica dei composti del carbonio. La teoria della valenza che per la sistematica dei derivati degli altri elementi non presenta alcun vantaggio notevole e la cui deficienza venne mostrata in questi ultimi tempi dalla teoria dei numeri di coordinazione di Werner, ha avuto invece pei composti del carbonio un successo completo. Dalla concezione Kekulejana della tetravalenza e della concatenazione degli atomi di carbonio si è svolta la così detta teoria della struttura che domina nel modo più semplice tutto questo campo di fenomeni. Ed infatti dalla suaccennata supposizione si possono prevedere tutti i derivati che questo strano elemento è capace di dare con pochissimi altri (ed il loro numero appare infinito poichè cogli attuali centomila si è quasi altrettanto lontani dalla fine come coi primi diecimila) e si può disporli in un ben ordinato sistema. Alle suaccennate si è aggiunta una sola nuova concezione che pure era già contenuta in germe nella ipotesi di Kekulé, che cioè l’atomo di carbonio tetravalente non debba essere rappresentato da una figura piana, ma che le sue quattro valenze siano distribuite uniformemente nello spazio.
Questo concetto venne svolto contemporaneamente ed indipendentemente da Le Bel e da van ’t Hoff e ne risultò la dottrina dell’atomo di carbonio tetraedrico, la così detta stereochimica, la quale ha dato il modo di vincere le difficoltà che offrivano gli isomeri di uguale costituzione.
Io non voglio qui esaminare ulteriormente se questa concezione che forma oggi il fondamento di tutto il sistema della chimica organica e che ha promosso come forse nessuna altra lo sviluppo della scienza, debba essere considerata come durevole o come una forma di transizione. La storia della chimica organica sembra parlare assai in favore di quest’ultima possibilità. Le teorie che io ho ora tentato di riassumere in poche parole rappresentano il lavoro di una lenta trasformazione che ha durato più di mezzo secolo. La vecchia teoria dei radicali si trasformò per opera di Gerhardt nella così detta teoria dei tipi e da questa si formarono alla lor volta le teorie della valenza e della struttura. A mano a mano che i fatti sperimentali aumentavano e non potevano più essere compresi nella armatura scientifica esistente, quest’ultima veniva successivamente trasformata ed allargata. Attualmente l’edificio costruito con massi tetraedrici può contenere comodamente tutto il materiale sperimentale esistente e può secondo le occorrenze essere allargato collo stesso materiale e nello stesso stile. L’avvenire insegnerà se debba un giorno esser necessaria una ricostruzione su altra base; le piccole screpolature che già si possono avvertire qua e là non mi sembrano per ora ancora minacciose per la stabilità dell’edificio.
Non è già la stabilità dell’edificio (per conservare la stessa immagine) che lascia a desiderare, ma bensì la disposizione e l’adattamento interno che è ancora assai arretrato in confronto di quello dell’edificio della chimica fisica; nella chimica organica predomina ancora in modo quasi assoluto l’empirismo. Come ho già accennato i grandi vantaggi della teoria della valenza risiedono particolarmente nella sistematica dei composti del carbonio; certamente questo non è poca cosa poichè il primo passo nella trattazione scientifica di un determinato capitolo deve sempre consistere in una classificazione del materiale che, lasciato disordinato non sarebbe utilizzabile. Quando di un dato composto organico possiamo dire come siano disposti e legati fra loro i differenti atomi, allora, ma solamente allora il problema è risolto ed esso trova il suo posto sicuro nel sistema. Questo problema è talvolta assai difficile e può richiedere lunghi anni di faticoso lavoro da parte dei migliori studiosi. In generale si fa precedere il processo analitico: il composto viene, come suol dirsi, demolito finchè si arriva a sostanze di costituzione nota che stanno col primo in una determinata relazione. Il problema è però definitivamente risolto solo se anche il processo inverso può essere realizzato: la ricostruzione o, come si dice, la sintesi da composti più semplici la cui struttura sia nota. Così, per citare un esempio recente, la costituzione di un corpo relativamente semplice, la canfora, rimase malsicura malgrado lunghe molteplici ricerche fino a che Komppa riuscì, basandosi su studii precedenti e specialmente su quelli di Bredt, a prepararlo per via artificiale.
Una formola di struttura dice però assai più che il semplice posto della sostanza considerata nel sistema; si può anzi prevedere fino ad un certo punto in base alla formola il comportamento chimico della sostanza. Se si considera la cosa ben attentamente si vede che non è lo spirito della formola che ne salta fuori ma bensì lo spirito proprio del chimico che vi si rispecchia. In sostanza la formola non può dare più di quello che vi si è introdotto. Un’esperienza puramente empirica ci insegna come si comportino certi composti, certi aggruppamenti atomici e in base ad analogie se ne conclude che cosa debba aspettarsi in un determinato caso ancora sconosciuto. Dato ciò è chiaro che non sempre si coglie nel segno, ma che spesso si va incontro a qualche sorpresa. Io voglio illustrare questo mediante alcuni esempi.
La teoria della valenza trovò uno dei suoi maggiori successi nel campo dei così detti composti aromatici. Al principio della seconda metà del secolo scorso era nota tutta una serie di corpi, che in buona parte appartenevano agli aromi e che diedero perciò il nome a tutto il gruppo. Fu trovato che tutte queste sostanze stanno in rapporto con un idrocarburo che era stato scoperto da Faraday nel gas illuminante compresso e che più tardi a causa della sua preparazione dall’acido benzoico venne chiamato benzolo. Ora questi derivati del benzolo posseggono tutti nel loro comportamento chimico certi caratteri distintivi per cui essi si differenziano notevolmente dagli altri composti del carbonio che vengon detti sostanze grasse. A questo punto, nel 1865, Kekulé ebbe la geniale e feconda idea di ammettere pel benzolo una formola di struttura che si distingueva da tutte le altre conosciute fino allora perciò che gli atomi di carbonio erano concatenati per formare un anello chiuso; i sei atomi tetravalenti di carbonio sono collegati gli uni agli altri, alternativamente con uno e con due legami:
Il successo di questa concezione fu immenso poichè da quello schema possono senz’altro dedursi tutte le singolari isomerie che si riscontrano nei derivati del benzolo. Ma tutto ciò è pura sistematica. Allorchè si andò più innanzi e si tentò di mettere in accordo il comportamento chimico di queste sostanze colla formola del benzolo ci si urtò ben presto in gravi difficoltà. Il benzolo come pure alcuni dei suoi derivati appartengono alle sostanze più stabili della chimica organica e sono segnatamente assai resistenti contro i processi di ossidazione, mentre si sa che in generale la presenza di doppi legami porta con sè un comportamento esattamente opposto. Ma con ciò non erano esaurite le sorprese risultanti dal singolare comportamento dell’anello benzolico. Le classiche ricerche di Adolfo von Baeyer e dei suoi scolari hanno mostrato che basta sciogliere uno solo di quei tre doppi legami esistenti nel benzolo per alterare completamente il carattere del corpo e per renderlo cioè identico a quello degli altri composti di carbonio non saturi privi di struttura ciclica. Solo tre doppi legami, come suol dirsi, coniugati fra loro, determinano quella speciale stabilità; la circostanza se il corpo contiene una catena aperta di atomi di carbonio od una chiusa ad anello non ha alcuna influenza.
Per render ragione di questi fatti, i chimici si sbizzarrirono in tutti i modi intorno alla formola del benzolo senza poter giungere ad un risultato soddisfacente. Il desiderio di togliere queste difficoltà era sentito così vivamente che ancora oggi si sente lamentare che la questione della formola del benzolo non sia ancora risolta; non vi è ancora infatti nessuna formola di questa sostanza che dia ragione in modo soddisfacente del suo comportamento chimico. Io penso che la formola di Kekulé è altrettanto ben fondata quanto lo permette la teoria della struttura: da nessuna formola si può pretendere che essa ci renda conto in modo completo del comportamento chimico di un corpo.
Mi sia lecito di portare ancora un esempio tolto dalla mia esperienza personale. Allorchè io 27 anni or sono mi accinsi alla ricerca dei componenti non basici del così detto catrame animale per procedere poi allo studio del comportamento chimico del pirrolo che vi è contenuto ed andai così incontro alle tante difficoltà che porta sempre con sè l’addentrarsi in un nuovo campo di studii, volle un caso fortunato che io una notte mi sognassi che il pirrolo doveva avere il comportamento dei fenoli. La formola non avrebbe potuto rivelare questo a nessuno, eppure il sogno si è verificato nel modo più perfetto ed il contributo che ho portato in questo campo fu una conseguenza di quella fortunata ispirazione.
Un’esperienza simile doveva fare alcuni anni più tardi Vittorio Meyer col tiofene da lui scoperto. Nessuno avrebbe potuto prevedere che questo composto solforato dovesse mostrare una analogia col benzolo così completa da potersi spesso scambiare i composti delle due serie.
Sarebbe dunque compito della chimica teorica di stabilire in modo sicuro le relazioni che devono esistere fra le formole e le proprietà dei composti di carbonio. Da quanto ho detto risulta quanto si sia ancora discosti da ciò.
Non si deve naturalmente credere che siano mancati i tentativi di accostare una questione così fondamentale. Regole e principii che si riferiscano alle relazioni fra la costituzione delle sostanze e le loro proprietà non mancano davvero. Si sono trovate numerose relazioni numeriche fra la densità, i punti di fusione e di ebullizione, il potere rifrangente e dispersivo, il calore di combustione dei corpi e la loro costituzione; a questo capitolo spettano pure la miscibilità allo stato cristallino e sopratutto la regola già accennata dell’atomo di carbonio asimmetrico nelle sostanze otticamente attive. In tutti i capitoli della chimica fisica si trovano simili regole intorno alle cosidette proprietà costitutive, dalle quali però risulta con sicurezza una cosa sola e cioè che le veri leggi che debbono certamente reggere questo ordine di fenomeni sono ancora sconosciute.
Guglielmo Ostwald, il geniale sostenitore di una trattazione della nostra scienza scevra di ipotesi e che ha con i suoi scritti tanto contribuito allo sviluppo della chimica moderna, in un suo libro recentemente pubblicato addita come il fine che la chimica organica deve proporsi di raggiungere, la rappresentazione delle proprietà delle sostanze come funzione della loro composizione e del loro contenuto in energia.
Non può esservi alcun dubbio che anche la chimica organica nonostante la sua spaventosa complessità debba andare incontro ad un tale avvenire. Io non credo tuttavia che si possa tanto presto fare a meno della ipotesi atomistica molecolare, poichè essa sembra corrisponder troppo strettamente al nostro modo di concepire i fenomeni. Sembra anzi che l’ipotesi atomica vada incontro ad un nuovo sviluppo che questa volta ha ricevuto il suo impulso dalla fisica. Circa un quarto di secolo fa si considerava come fine ultimo di tutte le considerazioni teoretiche la meccanica degli atomi e precisamente nel senso di una meccanica astronomica ridotta a microcosmo. Questa concezione è ora passata di moda e al suo posto dovrebbero subentrare rappresentazioni derivate dalla teoria degli elettroni. Non si può nè si deve però disconoscere che oltre alle teorie meccanico-atomistiche anche le dottrine termodinamiche o, per esprimersi più generalmente, energetiche debbono trovare la loro applicazione anche nel campo della chimica speciale.
Io mi sono già espresso in altra occasione in questo senso e sono lieto che un celebre fisico, H. A. Lorentz si sia in un suo recente discorso ispirato allo stesso ordine di idee, che entrambi i metodi, il termodinamico ed il cinetico possano l’uno accanto all’altro contribuire in uguale misura al progresso delle scienze fisiche. La odierna chimica organica è ancora ben distante da tutto ciò. Non si può però muover rimprovero agli attuali chimici organici se essi continuano a procedere per la propria strada. Essi debbono però sforzarsi di utilizzare nelle loro ricerche ogni qualvolta sia possibile e sin dove è possibile i metodi della chimica fisica e cercare così di sostituire gli accennati metodi empirici con altri più corrispondenti ai tempi nuovi. Questi potranno sopratutto essere applicati con buon successo alla soluzione delle questioni connesse colla tautomeria.
In complesso però non c’è da aspettarsi che la attuale chimica organica sia sostanzialmente alterata dalle nuove teorie; gli organici continueranno per ora a camminare per le vie finora battute. È sperabile però che non si vorrà considerare come uno scopo da conseguire, l’aggiungere al più presto possibile ai più che centomila individui che conta già oggi la chimica organica una nuova uguale popolazione. La superpopolazione nuoce sempre, sopratutto quando come in questo caso non è possibile l’emigrazione. È invece desiderabile che la chimica organica tenti di estendersi non tanto nel senso della superficie, quanto in quello della profondità; questo il suo problema più importante in un avvenire prossimo.
Ma la chimica organica ha da molto tempo un’altra missione, quella che è espressa dal suo nome; essa è la chimica del mondo organico che è per la massima parte costituito da composti di carbonio. Il determinare quali siano le sostanze che compongono le piante e gli animali, come esse si formino e che cosa finalmente diventino, fu sempre considerato dalla chimica come uno dei suoi principali problemi, alla soluzione del quale i ricercatori si accinsero nei varii tempi con vario ardore. Al principio del secolo scorso sembrava che questo problema promettesse ben scarsi risultati poichè non si era capaci di riprodurre artificialmente le sostanze organiche. Allorchè però si riuscì a sorpassare le prime difficoltà si riconobbe bentosto che la chimica organica non ha bisogno di porsi limite alcuno in questa direzione.
Was man an der Natur Geheimnissvolles pries
Das wagen wir verständig zu probieren,
Und was Sie sonst organisch liess,
Das lassen wir krystallisieren,
dice Wagner il famulus di Faust e chi può sapere se non si potrà arrivare fino all’homunculus? Ma di ciò non è naturalmente qui il caso di parlare; se alla ricerca positiva debba mai riuscire di accostarsi così da vicino ai processi vitali da comprenderne completamente l’intima essenza, è cosa che nessuno può per ora nè affermare nè negare. Vi sono però altri problemi in gran numero, più promettenti di quelli ora accennati.
Sembra infatti che la chimica organica nello stadio attuale del suo sviluppo possa accingersi con buon successo alla soluzione dei problemi biologici. È un fenomeno che ricorre sempre nella storia delle scienze che le discipline più evolute agiscono beneficamente e fruttuosamente su quelle che sono rimaste più arretrate. La fisica ha ripetutamente esercitato una simile influenza sulla chimica ed appunto nei nostri tempi lo sviluppo rigoglioso della chimica generale fu ottenuto mediante l’introduzione di considerazioni e di metodi fisici. Si originano così le discipline di transizione che coltivano queste zone intermedie e rendono possibile questo rigoglio.
Fino a che la chimica organica aveva da costruire in casa propria non poteva toccare che incidentalmente e fuggevolmente problemi posti all’infuori di essa. Ora però (e con ciò non vuol dirsi che i problemi puramente chimici debbano essere trascurati) sembra che la chimica organica sia chiamata a rendere maggiori servizii nel campo biologico che nel suo proprio. La chimica biologica (una delle suaccennate discipline di transizione) ha effettivamente ricevuto negli ultimi tempi un potente impulso. Non è mia intenzione di parlare in generale di tutti i risultati ottenuti e di quelli da perseguirsi in questo campo così vasto; mi limiterò invece a trattare brevemente alcune questioni che in parte stanno in rapporto colle mie ricerche personali.
I successi della chimica organica nel dominio biologico consistono in gran parte nella riproduzione artificiale, nella sintesi di sostanze che si trovano in natura. Con ciò essa rende anche alla chimica fisiologica ed alla biologia in generale un grandissimo servizio. Poichè col riconoscimento della costituzione chimica delle sostanze che costituiscono gli organismi viventi o vengono da questi consumate vien porta al fisiologo la possibilità di riconoscere con sicurezza queste sostanze e gli vien facilitato il compito di stabilire la loro funzione ed importanza nel processo vitale.
Qui ci si presenta però immediatamente una questione importantissima: fin dove i processi artificiali corrispondano effettivamente a quelli naturali negli organismi delle piante e degli animali. Sono principalmente i cosìdetti processi di assimilazione nelle piante che debbono richiamare in alto grado la nostra attenzione. Infatti per quanto i confini artificiali fra il regno vegetale e l’animale siano ormai da lungo tempo caduti e non sia più lecito di contrapporre l’attività delle piante come contrapposto assoluto a quella degli animali, è però un fatto che i processi sintetici hanno luogo principalmente nelle prime. Queste posseggono attitudini chimiche di natura assai singolare e si lasciano a grande distanza i nostri risultati più brillanti.
Dalle piccole traccie di acido carbonico che offre loro l’aria, dalle piccole quantità di sali che esse sottraggono al suolo, dall’acqua ovunque presente, e per mezzo della luce, le piante riescono a preparare con apparente facilità tante svariate sostanze che noi così a stento riusciamo a riprodurre. Che cosa non potrebbe fare uno di noi con un laboratorio installato e fornito in tal guisa?
I mezzi che la chimica organica impiega a preparare delle sostanze naturali sono del tutto diversi da quelli che la natura ha a sua disposizione. La prima si serve principalmente di temperature elevate e delle più energiche affinità chimiche. Gli acidi minerali e le basi più forti, gli alogeni, i metalli più elettropositivi come potassio, sodio e magnesio, certi cloruri metallici anidri e i composti alogenati del fosforo sono i reagenti che, quotidianamente impiegati nei nostri laboratorii, permettono la ricostruzione delle sostanze organiche.
I processi sintetici che la chimica organica sa compiere non sembrano invece stare in se in tale brusco contrasto coi naturali e qui, come potrò mostrare più avanti, il confronto fra i due ordini di fenomeni accenna a qualche probabile analogia.
Si chiede perciò di quali misteriose forze dispongano gli organismi viventi per potere ottenere per vie apparentemente così semplici risultati così grandiosi. Non occorre di invocare come si faceva una volta una particolare forza vitale; si può invece ritenere che la differenza sostanziale fra le esperienze di laboratorio ed i processi naturali consista nella scelta dei catalizzatori. Si comprendono sotto questo nome quelle sostanze che sono capaci di influire sopra certe reazioni accelerandole (o ritardandole).
Acidi e basi, cloruri metallici anidri, metalli finamente divisi od allo stato di soluzione colloidale esercitano particolarmente una simile influenza e vengono perciò assai spesso impiegati. Quale sia il meccanismo intimo della loro azione non è ancora ben chiaro, il lato caratteristico risiede in ciò che essi non prendono alcuna parte durevole al processo che determinano. Così per esempio il platino finamente diviso od in soluzione colloidale provoca la decomposizione dell’acqua ossigenata (perossido d’idrogeno) in acqua ed ossigeno, senza subire esso stesso alcuna modificazione; in modo affatto simile la zimasi che Buchner ha insegnato a ricavare dai lieviti provoca la scomposizione dello zucchero d’uva in anidride carbonica ed alcool.
Un esempio tolto dalla grande industria inorganica può illustrare assai bene l’importanza della questione della scelta dei catalizzatori. Fino a poco tempo fa la fabbricazione dell’acido solforico poteva farsi solamente ossidando il gas solforoso coll’ossigeno atmosferico mediante l’acido nitrico e richiedeva perciò l’impiego di vasti apparecchi le cosidette camere di piombo. Ora si è imparato ad ottenere lo stesso scopo in modo assai migliore e più semplice mediante l’impiego del platino finamente diviso. Una differenza di gran lunga maggiore si osserva fra i catalizzatori naturali e quelli impiegati in laboratorio.
I primi sono sostanze organiche di costituzione ancora completamente sconosciuta e vengon detti comunemente enzimi o fermenti. Lo studio di queste sostanze ha naturalmente negli ultimi anni aumentato assai di importanza ed ha condotto anche a varii risultati assai notevoli.
Ai fermenti noti già da lungo tempo che si trovano negli apparati digerenti degli animali: nella saliva, nello stomaco e nel pancreas; agli agenti delle fermentazioni alcoolica, acetica, lattica e butirrica; alla invertina ed alla diastasi sono venute ad aggiungersi numerose altre sostanze della stessa natura che determinano ed accelerano i diversi processi chimici; sembra quasi come se ad ogni singolo processo spettasse uno speciale fermento.
La scoperta di Buchner ha inoltre reso assai verosimile che la distinzione che prima si faceva e si riteneva sostanziale fra i fermenti organizzati e gli enzimi non formati sia priva di fondamento, in quanto che anche dopo la morte delle relative cellule permane il potere fermentante. I fermenti organizzati del lievito di birra come pure quelli delle fermentazioni acetica e lattica contengono enzimi solubili od insolubili che possono sopravvivere al protoplasma. Così la teoria chimica della fermentazione di Liebig è tornata in vigore ed il campo delle funzioni vitali non riproducibili è stato notevolmente ridotto. Gli enzimi stessi conservano una sorta di vitalità che può esser spenta e precipuamente assai spesso, ciò che dà molto a riflettere, mediante quegli stessi «veleni» che rendono inattivo il platino colloidale.
Gli enzimi possono inoltre ben spesso esercitare la loro azione in due sensi opposti e cioè determinare non solamente la decomposizione, ma anche la ricombinazione. Così per es. la limitasi provoca la produzione del maltosio e la lipasi favorisce la eterificazione. Sembra cioè che esista una legge generale secondo cui nei processi invertibili il catalizzatore agisce accelerando in entrambe le direzioni e conducendo all’equilibrio.
Nelle piante verdi si aggiungono all’azione dei catalizzatori suddetti anche altri cofficienti di importanza fondamentale: l’azione della clorofilla e l’influenza della luce che sono strettamente legate fra di loro; sotto l’influenza dei raggi luminosi si compie nelle cellule verdi il cosidetto processo di assimilazione pel quale nel granulo di clorofilla si forma l’amido.
La natura dispone di due meravigliosi pigmenti che hanno la maggiore importanza per la vita degli organismi superiori; la sostanza colorante verde, la clorofilla, del regno vegetale, e la rossa, l’emoglobina, del mondo animale.
La intima costituzione chimica di queste due sostanze è ancora ignota, le ricerche più recenti hanno tuttavia condotto a riconoscere fra esse una singolare analogia. Dalla emoglobina si può separare il suo componente albuminoidico, la globina; si ottiene così l’ematina che liberata dal ferro che contiene si trasforma in ematoporfirina. D’altra parte la scissione profonda della clorofilla conduce ad un corpo di composizione relativamente semplice, alla filloporfirina. Ora questi due composti la ematoporfirina e la filloporfirina sono sostanze assai simili fra loro e che stanno entrambe in rapporti assai stretti col pirrolo.
Malgrado questa corrispondenza esse esercitano però azioni fisiologiche del tutto opposte. L’emoglobina favorisce, esattamente come un fermento, i processi ossidativi negli organismi animali agendo cioè come trasportatore d’ossigeno e rendendo così possibile una lenta combustione. La sua azione è così distruttiva, demolitrice. Al contrario la clorofilla esercita una funzione sintetizzante provocando la formazione dell’amido dall’acido carbonico.
Le suaccennate proprietà della emoglobina sono con ragione state attribuite al suo contenuto di ferro, ma donde possono prendere origine le proprietà opposte della clorofilla? Una recente notevolissima osservazione di Willstätter permette di rispondere a questa questione così importante. Egli ha scoperto che la clorofilla contiene magnesio. Dalla materia colorante verde delle foglie si possono infatti mediante alcali ottenere prodotti di natura acida, le clorofilline, che contengono circa 3 ½ % di ossido di magnesio. Sembra ora assai verosimile l’ipotesi esposta da Willstätter che la capacità della clorofilla di esercitare azioni sintetiche sia da attribuire alla presenza di questo metallo. I componenti organici del magnesio trovano infatti da alcuni anni secondo il metodo di Grignard un impiego assai largo nella sintesi artificiale di composti organici.
Rivolgiamoci ora alla influenza che la luce esercita sui processi di assimilazione nelle piante. La luce costituisce per le piante la sorgente di energia; esse sole sono capaci di utilizzare e di accumulare per quanto in scala relativamente minima l’energia solare sotto forma di energia chimica. Ciò è della massima importanza pel bilancio della natura poichè l’energia chimica così accumulata può essere immediatamente utilizzata e consumata dagli animali. Colle metamorfosi delle sostanze procedono di pari passo le trasformazioni della energia.
Le azioni chimiche della luce sono state studiate segnatamente nella parte che riguarda la fotografia e le sue attuali larghissime applicazioni. Dal punto di vista teoretico però la fotochimica non si può ancora svolgere completamente e perfino il processo fotografico non fu ancora del tutto chiarito.
L’energia raggiante sta sicuramente di stretto rapporto colla energia elettrica; essa esercita azioni chimiche secondo una legge assai semplice che fu già scoperta sperimentalmente da Bunsen e Roscoe e che anche le ricerche più recenti confermarono. L’azione chimica è, in tempi uguali, proporzionale all’intensità luminosa.
La luce può agire decomponendo come sull’acido jodidrico e nel processo fotografico, oppure provocando sintesi come sul gas tonante cloro-idrogeno e nel processo di assimilazione delle piante.
In tutti i casi i raggi assorbiti chimicamente innalzano (come il calore la temperatura termometrica) quella che si potrebbe chiamare la «temperatura della luce» e che per ora non si sa ancora definire esattamente; in tutti i processi sembra che questa debba raggiungere un certo grado perchè la reazione possa aver luogo. Secondo la natura di quest’ultima l’energia raggiante si trasforma in energia chimica o la luce agisce come catalizzatore. Quantunque si considerino ordinariamente i raggi azzurri e violetti come i più attivi chimicamente, pure tutte le lunghezze d’onde possono essere attiniche e si può dire in generale che secondo la natura del processo le varie onde luminose vengono, forse per una specie di «risonanza» assorbite chimicamente ed esercitano però una azione. Si è recentemente provato che la luce può agire anche ritardando e per es. certe ossidazioni vengono accelerate dalla luce rossa e ritardate dalla violetta. Come in tutti gli altri capitoli della chimica fisica, anche qui le considerazioni teoriche non sono sufficienti per far prevedere tutti i processi e solo l’esperimento diretto può fornire indicazioni positive.
Perciò si è spesso ricercato quali reazioni siano particolarmente favorite dai raggi luminosi e queste ricerche (che hanno, come ben si comprende, grande importanza per la comprensione dei processi chimici che avvengono nei vegetali) hanno già condotto a varii risultati degni di nota.
Io qui naturalmente accennerò solo le alterazioni che subiscono le sostanze organiche. Le relative azioni chimiche della luce, delle quali noi già da qualche tempo ci stiamo occupando, si possono riassumere e distinguere nel modo seguente:
Anzitutto agendo su coppie di sostanze opportunamente scelte la luce determina assai facilmente azioni contemporanee di ossidazione e di riduzione, nelle quali mentre una delle sostanze si ossida, l’altra subisce la trasformazione contraria. Questo si ottiene assai spesso mediante semplice trasposizione di idrogeno senza che si formi contemporaneamente una terza sostanza. Tali reazioni accadono fra alcooli da una parte e sostanze le quali, come noi diciamo, contengono il gruppo carbonilico CO, ossia aldeidi, chetoni o chinoni dall’altra. La reazione procede in guisa che l’alcool cede il suo atomo di idrogeno attivo che si va a legare all’atomo di ossigeno del composto carbonilico. Così, per citare come esempio il primo caso scoperto, il chinone si riduce ad idrochinone per azione dell’ alcool che si ossida passando ad aldeide.
Possono inoltre aver luogo riduzioni complicate. Gli alcooli trasformano i nitrocomposti come il nitrobenzolo nei suoi successivi derivati idrogenati per arrivare in fine all’anilina.
In simile guisa le aldeidi aromatiche possono agire sui nitroderivati determinando reazioni assai complicate. In alcuni casi particolarmente favorevoli tali processi reciproci possono aver luogo nella stessa sostanza. Così la ortonitrobenzaldeide si trasforma alla luce in acido ortonitrosobenzoico, poiché mentre il gruppo nitrico si riduce a nitrosilico, quello aldeidico si ossida trasformandosi nel gruppo carbossilico caratteristico degli acidi. Questa trasposizione ha luogo con una velocità clic è comparabile a quella pei processi fotografici ordinari. Le altre reazioni suaccennate procedono di regola molto più lentamente ed uno studio esauriente di esse richiede un tempo di esposizione che ammonta spesso a settimane e mesi.
Un altro gruppo di reazioni che vengono influenzate dalla luce sono le cosidette autoossidazioni, ossia i fenomeni di ossidazione diretta per mezzo, dell’ossigeno atmosferico. Engler ha riassunto in modo opportuno il ricco materiale sperimentale già esistente, da cui si rileva che questi processi hanno una grande portata per la comprensione delle trasformazioni chimiche negli organismi animali e vegetali.
Dalla luce vengono inoltre favoriti quei processi che si dicono di polimerizzazione, nei quali due o più molecole uguali fra loro si uniscono per formarne una più complessa. Come esempio più semplice può citarsi quello della trasformazione del fosforo giallo in fosforo rosso. Casi simili accadono però anche in composti organici. Di particolare interesse è p. es. la trasformazione dell’antracene in diantracene, la quale procede alla luce ma retrocede all’oscuro. Aldeidi come la benzaldeide subiscono assai facilmente simili alterazioni; quest’ultima si polimerizza dando una sostanza resinosa di elevato peso molecolare, mentre in presenza di jodio dà invece un trimero cristallino. A questa categoria appartengono anche reazioni che possono considerarsi come vere e proprie sintesi; così l’acido propargilico, che appartiene alla serie grassa, si trasforma in un derivato del benzolo, l’acido trimesinico.
Un altro gruppo di fenomeni è dato da quei processi in cui la sostanza cambia solo la sua configurazione nello spazio. Così l’acido maleico si trasforma alla luce nel suo stereoisomero l’acido fumarico.
Che la luce possa infine provocare decomposizioni e scissioni è cosa che da quanto fu detto prima si può facilmente prevedere. Certi acidi organici, perdono alla luce facilmente anidride carbonica e su questa reazione si possono anzi fondare vere e proprie esperienze fotometriche. Anche l’idrolisi, ossia la scissione mediante intervento di acqua, ha negli ultimi tempi fornito risultati sorprendenti. L’acetone si trasforma alla luce in soluzione acquosa in acido acetico e metano o gas delle paludi. Segnatamente degno di nota è il fatto che certe sostanze che noi chiamiamo cicliche, perchè la loro molecola è costituita da una catena chiusa di atomi di carbonio, possono subire, quando si assomigliano all’acetone, una trasformazione simile nella quale però non si ha scissione in due sostanze diverse, ma l’anello si schiude trasformandosi in una catena aperta. Così per citare un esempio non ancora pubblicato e che è assai istruttivo per la sua perspicuità il cicloesanone si idrolizza passando ad acido capronico normale.
Chissà che nelle piante in condizioni speciali ancora ignote a noi non siano possibili i processi inversi a quelli ora descritti in modo da produrre la sintesi delle sostanze organiche di natura ciclica. Questi sono dunque (per quanto noi possiamo giudicare) i mezzi dei quali possono disporre le piante per spiegare la loro così grandiosa attività sintetica: enzimi clorofilliani ed enzimi privi di clorofilla, di cui coi primi interviene l’energia luminosa del sole. Quali siano però esattamente i processi che con questi mezzi si compiono è ben difficile comprendere.
Confrontando il lavoro artificiale di laboratorio coi processi naturali, una circostanza colpisce subito e cioè con quale maggiore parsimonia operi la natura. Sono sempre le stesse forme, sempre gli stessi aggruppamenti atomici che si ritrovano nelle sostanze naturali. Allorché Emilio Fischer riuscì a riprodurre le sostanze zuccherine naturali semplici e preparò effettivamente tutte le diverse forme che la teoria fa prevedere, si trovò che di tutte queste molte forme tre o quattro sole bastano completamente alle piante le quali non si danno punto la briga di seguire lino in fondo la teoria. Questo sarebbe anzi per noi una superiorità, ma si osserva come purtroppo le sostanze semplici che noi sappiamo riprodurre e maneggiare siano per le funzioni vitali le meno essenziali. Come substrato per la vita organica sono indispensabili i composti più complicati. Se si prescinde dalle sostanze grasse che hanno un’importanza subordinata, si trova che la funzione vitale si fonda in prima linea sulle trasformazioni chimiche degli idrati di carbonio (sostanze zuccherine molto complicate) e delle proteine. La natura non ama le costruzioni monolitiche, essa preferisce quelle costituite da materiale minuto. Accanto ai grandi complessi si trovano sempre i rispettivi enzimi i quali, secondo il bisogno, determinano la scissione o la ricostruzione dei composti. A noi riesce facilmente la prima parte, la seconda presente ancora enormi difficoltà.
Passiamo ora a trattare dei singoli gruppi di sostanze che sono particolarmente necessarie alla vita, per comparare ciò che è stato già ottenuto con quello che resta ancora a fare.
In prima linea deve essere considerata la questione in quel modo l’acido carbonico dell’atmosfera venga utilizzato dalle piante per le sintesi di tutte le sostanze organiche. Dalla scoperta di Saussure in poi, tale questione ha sempre occupato, come ben s’intende, chimici e biologi, e tuttavia essa non può riguardarsi ani-ora coma definitivamente risolta. Si ammette generalmente secondo la supposizione di A. v. Baeyer che il primo passo in questo senso sia la riduzione dell’ anidride carbonica a formaldeide:
CO2 + H2O | = | H2CO + O2. |
formaldeide |
Si è tentato da un lato di riprodurre artificialmente questo processo, d’altra parte di dimostrare la presenza della formaldeide nelle parti verdi delle piante. Quanto al primo punto posso accennare che già A. Lieben era riuscito a ridurre l’acido carbonico ad acido formico; più recentemente W. Löb potè mediante le scariche elettriche oscure trasformare l’acido carbonico in presenza di acqua in formaldeide ed acqua ossigenata.
La presenza della formaldeide nelle parti verdi delle piante non potè invece essere ancora dimostrata con sicurezza. D’altra parte non si deve però disconoscere che questa sostanza è così facilmente alterabile che può nel momento stesso della sua formazione subire facilmente trasformazioni ulteriori e sottrarsi così alla dimostrazione diretta. Se si dovessero però confermare le recentissime ricerche di Priestley e Usher, si potrebbe considerare la questione come definitivamente risolta. Essi avrebbero infatti osservato che nelle foglie morte e anche in lastre di gelatina colorate con clorofilla, l’acido carbonico viene sotto l’azione della luce scomposto in formaldeide ed acqua ossigenata.
Se si può così partire effettivamente dalla ipotesi di Baeyer, la interpretazione dei processi immediatamente successivi che hanno presumibilmente luogo nelle piante non offre più alcuna difficoltà; poichè non vi è alcun ostacolo ad ammettere che dalla formaldeide per semplice condensazione si formino i varii zuccheri semplici:
CH2O | → | C3H6O3 | → | C6H12O6 |
formaldeide | gliceroso | esosi | ||
sostanze zuccherine semplici. |
Così sarebbero date le sostanze prime per l’ulteriore sintesi di molte altre biologicamente importanti.
I suaccennati corpi grassi sono composti ormai completamente noti e come fu già riconosciuto da Chevreul sono eteri composti risultanti dalla combinazione della glicerina cogli acidi grassi superiori. La glicerina può benissimo immaginarsi che si formi nelle piante dal sopra accennato gliceroso, e quanto alla eterificazione essa sarà verosimilmente provocata dagli enzimi lipatici. Ma come possono aver preso origine gli acidi grassi superiori? Che essi si siano formati, come nei classici lavori del Lieben dai termini inferiori per addizione successiva di atomi di carbonio è assai inverosimile, poichè è un fatto fisiologicamente ben stabilito che i grassi si formano dagli zuccheri. Si può forse ammettere che per un processo contemporaneamente riducente e condensante gli acidi stearico ed oleico provengano dagli esosi:
3C6H12O6 | → | C18H36O2 | → | C18H34O2. |
esosi | ac. stearico | ac. oleico |
Dall’acido oleico inoltre per opera di agenti energici può formarsi l’acido palmitico:
C18H34O2 → C16H32O2;
come fu accennato prima anche la luce può generare scissioni e p. es. dall’acido levulinico si può passare al propionico:
C5H8O3 → C3H6O2.
Già da quest’ultimo esempio così semplice si può vedere come sia difficile strappare alla natura i segreti dei suoi processi sintetici; le osservazioni sicure fanno ancora difetto ed i varii processi non si possono apprezzare che secondo verosimiglianza.
Anche peggio stanno da molti punti di vista le nostre cognizioni riguardo alle sostanze zuccherine complesse, ai cosidetti idrati di carbonio, come principalmente amido e cellulosio. Gli zuccheri semplici sono stati studiati esaurientemente da Emilio Fischer in una serie di lavori che rimarranno in ogni tempo memorabili, e le vie che egli ha seguito nelle sue sintesi non dovrebbero differire molto dai processi naturali che avvengono nelle piante. Io li ho già accennati brevemente: dalla formaldeide attraverso ai triosi si arriva agli esosi. Ultimamente però Posternak avrebbe fatto l’osservazione assai importante che nelle radici, nei bulbi e nei semi di certe piante si trova un singolare etere dell’acido fosforico che per idrolisi fornisce l’inosite, un isomero del glucosio avente struttura ciclica. La cosa ha ancora bisogno di conferma ulteriore, però già fin d’ora si allaccia la questione se non esistano rapporti genetici fra inosite e glucosio, fatto a cui accenerebbero alcune precedenti osservazioni fotochimiche.
Le sostanze zuccherine complesse si formano nelle piante sicuramente dagli zuccheri semplici e questa condensazione di natura anidridica accade per opera di enzimi. La chimica organica odierna non riesce che nei casi più semplici a riprodurre simili condensazioni anidriche od eterificazioni, ma talvolta anche processi relativamente semplicissimi, come ad es. la formazione dello zucchero di canna dal glucosio e fruttosio, non si possono realizzare artificialmente. Le difficoltà che si incontrano nello studio degli idrati di carbonio appaiono perciò ancora quasi insuperabili. Entra quì in campo una circostanza particolare che si verifica quasi sempre nelle sostanze naturali più complesse e quindi più importanti: si tratta cioè di corpi che non cristallizzano ma sono invece amorfi o colloidali.
Lo stato colloidale o gelatinoso determina un singolare comportamento fisico di fronte al quale anche i mezzi di ricerca della moderna chimica fisica rimangono impotenti. Queste sostanze formano bensì apparentemente delle soluzioni, ma fra esse e le vere soluzioni delle sostanze cristalloidi non vi è che una somiglianza esterna affatto grossolana. La sostanza solida (gelatina, amido ma anche metalli, solfuri ecc.) non è veramente sciolta in acqua poichè punto di congelamento, punto di ebollizione e tensione di vapore della soluzione non differiscono da quelli del solvente puro. Si è dimostrato così che queste pseudosoluzioni debbono essere considerate come sospensioni finissime ed infatti Zsigmondy e Siedentopf col loro cosidetto ultramicroscopio riuscirono in molti casi a rendere visibili le particelle sospese.
Influenze di vario genere possono condurre tali pseudosoluzioni a coagulare o gelatinizzare secondo la quantità di acqua che la sostanza è capace di assorbire nel precipitare; van Bemmelen ha mostrato che il colloide che si separa devo presentare una struttura cellulare e che si deve distinguere fra un’acqua di imbibizione micellare e intermicellare. Tutti i mezzi di cui noi possiamo disporre per determinare le grandezze molecolari sono inservibili in questi casi e parrebbe quasi che in tale stato non si possa in genere più parlare di molecole, nel senso che il concetto di molecola svanisce e diventa indeterminato. Sembra quindi che il mondo organizzato abbia bisogno di sostanze di grandezza molecolare indefinita le quali formino il termine di passaggio fra gli individui chimici ed il materiale biologicamente formato. Purtroppo però questi corpi offrono ai trattamenti chimici le maggiori resistenze.
Possiamo ora infine passare a trattare della classe di composti biologicamente più interessante, delle sostanze albuminiche o proteiche il cui studio deve senza dubbio essere riguardato come il compito più importante della chimica organica odierna. Occorre appena l’accennare che appunto in questo campo le nostre cognizioni sono più manchevoli. La chimica fisiologica ha bensì insegnato a distinguere, isolare e caratterizzare alcuni termini di questa serie, ma quanto alla loro composizione chimica fino a poco tempo fa si poteva dire quasi nulla. Si sapeva solo che mediante processi fermentativi od artificiali di idrolisi le sostanze proteiche possono esser trasformate in prodotti man mano più semplici, fino a che finalmente si arriva a sostanze chimicamente ben definite, a certi acidi amidati. Ora però Emilio Fischer, il maestro insuperato della sintesi organica, sta tentando di ricomporre fra loro quegli ultimi frantumi secondo un piano determinato. I risultati sono assai promettenti e sembra che in questo caso la condensazione anidrica mediante l’azoto sia molto più accessibile che quella per ossigeno negli idrati di carbonio. Se questa circostanza dovesse confermarsi ulteriormente si potrebbe sperare di raggiungere la metà.
Ma si affaccia ora subito la questione come possano le piante raggiungere lo stesso risultato. L’azoto occorrente vien fornito loro principalmente sotto forma di nitrato dal suolo, per quanto esse possano utilizzare anche l’ammoniaca e perfino, mediante l’aiuto di certi batterii, l’azoto libero dell’atmosfera. Si deve inoltre bensì ammettere che l’azoto assorbito serva anzitutto alla formazione degli aminoacidi, dai quali si originano poi le proteine, ma quale deve essere considerato come il primo prodotto di questa assimilazione? M. Treub di Buitenzorg ha fatto recentemente una osservazione che mi sembra avere una grande portata; secondo essa dai nitrati si formerebbe anzitutto l’acido cianidrico. L’acido cianidrico è un composto assai diffuso nel regno vegetale; esso corrisponderebbe alla formaldeide dell’assimilazione del carbonio:
HCN | HCOH. |
ac.cianidrico | formaldeide |
Io non voglio dar troppo peso alle nostre proprie osservazioni, non posso però non accennare che noi abbiamo recentemente trovato come per azione della luce su una miscela di acetone e di acido cianidrico si formano oltre ad altre sostanze ossalato ammonico ed un acido aminobutirrico. Che la formazione delle sostanze azotate nelle piante abbia luogo mediante processi di questo genere è una ipotesi che possiede molta verosimiglianza.
Grassi, idrati di carbonio e proteine non sono però, per quanto le più essenziali per la vita, le sole sostanze che le piante possano produrre. Oltre a queste le varie piante sanno fornire una variopinta schiera dei più diversi composti organici che trovano impiego come sostanze alimentari, medicinali coloranti ecc. Chi potrebbe osare di avventurarsi nel labirinto degli alcaloidi, dei terpeni e delle canfore, delle resine, dei glucosidi, e così via per scoprire che cosa significhino queste sostanze nella vita delle piante, come prendano origine ed in qual modo si trasformino? Quale incommensurabile campo si apre ancora qui alla fitochimica!
Il lavoro prepatorio è già abbastanza avanzato inquantochè la costituzione della massima parte di questi composti è ben stabilita e molte di esse sono state anche riprodotte per sintesi.
Le piante offrono ad uno studio esauriente del loro ricambio materiale una difficoltà particolare inquantochè esse non eliminano prodotti di escrezione, i quali per gli animali facilitano assai il compito. Una disciplina da porre a lato della farmacologia non esiste ancora affatto per le piante e ricerche di questo genere presentano, come mi ha insegnato da alcun tempo in qua la mia esperienza personale, le maggiori difficoltà. Io voglio illustrare brevemente anche questo punto mediante alcuni esempi. I glucosidi che sono così diffusi nelle piante e che contengono combinati per legame anidrico col glucosio o con altri zuccheri semplici i più diversi composti organici, forniscono a quanto sembra agli organismi vegetali un mezzo per rendere innocue le sostanze nocive che prendono origine durante il ricambio. Questa non è tuttavia che una supposizione.
Recentemente Harries ha fatto l’interessante osservazione che per ossidazione del caucciù mediante l’ozono si forma l’aldeide levulinica; questo fatto mentre svela la costituzione del caucciù fa intravedere il presumibile modo di formazione dei terpeni e delle canfore che si trovano così diffusi nel regno vegetale. L’acido levulinico sta collo zucchero di frutta in rapporto assai semplice e così i terpeni potrebbero provenire dalle materie zuccherine.
Riassumiamo. Senza impiego di mezzi energici, col solo aiuto di blandi enzimi biologici noi siamo ormai in grado di ripetere in vitro varie sintesi seguendo fedelmente la natura. Inizio assai promettente che ci invita a proseguire per questa via. Il compito dell’avvenire sarebbe di riprodurre con simili mezzi tutte le diverse sostanze del regno biologico e particolarmente del vegetale. Noi potremmo allora accostarci di più alle manifestazioni della vita vegetativa e comprenderle nella loro essenza. Se ciò possa un giorno riuscire anche per quelle sensitive non si può ora decidere. Una volta si scorgeva qui una barriera insormontabile al potere umano, ma chi saprebbe porre un limite ai voli della ricerca scientifica? Come la natura, la scienza è senza fine nè confine.
Bologna, gennaio 1907.
- Testi in cui è citato Jacobus Henricus van ’t Hoff
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- Testi in cui è citato Hermann Emil Fischer
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