Roma e lo Stato del Papa/Capitolo III

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Capitolo III

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CAPITOLO III.

Richiamo del Baraguay. — Nuove tasse.



Sommario: L’occupazione francese e la satira del Pappagallo. — Crescono gli urti fra Baraguay e l’autorità ecclesiastica. — I suoi ricevimenti al palazzo Colonna. — È richiamato. — Il generale Gemeau e il conte de Rayneval gli succedono. — L’esercito pontificio. — Si fanno nuovi arrolamenti, e si disconoscono i gradi ottenuti dopo il 16 novembre. — Malcontento e dualismi. — I ministri delle armi Gabrielli, Orsini, De Kalbermatten e Farina. — La scuola dei cadetti e i primi alunni. — Meriti del Farina. — Monsignor Tizzani cappellano maggiore. — Vuol mettere all’indice la Divina Commedia. — Sue bizzarrie. — Si aboliscono gli ultimi biglietti a corso forzoso. — Aggravi per pareggiare il bilancio. — La «dativa», la tassa di esercizio e una lettera del duca di Sermoneta. — Difficoltà dei comuni per le nuove imposte. — L’imponibile di allora e quello di oggi. — Il dazio sul vino. — Cifre riassuntive del bilancio. — Convenzione con la Toscana per il contrabbando. — Impotenza del governo a frenarlo. — Si istituiscono i francobolli e si riordina il Consiglio di stato. — Altri provvedimenti. — Riforma della banca con Filippo Antonelli alla testa.


Dal giorno 3 luglio, che segnò l’entrata dei francesi, al 1° agosto in cui fu nominata la commissione di governo, la città era stata in balia del generale Oudinot, il quale, essendo uomo di tatto e di non minor furberia, non compì atti di governo, e solo si limitò a tutelare col maggior rigore l’ordine pubblico. Lasciò partire chi volle, e non pose alcun ostacolo ai decreti del triumvirato, affinchè di quegli atti, sopratutto dei più odiosi, la responsabilità non cadesse su lui. Dei tre comandanti dell’armata di occupazione, che cumularono sino al maggio del 1850 anche l’ufficio di ministro di Francia in Roma, il solo, che lasciasse qualche simpatia, fu l’Oudinot; e a lui, coactus expugnare urbem, vennero concessi i maggiori onori. Il 5 luglio 1849 il Papa gli aveva scritto da Portici una lettera autografa piena di lodi; poi gli conferi la gran croce dell’ordine Piano in brillanti, accompagnata da un breve speciale, e gli fece concedere dal municipio la cittadinanza romana, onore reso solenne da un [p. 34 modifica]ricevimento, che ebbe luogo la sera del 23 agosto 1849 nel museo capitolino, e che fu l’apoteosi del nuovo Goffredo. Gli fu coniata anche una gran medaglia d’oro, con questa epigrafe:

vict · oudinotius
gallorum · excercitui — praefectus
romae · i · g · t


Nel rovescio:

urbem expugnare · coactus
civium et artium
incolumitati · consuluit · mdcccxlix


Questa iscrizione, dettata dal procuratore Bartolomeo Belli, fu oggetto di commenti umoristici per l’Oudinotius.

Il generale Rostoland, succeduto all’Oudinot, era un troupier quasi illetterato, che in poco tempo divenne esoso per le sue maniere rozze, e per i consigli di guerra in permanenza e relative condanne. L’arguzia dei romani contro di lui si rivelò in una freddura, ch’ebbe fortuna: Reste l’âne. E nella celebre satira popolarissima in quei giorni, detta del Pappagallo, si legge:

Narra le infamie
Del Rostolano,
Che a feccia d’uomini
Diede la mano.

Dei suoi commiliti
Narra lo scempio,
Ridotti ad essere
Sgherri del tempio.

Di’ che essi baciansi
Coi delatori,
E il pan dividono
Coi monsignori.

Richiamato dopo pochi mesi, gli successe il generale Baraguay d’Hilliers, avanzo glorioso, come si è detto, delle guerre napoleoniche. Di carattere impetuoso, senza tatto e bonaccione in fondo, egli si considerò vero proconsole in terra di conquista, e fu particolarmente inviso al patriziato, cui non usò i riguardi, che questo pretendeva. In un governo come il pontificio, ch’era ad un tempo teocratico e oligarchico, aristocratico e democratico, a base di privilegi, i principi romani di vecchie famiglie [p. 35 modifica]papali, mentre apparivano vassalli del Papa, di fatto ne dividevano il potere. Il Baraguay non capì nulla di ciò, anzi, assunse un’aria di padronanza anche coi nobili e i cardinali, e di lui gli ufficiali dell’armée d’occupation imitavano l’esempio. Il motto: Rome nous appartieni, trovò in quei giorni la più insolente applicazione. I nobili si sfogavano con le arguzie; nelle sagrestie crescevano le maldicenze, e i bassifondi affilavano i coltelli. Il cardinale Antonelli, spirito scettico ma perspicuo, condensò, al suo ritorno in Roma, la politica pontificia in due verbi: tollerare per vivere. Senza i francesi non si rientrava, e senza di essi non si rimaneva, e bisognava subirli; del che i francesi si avvalevano per infliggere lezioni e umiliazioni. Il Baraguay, per far dispetto all’autorità ecclesiastica aveva permesse le maschere e il can-can al Metastasio non solo, ma aveva fatto assolvere dal tribunale militare il Cernuschi, che il triumvirato fece arrestare a Civitavecchia, e voleva cacciare in galera. Lasciò fuggire il famoso padre Achilli, il quale, durante la repubblica, aveva gettato la tonaca domenicana, preso moglie e ostentato culto protestante. Triumvirato e vicariato reclamavano l’Achilli, e se l’avessero avuto nelle mani, l’avrebbero fatto impiccare senza complimenti.


*


L’impulsivo Baraguay, che riusciva qualche volta simpatico per queste lezioni che infliggeva, e aveva piantato il tribunale militare nel palazzo dell’accademia ecclesiastica, e, impipandosi delle proteste del cardinal Patrizi, faceva occupare dai soldati i locali del Sant’uffizio, non ebbe, ripeto, punto tatto con l’aristocrazia. I suoi ricevimenti al palazzo Colonna erano misera cosa; i suoi balli destavano il riso, con camerieri in giacchetta, rinfreschi omeopatici e cene irrisorie. Essendo celibe, gli onori di casa erano fatti dalla signora Sauvant, moglie del generale comandante la piazza, e questa signora vestiva in abito «di suprema confidenza», ricorda un superstite. Al ballo dato la sera del 28 gennaio, e al quale intervenne il generale De Cordova, comandante il corpo di spedizione di Spagna, [p. 36 modifica]copertosi di ridicolo per il proclama «ai popoli di Fiumicino», e per aver sollecitata la nomina di nobile veliterno, seguì un fatto unico davvero. A mezzanotte, quando tutti aspettavano l’apertura della cena, che immaginavano appetitosa e annaffiata dai migliori vini, il padron di casa, accostatosi ai musicanti, gridò loro: Assez!, e comandò ai servi di spegnere i lumi, facendo segno agl’invitati che la festa era finita. Questa strana mancanza di cortesia, per non chiamarla villania, non impedì che la stessa gente intervenisse all’altro ballo, la sera del lunedì grasso, 11 febbraio. Qui la cosa fu più strana, perchè ai signori e signore, che, memori di quanto era avvenuto l’altra volta, si risolvevano a lasciar la festa prima di mezzanotte, due sentinelle appostate alla porta impedivano l’uscita, e un plotone di cavalleria, appostato nell’ampio cortile, vietava alle carrozze di entrare, e così furon tutti costretti a rimanere finchè egli volle. Fra il minaccioso e il burlesco, diceva: «Poichè vi siete lagnati di essere andati via a mezzanotte, ora dovete rimanere sino a tardi».

Un uomo così fatto non poteva più a lungo rimanere nei due uffici di comandante in capo e di ministro di Francia; e fu richiamato. Il 4 maggio egli indirizzò un ultimo ordre général, che cominciava:

«Soldats! Obligé de rentrer en France, où me rappellent les travaux de l’Assemblée législative, je ne puis me séparer de vous, sans vous en exprimer tous mes regrets».

Pio IX lo insignì della gran croce dell’ordine Piano, e più tardi l’Imperatore lo nominò senatore, con lire 30 mila di assegno. Il Giornale di Roma non ne annunziò neppure la partenza, limitandosi a pubblicare l’ordre général, dal quale si apprese che il comando provvisorio dell’armata era assunto, col giorno 6 maggio, dal generale Guesviller, che lo tenne fino al 18, in cui giunse il nuovo comandante en chef, generale Gemeau. Il Baraguay, andando dal Papa e poi dal cardinale Antonelli in udienza di congedo, presentò a quest’ultimo, in nome del presidente della repubblica francese, le insegne della gran croce della Legion d’onore. Nove anni dopo, col grado di maresciallo, egli tornò in Italia comandante del primo corpo d’esercito, e sì coprì di gloria a Melegnano.

[p. 37 modifica]Il principe presidente credè più utile separare le funzioni di generale in capo da quelle di ambasciatore, e nominò a tale ufficio il conte Alfonso De Rayneval, che giunse nel mese stesso e alloggiò al palazzo Colonna. Il Gemeau, nuovo comandante in capo, alloggiava al palazzo De Lozzano a San Carlo. L’uno e l’altro avevano più equilibrio dei loro predecessori, e presto aprirono i saloni a balli e a conviti. La contessa De Rayneval, simpatica signora, entrò nella società romana. Il marito si occupava anche di scienze naturali e di geologia, e strinse amicizia col Ponzi, l’illustre geologo, professore alla Sapienza. Era però uno spirito falso; e mentre ostentava liberalismo, era clericale e ateo, e ostile al risorgimento italiano, come si rivelò più tardi. Egli aveva un fratello cappellano a San Luigi dei francesi. Il Gemeau era più schietto, di certo più simpatico e assai diverso dal Baraguay. I suoi ricevimenti, molto signorili, erano resi preziosi dalle sue figlie, bellissime, e nel fiore degli anni; e quelli del De Rayneval, dalle seducenti cortesie della contessa.


*


Caduta la repubblica, partirono con Garibaldi i suoi volontari, ma i corpi, che formavano l’esercito regolare e permanente, invitati da lui a seguirlo, ricusarono. Il generale Oudinot, con l’ordre général del 14 luglio, li considerò come truppe alleate, e vi mise a capo il generale Levaillant, comandante la prima divisione francese. Eran circa ottomila uomini di varie armi, fantaccini la maggior parte, i quali si erano battuti a Vicenza contro gli austriaci, a Palestrina e a Velletri contro i napoletani, e al Gianicolo contro i francesi. Ai cardinali del triumvirato non parve bastevole prova di fedeltà il rifiuto di seguir Garibaldi, per cui se quelle milizie non furono sciolte, si venne via via rifacendole con nuovi arrolamenti, mutandone i capi, e applicando a tutta l’ufficialità la disposizione del disconoscimento dei gradi, acquistati dopo il 16 novembre, per cui si videro capitani tornar sottotenenti, e i tenenti, cadetti o sergenti. Ricordo, tra gli altri, Fortunato Rivalta, che da tenente fu retrocesso a cadetto; e che, come capo dello stato maggiore, [p. 38 modifica]doveva firmare, venti anni dopo, la capitolazione di villa Albani. Ricordo Cesare Ferri, che da capitano e aiutante di campo del generale Ferrari, fu respinto a scrittore di seconda classe nella intendenza militare; e divenuto poi sfegatato papalino, fu segretario e intimo del De Merode, per cui corse l’epigramma:

De Merode, gran somaro,
Non cammina senza ferri,


scrivendo, naturalmente, il ferri con l’effe minuscola.

L’esercito pontificio fu considerato, nei primi tempi, come appendice dell’esercito di occupazione. Pio IX ne faceva poco conto, e solo dopo tre mesi dal suo ritorno, ne ricevè l’ufficialità, presentatagli dal proministro De Kalbermatten, e dal generale Levaillant: uno svizzero e un francese! La prima apparizione ufficiale che esso fece, fu alla cerimonia del 21 marzo, anniversario della gran dimostrazione popolare, che aveva abbattuto, due anni prima, lo stemma austriaco dal portone del palazzo Venezia, e che fu rialzato con solennità militare, per concedere all’Austria una voluta soddisfazione. La cerimonia si compì con forma spettacolosa; anzi per far la corte all’esercito austriaco, furono anche abolite le spalline degli ufficiali, sostituendovi delle stelle al colletto; e ciò anche, come si disse, per rendere più marcata la differenza tra l’esercito pontificio e il francese.


*


Alla fine, dopo curiosi saliscendi alla Pilotta fra il principe Pompeo Gabrielli, già capitano nei dragoni delle truppe alleate, ferito e fatto prigioniero a Lipsia, il principe Domenico Orsini, il quale, come principe assistente al soglio, aveva il grado di generalissimo della Chiesa, e il barone De Kalbermatten, fu nominato, il 12 agosto 1851, sostituto al ministero delle armi, il colonnello Filippo Farina, nativo di Ronciglione. Egli era entrato nel collegio militare fondato da Napoleone, e ne era uscito ufficiale. Caduto l’impero, era rimasto a Roma coi suoi compagni di milizia, Rovinetti, Cordazza, Tomba, De Gregori e Resta. Gli venne riconosciuto il grado di tenente di gendarmeria; ed [p. 39 modifica]entrato poi nell’amministrazione militare, divenne, via via, intendente, ispettore, direttore e colonnello. Il Farina si votò alla riorganizzazione di quell’esercito, il quale non essendo di leva, ma di volontari reclutati in vario luogo, presentava tutti gl’inconvenienti degli eserciti raccogliticci e mercenari. Egli ebbe il concetto di fare un esercito nazionale, ma siccome occorrevano gli ufficiali, e lo Stato del Papa non aveva istituti militari, il Farina fondò nel 1855 una scuola di cadetti, inaugurata il primo maggio di quell’anno con un discorso di lui e uno di monsignor Tizzani, cappellano maggiore. Si chiamò scuola o compagnia, e più tardi collegio militare, ed ebbe sede nel palazzo Cenci, al ghetto. I primi alunni di quel collegio furono, tra gli altri, il conte Dandini, il marchese Corelli di Fusignano, il marchese Pietramellara, il conte Salimei, il marchese Guglielmi e il conte Ubaldini di Urbino, in fanteria; in artiglieria, Giuseppe Pierantoni e Ludovico Muratori, scrittore di commedie. Il Farina sperava cacciarvi dentro i cadetti delle grandi famiglie patrizie, collocati dal regime del maggiorasco in una posizione quasi umiliante e di certo falsa e oziosa, ma quelle famiglie rifuggivano dalle armi, e i cadetti preferivano entrare nella carriera ecclesiastica, o nella corte, o nel personale dei rioni. Erano ben lontani i tempi, nei quali combattevano a Lepanto Marcantonio Colonna e Onorato Caetani!

Dati i nuovi tempi, il Farina fece miracoli nell’amministrazione militare. Egli ebbe più tardi il grado di generale, e quello onorifico di cameriere di spada e cappa, e vivamente compianto, morì nella sua casa in via del Babuino. Era un galantuomo. Ammogliato con la signora Vittoria Paglieri, una delle sue figliuole sposò Augusto Castellani. La successione fu raccolta dal cardinale Antonelli, e poi da monsignor De Merode, Cappellano maggiore dell’esercito era stato nominato fin dal 1850, monsignor Vincenzo Tizzani, canonico lateranense, vescovo di Terni fin dal 1843, e poi nel 1855 promosso arcivescovo di Nisibi. Era stato l’amico intimo di Gioacchino Belli, e a lui si deve se furono conservati tanti tesori del poeta romanesco, e se fu fatta la prima edizione dei sonetti. Era un brav’omo, che sarebbe riuscito a tutti gradito; ma, avendo avuto l’incarico di dare gli esercizi spirituali ai detenuti politici nel carcere di San Michele, [p. 40 modifica]e dandosi perciò un gran tono, accumulò sul suo capo molti odii; e una sera di luglio del 1851 fu fatta, per fortuna innocuamente, scoppiare una bomba sotto la sua casa in via della Consulta. Il Tizzani, morto vecchio e cieco col titolo di patriarca d’Antiochia, concessogli da Leone XIII nel 1886, aveva rude franchezza e modi romaneschi. Consultore della congregazione dell’Indice, era severissimo contro i libri, che a lui paressero intinti d’eresia, ma sovente l’eresia era soltanto nella immaginazione sua. Poco manco che non facesse condannare la Divina Commedia, perchè Dante aveva cacciato nell’inferno Anastasio II, tra gli eretici; Nicolò III, tra i simoniaci; Celestino V, tra gl’ignavi; aveva malamente bistrattato Bonifacio VIII, e posto nel quinto girone del purgatorio, tra gli avari, Adriano V. La «diabolica Commedia», ripeteva, «dovrebb’essere condannata e bruciata». Ma, per fortuna, i suoi colleghi, tra i quali erano il Rezzi, il padre Agostino Theiner, non furono della opinione di lui. Fra i consultori di quella congregazione figurò, finchè visse, il Rosmini, ma egli non torno più in Roma dopo il 1849; e fra i consultori entrarono più tardi l’Audisio, il Pappalettere, l’abate Smith, monsignor Vecchiotti, ed altri spiriti illuminati, i quali, manco a dirlo, gli avrebbero riso sul muso, se avesse ripetuta la proposta stravagante. Monsignor Tizzani fece parlare molto di sè, alcuni anni dopo, quando visitò la Francia, il Belgio, la Germania e la Svizzera, del quale viaggio pubblicò una narrazione dal titolo: Voyage en France, scritta in un francese, ch’era la traduzione letterale dell’idioma parlato nelle più caratteristiche conversazioni romanesche1.


*


Essendo suprema necessità di Stato togliere dalla circolazione tutta la cartamoneta, che rappresentava, come si è detto, sette milioni di scudi, oltre al milione e mezzo di biglietti della banca pontificia a corso forzoso, continuavano i roghi coram [p. 41 modifica]populo, sulla loggia del palazzo Madama. Sino al 2 ottobre di quello stesso anno 1850 se n’era bruciata per 3,687,600 scudi, sostituita con boni del tesoro e piccoli titoli di rendita, e con nuovi spezzati di argento e di rame, che si facevano coniare nelle zecche di Roma e di Bologna. Con la banca pontificia si agì più sollecitamente. La sua carta fu riconosciuta alla pari, e cambiata in parte con buoni del tesoro; e per darle un compenso del prestito di 300 mila scudi al saggio del 2 1/2 %, che ella fece al governo, le fu concessa la coniazione di 400 mila scudi in oro e in argento ogni anno. Ne rimanevano in circolazione altri 3 milioni e mezzo, la maggior parte di boni, ma con questi, ridotti notevolmente di valore, il governo se la sbrigò con una notificazione turca, la quale fe’ noto che rimanevano in corso fino al 15 ottobre, e dopo quel giorno sarebbero barattati nella sola cassa della Depositeria, e fino al 25; dipoi non avrebbero avuto più corso.

Si osservi che la notificazione portava la data del 26 settembre, e perciò tutto venne liquidato in un mese, con non lieve danno della povera gente, singolarmente delle campagne. Se premeva far sparire quei ricordi dei «sedicenti governi provvisorio e repubblicano», cominciavano, nello stesso tempo, più dolenti note. Il 21 luglio 1850 il segretario di Stato pubblicava un editto, col quale, a causa del forte disavanzo fra le spese e lo rendite presunte, disavanzo che cresceva col nuovo debito pubblico, si aumentava di un bimestre la dativa erariale del 1851; e l’aumento era ripartito in quattro rate eguali. Si chiamava «dativa» la tassa sui terreni, o fondiaria. Con lo stesso editto s’imponeva una tassa straordinaria sulle comunità dello Stato, per la somma di un milione di scudi, ripartita fra i comuni in ragione composta del rispettivo censimento, e con facoltà ai municipii, che non avevano margine nell’attivo del proprio bilancio, di aumentare le contribuzioni esistenti, o di metterne delle nuove. Un sistema, che il più disinvolto non si sarebbe potuto immaginare! Pareva che tale aumento fosse limitato al 1851, ma nel febbraio dell’anno seguente l’editto ricomparve, aumentando definitivamente di un bimestre la dativa, e ripartendo l’aumento in sei rate, eguali; riportando il prezzo del sale a quello del 1847; imponendo inoltre sui comuni una [p. 42 modifica]tassa straordinaria di 250 mila scudi, ed una, fortissima, sui generi coloniali, singolarmente sul caffè, sul cacao e sullo zucchero. Crebbe il contrabbando in proporzioni scandalose, e pur troppo senza rimedi concludenti.

I nuovi aggravi non finirono qui. In data 14 ottobre di quello stesso anno, venne pubblicato un altro editto del segretario di Stato che cominciava:

La necessità di provvedere all’equilibrio delle rendite colle spese dello Stato, anche per far fronte alle conseguenze degli ultimi deplorevoli avvenimenti, ed agl’impegni assunti dal governo per togliere dal corso la cartamoneta, impone il penoso dovere di ricorrere a nuove tasse. Essendo poi giusto che ogni classe di persone concorra a sostenere li pubblici pesi in proporzione, per quanto è possibile, dei vantaggi che ritrae dall'ordinamento sociale, così sembra equo di sottoporre ad una tassa l’esercizio delle professioni, arti, industrie e commercio, pel quale esercizio nulla ora si contribuisce allo Stato.

Le arti, le industrie ed i commerci, per effetto di quest’editto, furono ripartiti in dieci categorie, e gli esercenti tassati proporzionatamente al luogo e all’entità dell’esercizio. I comuni, tranne Roma e Bologna, vennero divisi in cinque classi, da una popolazione maggiore di venti mila abitanti a quelli di mille. E in ogni comune erano stabiliti sei «gradi» che oggi si chiamerebbero categorie. É curioso, che nel lungo editto non si determini il contributo, e tutto si rimetta al regolamento, nonchè alla tariffa, che doveva essere pubblicata dal ministro delle finanze. I particolari sono interessanti. Per esempio, chi esercitava in più comuni, ovvero nello stesso comune, ma in stabilimenti, opifici, fondachi e botteghe separate, lo stesso commercio, era tassato per ciascun luogo, come se fossero persone, o negozianti distinti. I venditori ambulanti, di qualsiasi genere, venivano sottoposti a metà della tassa che pagavano gli esercenti; e non erano soggetti a tassa i proprietari delle terre per la vendita in natura delle derrate, bestiami e prodotti dei rispettivi terreni, i giornalieri, i lavoranti, gli operai; i capitani dei bastimenti di commercio non naviganti per proprio conto; nonchè i proprietari e gl’inquilini, che affittavano con mobili una porzione della propria abitazione, e le Casse di risparmio o di previdenza amministrate gratuitamente.

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I nuovi aggravi sollevarono, com’era da prevedere, un coro di proteste in tutto lo Stato, e singolarmente a Roma, per l’aumento della dativa, che colpiva a preferenza i latifondisti. Gli enti ecclesiastici vi si rassegnarono, ma i signori non potevano darsi pace, anche perchè durante la repubblica, o meglio, dal giorno della fuga del Papa, le loro private aziende avevano sofferto non poche avarie, a causa della loro assenza da Roma. La vita in esilio era stata più costosa, mentre le rendite erano diminuite. Di quei lamenti contro le nuove tasse si trova un’eco nell’epistolario del duca Michelangelo Caetani, che in una lettera al suo amico Cheney, del dicembre 1851, diceva:

Roma, dacchè da voi si è lasciata, non ha più avanzato in nulla, e tutto cade nell'inazione e nella impassibilità. Ciò non può farvi sorpresa, conoscendo voi sì bene la scarsezza delle fonti donde deriva la sussistenza di questo miserabile paese. Quei, che possiedono terre ed hanno debiti, non hanno quasi più modo come pagar le tasse, divenute gravose ed arbitrarie all'estremo grado; si vive alla giornata senza speranza alcuna.

Ma i lamenti furono tali, singolarmente da parte dei professionisti, che bisognò attenuare la tassa che li colpiva, con un altro editto in data 29 novembre, che li escluse dalla tassa, se professori o maestri, per quanto riguardava l’insegnamento; e stabili che esercitandosi varie professioni, fosse soggetta a tassa la più redditiva. I ruoli dei contribuenti erano formati nei capoluoghi delle provincie da apposite commissioni, che decidevano anche sui reclami degl’interessati. Tutto compreso, questa tassa, la quale non rendeva all’erario che una tenue somma, sollevò una vera tempesta nelle città, mentre le altre tasse, e particolarmente quella straordinaria sui comuni, produsse maggior malcontento nei comuni minori e singolarmente nelle Legazioni, nelle Marche e nell’Umbria, dove la tranquillità pubblica era ancora un desiderio, e l’occupazione austriaca sconvolgeva coi suoi eccessi l’ordine morale. Quei comuni si trovarono nella dura alternativa, o di ridurre i servizi, già povera cosa, o di mettere nuove imposte. Bologna era inondata da cartamoneta, cioè di quei bòni per l’ammontare di scudi 341,610, emessi dallo [p. 44 modifica]Stato, dalla provincia e dal comune per pagare opere pubbliche governative, provinciali e municipali: somma enorme, tenuto conto della limitata circolazione, e che costituiva un vero perturbamento del commercio. Si potè ritirarli, facendo precedere il ritiro dalle liquidazioni speciali, per stabilire le quote a carico di ciascuno dei tre enti, e mercè boni del tesoro. Il triumvirato dei cardinali aveva prorogato il corso forzoso dei boni bolognesi per un anno, ma non prima del gennaio 1852 furono potuti togliere dalla circolazione. Inviati a Roma, furono anche essi solennemente bruciati. La maggior parte dei municipi, i più grossi, pur di non decretare nuove imposte, preferì portare l’economie sino all’osso, riducendo le spese per i pubblici servizi, e singolarmente per la beneficenza e l’igiene.

Il malcontento, nel quale soffiavano i liberali, cresceva a misura che si risentivano gli effetti delle nuove gravezze. Eppure con tutti questi aumenti, sia detto per la verità, il dazio camerale o dativa erariale non superava in tutto lo Stato del Papa uno scudo e trenta baiocchi, pari a 6 lire e 98 centesimi, per ogni cento scudi di estimo censuario; e poichè il valore reale dì un fondo può considerarsi, con criterio medio, tre volte superiore al censuario, così la detta tassa, considerata la più gravosa, veniva corrisposta nella proporzione di lire 2 e centesimi 33 per ogni cento scudi di estimo reale: addirittura nulla rispetto a oggi. Le provincie e i comuni non superavano il decimo della tassa erariale, tranne Roma, dove si spingeva, come si è veduto, sino al 15. Il dazio di consumo o non esisteva come nei piccoli centri, o era minimo nelle città, e limitato al vino, agli spiriti, alla carne e al pesce. Il vino, ch’era il più colpito, pagava tre lire e dieci centesimi per ogni centoventi litri; e quando, negli ultimi anni, la tassa fu spinta a lire 4 e centesimi 25, vi fu timore di una sommossa nei quartieri popolari di Roma. Oggi si paga dieci lire e mezza per ettolitro. Non esistevano tasse di successione fra ascendenti e discendenti, e negli altri casi erano minime; e le tasse di registro, per passaggio di proprietà, non superavano il 2%. Il sistema tributario pontificio era più semplice, che non fosse nel reame di Napoli, ch’è tutto dire, e si mantenne così, salvo i pochi ritocchi, sino all’ultimo. Nel 1852 il bilancio presentava questi estremi: un attivo di scudi 10,473,129.90, e un passivo [p. 45 modifica]di scudi 12,336,487.35, con un disavanzo di scudi 1,756,745.41; e sei anni dopo, nel 1858, l’anno avanti alla perdita delle quattro Legazioni, il bilancio si era elevato a 14,653,999 scudi nell’attivo, e a scudi 14,552,570 nel passivo. Non più disavanzo, ma un avanzo di 101,429 scudi. Il maggior introito era rappresentato dalla dativa e dalle dogane, e la maggiore spesa dalle armi, che rappresentava più del decimo di tutto l’attivo. Si era fatto un gran passo, anche perchè in quegli anni non vi furono carestie, nè straordinari infortuni.


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In uno Stato, dove il sistema protezionista rasentava le maggiori esagerazioni, e che, tranne col Piemonte e con Parma, confinava con tutti gli Stati d’Italia, il contrabbando fu in ogni tempo il cancro divoratore della pubblica finanza. Del contrabbando vivevano un po’ tutti, e seguitarono a vivere anche dopo i provvedimenti presi dal governo pontificio, in quello stesso anno 1850, col trattato fra il Papa e il granduca di Toscana, nel dicembre, per reprimere il contrabbando non solo, ma «accordare nuove facilitazioni al commercio e all’industria». Furono chiusi al transito alcuni uffici doganali, ed altri aperti, ed altri resi promiscui fra i due Stati, soprattutto in Romagna e in Umbria: uffici numerosi, perchè lungo la frontiera, quasi tutta di montagna, e che andava dalla strada bolognese per la Porretta, e dalle Filigare, a Popolano sulla strada faentina, a Terra del Sole sulla forlivese; e dell’alta valle del Tevere, rasentando la provincia di Arezzo, a Radicofani e al Chiarone. I particolari della convenzione si leggono nel testo del trattato, che andò in vigore il 1° gennaio 1851, e doveva durare cinque anni; e non disdetto, si considerava rinnovato di biennio in biennio. Ma la miglior distribuzione degli uffici non giovò a nulla, perchè la criminosa industria seguitò ad essere largamente esercitata, singolarmente nell’Appennino, e dalla parte di Arezzo, dove la frontiera era più montuosa e mal definita, con scorciatoie e sentieri ignoti, e sul Trasimeno, ch’era pure irregolare linea di confine fra i due Stati. Del contrabbando profittavano e vivevano un po’ tutti, ripeto; ma se ne giovava principalmente una [p. 46 modifica]classe di uomini robusti e maneschi, detti spalloni, perchè trafugavano sulle spalle, di notte, sacchi di caffè, di cacao, di zucchero, o di grano. In quei piccoli comuni di confine, così dalla parte di Arezzo e di Romagna, che di Siena, le locande e le bettole erano ricovero di contrabbandieri. Le guardie o tenevano mano, o sorprendevano i piccoli contrabbandi, per far passare i grossi. Le autorità toscane non avevano interesse a impedirli, per il differente sistema doganale fra i due paesi. Il governo pontificio, credendo portarvi un rimedio, trasportò la gran dogana nella vecchia terra, dove fu la repubblica di Cospaia, sul piano, anzi sulla grande strada fra San Giustino e San Sepolcro, dove s’innesta la via di Urbino, per il valico di Boccatrabaria. Quella dogana, conservando il suo grado di bollettone di prima classe, ebbe la speciale facoltà di sdaziare i generi coloniali provenienti da Livorno, e diretti nell’alta Umbria e nelle Marche, togliendosi tale facoltà alla dogana estera di Monterchi; ma con tutto questo, il contrabbando non cessò che dopo il 1860, quando la frontiera disparve. E pure sul confine napoletano fra Terracina e Fondi, nella larga zona neutrale, che pareva fatta apposta per favorire uno scambievole e perenne contrabbando, questo era di poco conto. Se Napoli introduceva i suoi guanti, le sue pietre dure e i coralli, pochi tessuti, e poco bestiame, a preferenza equino, ed estratto di sambuco, Roma introduceva le sue oreficerie, oggetti d’arte e ricotte fresche e salate, queste a preferenza.

Il contrabbando non si esercitava soltanto alle frontiere, ma anche per via di acqua. Ancona e Civitavecchia, porti franchi, ne erano la fonte perenne, e tutti i porti canali dell’Adriatico erano approdi di merci in contrabbando, le quali avevano un riconoscimento ufficiale nella famosa fiera di Senigallia. E contrabbando si esercitava per il Po, fra la sponda veneta e la ferrarese, e persino sul Tevere, sotto gli occhi del governo, a bordo delle tartane, che, rimorchiate, risalivano il fiume e ancoravano a Ripagrande. Si aggiunga il contrabbando riconosciuto sotto forma di esonero dalle tasse doganali. Cardinali, alti prelati, ed ogni persona anche di mediocre importanza nel governo, senza contare gli ambasciatori, i consoli e gli ufficiali superiori dell’armata di occupazione, ricevevano merci [p. 47 modifica]dall'estero senza neppure la formalità della visita. Nè era difficile ottenere l’esonero sotto forma di lasciapassare, mercè raccomandazioni al direttore delle dogane, che fu negli ultimi anni Stanislao Sterbini, l’amico del vescovo di Perugia, Gioacchino Pecci. I negozianti di mercerie e chincaglierie in Roma se la intendevano coi superiori delle due dogane: quella di terra, in piazza di Pietra; e quella di Ripagrande, dove tutt’ora esiste. Il contrabbando era una finanza nella finanza, una istituzione potente, alla quale erano interessate tutte le classi sociali, e che il governo pontificio non riusci mai a sopprimere e neppure a limitare. Le grida erano burlesche, e pari alle grida, i provvedimenti doganali. Da Eugenio IV, che impose nel 1432 un forte dazio sui vini esteri, destinandolo a beneficio dell’Università di Roma, a Gregorio XVI, che per proteggere le poche fabbriche di tessuti, aumentò il dazio sui panni esteri e stabili dei premi per i nazionali, non si fece in sostanza che la causa dei contrabbandieri. Avvenne altrettanto per i bozzoli da seta. Colpendoli con un forte dazio proibitore, si ebbero due risultati: che si aprì una nuova fonte di contrabbando, e non crebbe, nè migliorò la produzione locale. Nel commercio d’importazione e di esportazione si calcolava, che il contrabbando rappresentasse non meno di un quinto per la prima, e di un decimo per la seconda, benchè nel nuovo trattato fossero vietati i magazzini di deposito presso le dogane di frontiera. Le riforme si ridussero in sostanza ad una diminuzione del diritto di pedaggio, o di barriera, sulle strade, che conducevano alle dogane aperte sul territorio toscano, eguagliandolo al pedaggio che si percepiva nel Granducato. La tassa di transito restò quella di cinque baiocchi per ogni cento libbre lorde di merce.


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Si provvedeva alle prime necessità di governo, e s’iniziavano alcune utili riforme. Con editto del 29 novembre 1851 furono istituiti i francobolli postali, detti bolli franchi o bollini, il cui valore doveva corrispondere alla tassa, che già colpiva la corrispondenza epistolare, in ragione del peso e della distanza. E con regolamento del 19 successivo dicembre, un decreto del [p. 48 modifica]ministro Galli fissò i francobolli in otto tipi, di vario prezzo, dal mezzo baiocco ai sette, di vario colore a fondo giallastro, e por- tanti la tiara e le chiavi decussate, con l’iscrizione: franco bollo postale e l'indicazione del prezzo. Furono questi:

Era facoltativo l'affrancamento all’interno, e obbligatorio per l'estero. Il regolamento contemplava anche l'assicurazione della corrispondenza, aumentando per l’ interno della metà la tassa ordinaria e raddoppiandola per l’estero. Il Salviucci, direttore della stamperia camerale, fu incaricato di fare eseguire i timbri ch'egli ordinò al Valagna, fonditore di caratteri, il quale ne presentò vari tipi alla sopraintendenza delle poste, che ne fece la scelta e ne fissò la carta. I francobolli andarono in uso il primo gennaio 1852 con pubblica soddisfazione; ma per difetto nella parte tecnica, e non essendo la stampa soggetta ad un [p. 49 modifica]controllo rigoroso, gli operai addetti alla stamperia si appropriavano fogli interi di francobolli, che vendevano per proprio conto a metà prezzo. E gli impiegati postali non li annullavano, anzi li staccavano dalle lettere per rivenderli. Si aspettò tre anni, prima che il sopraintendente generale delle poste, don Camillo Massimo, diramasse una circolare, in data 23 ottobre 1855, ai direttori delle poste, che stabiliva un tipo di timbro per l’annullamento. E nel luglio del 1866 avendo il governo pontificio adottato il sistema decimale francese, un altro regolamento del ministro monsignor Ferrari stabilì una nuova emissione di francobolli, con mutate dimensioni e colori, cominciando da 2 centesimi fino a 80, e fissati così: 2 centesimi, verde; tre centesimi, cenere; 5, bleu tourquoise, poi mutato in grigio rosa e in grigio verde; 10 centesimi in arancio, poi vermiglio; 20, rosso; 40, giallo; e 80, rosa. Il 21 settembre 1867 furono apportate altre modifiche suggerite dal Massimo, e i nuovi clichès furono eseguiti dal Montarsolo fonditore di caratteri, come il Valagna. L’ultima emissione fu fatta alla fine di febbraio 1868, con piccole variazioni di colori. Nell’ottobre 1870 i francobolli papali vennero soppressi e sostituiti da quelli del governo italiano. E qui per sentimento di giustizia si deve ricordare che il governo pontificio fu il primo in Italia ad introdurre i francobolli postali: prima di Napoli, che li adottò nel 1857, e contemporaneamente alla Toscana, a Parma e a Modena, per effetto della stessa convenzione postale fatta nel 1851 con l’Austria. Il libro del Moens, così ricco di notizie su questo argomento, tace circa l’introduzione dei francobolli nelle poste Sarde2.


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Furono prorogati i termini per la rinnovazione delle iscrizioni ipotecarie, e fu istituito il consiglio di Stato, composto di nove consiglieri ordinari e quattro straordinari, e diviso in due classi: la prima concernente «materie governative o meramente amministrative»; e l’altra pel contenzioso. Nessuna [p. 50 modifica]coltà legislativa fu concessa al nuovo consiglio, tanto diverso da quello istituito da Pio IX nel 1847, e del quale furono chiamati a far parte il Minghetti, il Pasolini e il Recchi. Con circolare del 5 giugno 1851 si volle provvedere a completare i quadri dell’esercito «di nuovi e sani elementi indigeni». Com’è noto, lo Stato del Papa non aveva coscrizione, e la milizia si formava mercè ingaggi e arrolamenti. Con questa circolare, diretta alle autorità civili e militari, si raccomandava di

.... porre sott’occhio della gioventù, che potrebbe aspirare alla carriera delle armi, non solo l’interesse che va a risentirne, ma che la milizia fu sempre tenuta in sommo pregio, dappoichè concorrendo essa al sostegno de’ Troni, al mantenimento dell’ordine pubblico, ed anche alla tutela delle proprietà, si rende così benemerita dei Governi e dei cittadini. Di più che quella appartenente al Capo della Chiesa Universale, al Sommo Pontefice, è pur benemerita di tutta la Cristianità, la quale null’altro maggiormente desidera, che il Sommo Gerarca regni pacifico nei Dominii della Santa Sede, concessi dalla Divina Providenza pel libero esercizio del potere spirituale. E perchè questa truppa possa pienamente corrispondere allo scopo, è di mestieri che gli individui che la compongono siano forniti di boni principj religiosi e politici.

Le autorità, di cui si è fatta menzione, sono inoltre interessate a prestarsi con ogni sollecitudine a rilasciare gli attestati necessari, se non gratuitamente, almeno colla semplice tassa di baj. cinque, per agevolare così la esecuzione del prescritto arruolamento.

Dei provvedimenti di governo, nei primi tempi della restaurazione, furono questi i principali. Gli altri sono di minor conto, e tutti si leggono negli Atti del pontificato di Pio IX, e più compiutamente nei sette volumi in latino, perchè i due volumi in italiano, che comprendono motupropri, chirografi, editti e notificazioni, vanno soltanto dal 1846 al 1856: gli uni e gli altri pubblicati dalla tipografia delle Belle arti. Ma non può non farsi menzione delle frequenti nomine di commissioni miste di laici ed ecclesiastici, incaricate di studiare nuovi provvedimenti governativi. Pio IX, che voleva mostrare di avere a cuore il miglioramento economico dei suoi Stati, ne nominò una per dare un maggiore impulso alle produzioni agricole, e ne elesse presidente il cardinale Altieri, e componenti, i ministri dell’interno e del commercio, il barone Grazioli, l’abate Coppi, il principe Borghese, e quel duca Mario Massimo, tornato pienamente in grazia del governo restaurato, dopo le vicende [p. 51 modifica]del 1848, e la non eroica partenza da Roma il giorno stesso dell’assassinio del Rossi, del quale era collega. E ne nominò un’altra per proporre delle riforme, che dovevano contribuire alle possibili economie nelle spese ordinarie dello Stato, per raggiungere il pareggio. Ne dette la presidenza al cardinale Antonelli, e ne furono membri monsignor Grassellini, il Galli, ministro delle finanze, il Neri, direttore del debito pubblico, e il conte Vincenzo Pianciani; ma il frutto di tali studi non si vide che nella riforma della banca romana o dello Stato pontificio, compiuta nel 1852, rifornendola di nuovo capitale, e arricchendola di altri privilegi come banca di Stato. Aperta la sottoscrizione per «l’attivazione» di essa, furono fra i più grossi sottoscrittori, ma non più che per dieci azioni ciascuno, i fratelli Almagià, Daniele Beretta e Benedetto Costantini di Ancona; Camillo Iacobini e suo fratello Gaetano; il principe Annibale Simonetti, il marchese Lavaggi e il conte De Lozzano; ma senza l’aiuto degli israeliti, il capitale non si sarebbe formato, nè si fu giusti con essi, perchè rimasero esclusi da ogni carica. Difatti, riuniti gli azionisti in assemblea generale il 6 maggio 1852, deliberarono, innanzi tutto, che dovesse la banca cominciare le sue operazioni non più tardì del primo luglio prossimo, così nella sede principale di Roma, come in quelle secondarie di Ancona e Bologna; e poi procedettero all’elezione del consiglio d’amministrazione, nominando governatore il conte Filippo Antonelli, fratello del cardinale; e sottogovernatore, Antonio Costa; censori, i principi Rospigliosi, Doria, Borghese e Vincenzo Colonna, e Stefano Azspeitia; e reggenti, cioè amministratori, il Pianciani suddetto, il marchese Gian Pietro Campana, il barone Grazioli, il conte Pio Bofondi di Forli, e i signori Paolo Mereghi, Raffaele Candi, Agostino Rempicci, Giuseppe Mazio, direttore della zecca, e Vincenzo Cortesi. Direttore della sede di Bologna fu nominato il marchese Cesare Bevilacqua, e di Ancona, Giacomo Baluffi. Come si vedrà nello svolgimento di queste cronache, la banca, pur avendo il privilegio d’istituto di Stato, non nacque vitale, sia perchè le condizioni economiche delle provincie, ma soprattutto di Roma, non offrivano alimento alla vita prospera e onesta di una banca, la quale trovava una concorrenza invincibile nei banchieri privati, nel solo cespite [p. 52 modifica]fruttifero del cambio; sia perchè cominciarono, dal primo giorno, le imprudenze e le indelicatezze di alcuni amministratori.

La banca aveva anche assunto l’obbligo. di destinare una parte dei suoi capitali ai coltivatori, ma, invece, per coltivatori intese qualunque mercante o sensale di prodotti agrari, concedendo loro il vantaggio per eccezione accordato ai coltivatori, di prestare a scadenze di un anno. Pur di vivere, la banca, mancando di affari, perchè il paese non aveva industrie, nè ricchi commerci, intraprese dal primo giorno operazioni di difficile liquidazione, abbondò nel credito di comodo, soprattutto quando, qualche anno dopo, il governo dette ai suoi biglietti corso legale. Subi perdite enormi, che i censori, brava ed inesperta gente, non erano in grado d’intendere e assai meno di valutare: perdite coperte abilmente da operazioni fittizie, e con contabilità, che pochi capivano. Ma a capo della banca era il fratello del segretario di Stato, e perciò i dubbi erano facilmente dissipati. Si diceva: la banca è tutta una cosa col governo, nè era permesso elevar dubbi, trattandosi di banca di Stato. E così si venne, fra ripieghi e magagne, apparecchiando quella catastrofe, la quale segnò nei nuovi tempi uno dei punti più neri della nostra storia bancaria e politica; che fece numerose vittime, e risvegliò per un momento il senso morale del paese.



Note

  1. Voyage en France par Vincent Tizzani, archevêque de Nisibi. Rome, imprimerie Salviucci, 1864.
  2. Timbres de Naples et de Sicile par G. B. Moens. Bruxelles, au bureau du journal Le timbre-poste.