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Roma e lo Stato del Papa/Capitolo II

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Capitolo II

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Capitolo I Capitolo III
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CAPITOLO I.

Ricostituzione del vecchio regime. - Attentati settarii.



Sommario: Il triumvirato rosso e il Consiglio di censura. — Ricostituzione dei ministeri e primi ministri laici. - Laici da burla. – Si brucia la cartamoneta del governo repubblicano. - La lettera di Luigi Napoleone al colonnello Ney non è presa sul serio. - La secolarizzazione non era facile. - Pregiudizi e ricordi. -I ministri Galli e Iacobini. – Monsignor Savelli e le sue ordinanze. – Baraguay permette il can-can al Metastasio. Scandali e proteste. - Provvedimenti di governo. - Attentati settarii. Impotenza delle due polizie. - Soldati francesi buttati nel Tevere. Si attenta alla vita del principe Giuseppe Bonaparte e di sua sorella Maria. – Un brindisi esilarante. - Attentati contro Squaglia, Nardoni, Cesari, Mazio e monsignor Tizzani. - Assassinio di Marco Evangelisti. Fucilazioni in piazza del Popolo e a ponte Sant’Angelo. - Ordinanze del Baraguay. – La città e i bassi fondi. – Col ritorno del Papa il triumvirato cessa. — Suo ultimo atto è il regolamento per gl’impiegati. — Un ricordo del Verdi. - La fine del Passatore.



Il triumvirato dei cardinali, che ebbe pienissimi poteri, dall’ingresso dei francesi al ritorno del Papa, aveva assunto il nome di commissione governativa di Stato, e si era posta all’opera fin dal 1° agosto 1849, con l’ardore di uomini risoluti a cancellare quasi ogni memoria del passato. A conferma di loro sovranità, si erano insediati al Quirinale, e di là emanavano i loro decreti. Se del nuovo triumvirato, battezzato rosso dal colore della porpora, inclinava a qualche mitezza, il cardinale Vannicelli, l’Altieri e il Della Genga avevano indomabili tendenze reazionarie, anzi nel Della Genga riviveva lo spirito astioso di Leone XII. Il primo decreto, anche in ordine di data, fu la sciagurata ordinanza del 2 agosto, con cui si annullava tutto ciò, che si era compiuto dopo il 16 novembre 1848, e si nominava un «Consiglio di censura» per decidere sulla sorte degli impiegati. L’effetto ne fu disastroso, e si può ben credere qual lievito di odii e di rancori si venisse formando contro il governo restaurato. Il potere esalta, sopratutto quando è assoluto; e il triumvirato non ebbe il senso della misura. Pose mano [p. 18 modifica]a tante cose in un tempo, cominciando dalla Consulta, supremo tribunale penale, e perciò destinato a trattare i processi politici. Ridusse a cinque i ministeri, facendone uno solo dell’agricoltura, del commercio, dell’industria, dei lavori pubblici e belle arti; uno dell’interno e polizia, e non dando alcun ministero all’istruzione, la quale, per l’insegnamento superiore, dipendeva dall’interno, e per il primario, dai parroci e dagli ordini religiosi che lo impartivano. Riordinò il corpo dei veliti, come eran detti i carabinieri o gendarmi, e cominciò a far bruciare, spettacolosamente, i primi boni dei sedicenti governi provvisorio e repubblicano, per scudi 82,815, sostituendoli con altrettanti boni del tesoro, che il proministro delle finanze depositò nella cassa della Camera apostolica. Curiosissimo il verbale di abbruciamento. Comincia:

In nome di Dio, così sia.


e si chiude:

Dopo di che, io, segretario e cancelliere della R. C. A., ho preso tutti i sopradetti boni dei sedicenti governi provvisorio e repubblicano, da abbruciarsi, e dopo essere stati tutti lacerati, sono stati di mano in mano gettati in una cassetta di bandone, appositamente fatta, fuori la loggia corrispondente al cortile di detto palazzo, ove eravi stato acceso il fuoco, e quindi sono stati bruciati alla pubblica vista, avendo ognuno osservato che tutti i medesimi boni erano stati totalmente consunti e distrutti dalle fiamme.

Il palazzo, dove si compiva l’abbruciamento, era la sede presente del Senato, in quel tempo ministero delle finanze. Il verbale porta, come prima firma, quella del ministro Galli, e come ultima, la firma di Felice Argenti, segretario e cancelliere. Questo provvedimento era richiesto dalla gravità della situazione. Roma e lo Stato erano inondati di cartamoneta, emessa dalla repubblica per la somma di circa 7 milioni di scudi, con un aggio di oltre il 20 per cento, nonchè dalla banca pontificia per un altro milione e mezzo. Il ministro Galli dispose che fossero ritirati dalla circolazione, e sostituiti da boni del tesoro, e da certificati di rendita ammortizzabili alla pari in dieci anni, a cominciare dal 1851, in rate semestrali, mediante estrazione. E perciò furono emessi, via via, 50 mila certificati di rendita pubblica, ciascuno di cento scudi, fruttanti il 5 per cento. Venne [p. 19 modifica]istituita una commissione speciale, che pubblicò un regolamento, nel quale i certificati al portatore eran detti innominati, e nominati gli altri, ma l’operazione si compì in breve tempo, dopo il ritorno del Papa.


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Gli atti politici del triumvirato cardinalizio, e singolarmente l’ordinanza del 2 agosto 1849, avevano provocata la lettera, del 18 di quel mese, del presidente della repubblica, Luigi Napoleone Bonaparte, al colonnello Ney: lettera platonica nella sostanza, e quasi mistica nella forma, non diretta al Papa, nè al segretario di Stato, e neppure al capo del corpo di spedizione, ma ad un colonnello di questo, per quanto amico personale del presidente. Quella lettera esplicava il carattere dell’intervento francese a Roma, in una amnistia generale, nella secolarizzazione dell’amministrazione, nella promulgazione del codice napoleonico, e in un governo laico. Dovevano esser queste le condizioni, perchè il potere temporale risorgesse per opera della Francia. Che cosa avveniva di fatto, o meglio, fino a che punto la risorta potestà temporale del Papa teneva conto della volontà del presidente della repubblica? Nè amnistia, nè codice napoleonico, nè secolarizzazione amministrativa; e solo si verificò, nell’agosto 1849, la nomina di quattro ministri laici, i quali furono: Angelo Galli, Camillo Iacobini, il principe Domenico Orsini, e Angelo Giansanti: buone persone, ma incapaci, non dico di comandare, ma persino di metter bocca negli atti del triumvirato, innanzi al quale si sentivano piccini, privi persino di volontà; ministri laici, senza ombra di spirito laico. Le nomine, anche di mediocre importanza, erano fatte dai triumviri, con biglietto del ministero, secondo una formula curiosa di occasione. E quando quei ministri scrivevano a personaggi di riguardo, principi o cardinali, la formula di chiusura era ancor più dimessa, ad esempio così: dell’eccellenza o dell’eminenza vostra, devotissimo servo: il ministro, e seguiva il nome.

La secolarizzazione dell’amministrazione si poteva ottenere solo, se il presidente della repubblica l’avesse imposta non in forma di desiderio, o di sfogo rettorico, che purtroppo ricordava [p. 20 modifica]la famosa lettera di lui del 1831, datata da Terni, al papa Gregorio XVI, e che si chiudeva con la comica frase: le forze organizzate, che si avanzano su Roma, sono invincibili. Il principe contava allora 22 anni; era oscuro e povero, e l’anno innanzi, studente nell’università di Roma, vi aveva lasciato non pochi, nè serii ricordi di sè. Ma, divenuto capo della potente nazione, c’era d’aspettarsi da lui un linguaggio più concludente e risoluto, e questo mancò. Bisogna nondimeno riconoscere, che la secolarizzazione non era per sè stessa impresa facile. Se Pio IX non sentiva per il laicato la stessa avversione, che sentiva il cardinale Rivarola, il quale diceva che negli Stati della Chiesa i laici dovevano essere appena tollerati per la generosità dei chierici, aveva però un’antipatia invincibile pei laici, memore di quanto eragli avvenuto nel periodo burrascoso del 1848, coi ministri laici, singolarmente col Mamiani, col Galletti e col Sermoneta, senza contare il maggiore di tutti, e più sventurato di tutti, Pellegrino Rossi. Secolarizzare l’amministrazione pubblica significava riformar tutto ab îmis, distruggendo il tenace pregiudizio, che gli ecclesiastici soli fossero buoni ad esercitare le più alte cariche pubbliche. Lo stesso laicato romano, anche il meglio pensante, non era persuaso che ciò fosse possibile. Lo Stato del Papa, per la confusione dei due reggimenti, accoglieva i vizi naturali dei peggiori governi laici, senza il vantaggio di un solo di essi. Dal Papa, vecchio ed eletto da vecchi, e però non in grado d’intendere le esigenze della vita sociale, non libero di sè, pure essendo principe assoluto; dal Papa, dico, all’ultimo membro della gerarchia, il potere veniva considerato quale usufrutto, trasmissibile ad ignoti, senza eredità di sistema, d’idee, e assai meno di affetti. Il Papa non obblisava il successore come sovrano temporale, ed ogni pensiero o tendenza di lui moriva con lui. La secolarizzazione trovò sempre resistenze invincibili nella curia romana, che, forse non a torto, temeva che da essa all’abolizione del dominio temporale fosse breve il passo. Basterà ricordare ciò che avvenne a monsignor Sala, il quale, durante il congresso di Vienna, aveva pubblicato il suo piano di riforme, consigliando la divisione dei poteri e la secolarizzazione delle cariche civili. Quel libro destò tale incendio, che il cardinal Consalvi, che pure era amico del Sala, [p. 21 modifica]ordinò da Vienna che se ne bruciassero le copie, ma ne restò qualcuna, che, pubblicata più tardi dopo il 1870 e commentata dal mio illustre amico Ignazio Cugnoni, nipote del Sala, fu una rivelazione anche nei nuovi tempi.


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Pio IX prese quasi in burla il consiglio del presidente della repubblica francese; e ridotti i ministeri a cinque, nominò, come ho detto, quattro ministri laici, neppure dello stesso ordine sociale. Il principe Domenico Orsini non si sentiva atto all’ufficio di ministro delle armi, nè lusingato dei tre colleghi, professionisti di origine modesta. Egli destinò il suo stipendio alle famiglie dei militari poveri, e tenne il ministero per breve tempo. Il Giansanti, ministro di giustizia, benchè laico, vestiva da prete; ed essendo avvocato concistoriale, aveva titolo di monsignore. Nato a Piperno da umile famiglia di fornai, era venuto a Roma a studiar leggi, ed era anche ufficiale in Dateria per la collezione dei transunti delle bolle e dei brevi. Nè Angelo Galli vantava origini più elevate. Suo padre era capomastro muratore, ed egli stesso fu computista alla Trinità dei pellegrini, dove conobbe il cardinal Della Genga, che divenne poi Leone XII, e dal quale fu promosso computista generale della Camera apostolica. Vedovo e senza figli, fu obbligato da Pio IX a vestirsi da prelato; ma il Galli, per allontanare la tentazione di farsi prete davvero, sposò in seconde nozze la signora Isabella Coltellacci. Però, nel 1855, per effetto, si disse, del matrimonio, venne sostituito da monsignor Ferrari. Nei sei anni che fu ministro, col consiglio di Antonio Neri, riordinò le finanze per quanto era possibile, ma non fu immune dalle accuse di nepotismo. Riordinando il servizio di navigazione sul Tevere coi battelli rimorchiatori, e fissando a questi il tempo di sette ore, dalla foce a Ripagrande, con partenze periodiche in coincidenza coi bastimenti che entravano nel fiume, prepose alla direzione di tal servizio un suo nipote, di cui si narravano parecchie scioccherie. Ma queste a parte, la riforma compiuta dal Galli ridusse la distanza fra Roma e Napoli a 24 ore, a 17 quella da Napoli [p. 22 modifica]a Fiumicino; e a 7, col rimorchio, da Fiumicino a Ripagrande. Crebbe così il numero di viaggiatori, allettati dalla maggiore economia della spesa e del tempo. Conchiuse anche una convenzione fra l’imperatore d’Austria e i duchi di Parma e di Modena, per la libera navigazione del Po, dallo sbocco del Ticino al mare, e per cui furono abolite le vecchie gravezze, e le tariffe differenziali e di transito tra Stato e Stato. Ad esse venne sostituita una tassa unica di navigazione, non a scopo fiscale ma per far fronte alle spese di sorveglianza, e per migliorare i navigli. Il Galli aveva una coltura laica proporzionata ai tempi, e scrisse libri ed opuscoli non privi di buon senso e di talento. La sua maggiore opera è una copiosa monografia sulle condizioni economiche dello Stato pontificio, preceduta da un discorso sull’Agro romano e sui mezzi di migliorarlo1. Questo volume pubblicato nel 1840, e da lui dedicato al cardinal Pacca, è la dimostrazione più evidente della povertà degli stati della Chiesa. Il Galli morì il 23 luglio 1859 a 70 anni, e lasciò il patrimonio a Pietro Salustri, nipote di sua moglie, e che perciò aggiunse al suo il cognome di lui. Fu onesto e intelligente.

Camillo Iacobini cumulò i ministeri di agricoltura, commercio, industria, lavori pubblici e belle arti. Discendeva da una famiglia di agiati viticultori del Lazio; aveva studiato nel seminario romano, lasciando ritenere che si sarebbe fatto prete, tanto erano in lui marcate le tendenze al sacerdozio. Invece si die’ agli affari, prese tenute in affitto, ed acquistò fama di abile mercante di campagna e di assuntore di opere pubbliche. Col fratello Gaetano esegui la costruzione del ponte di Galloro, che unisce Ariccia a Genzano, e durante il suo ministero, fu compiuto il grandioso ponte di Albano. Da ministro non montò in superbia, nè abbandonò gli affari, e die’ prova di generosità, rinunziando a mezzo stipendio a fine di beneficenza. Uscendo dal ministero, si fermava a piazza Colonna coi mercanti di campagna e coi sensali, e tutti lo chiamavano è sor Cammillo, e scherzosamente Jacobinetto o Cammilluccio. Durante il suo ministero iniziò le strade ferrate, aprì le prime linee telegrafiche, [p. 23 modifica]favorì l’agricoltura, com’era possibile, bandendo concorsi e premiando piantagioni, e fu stimato per la sua probità e semplicità di costumi. Abitava in un piccolo quartiere in via del Pozzetto, ed era suo amico indivisibile quell’avvocato Pulieri, del quale si è discorso, e che con lui rivaleggiava nella bassezza della statura. Il Iacobini protesse due nipoti, Ludovico, che fu nunzio a Vienna e morì segretario di Stato di Leone XIII nel 1887, e Mario, soprannominato la serratura del portafoglio perchè seguiva sempre lo zio, e sposò poi la bellissima Diomira Poggi. Gli fu rimproverato di aver nominato sensali patentati alcuni noti bagherini, quasi riabilitandoli. Peccati veniali! La sua maggior lode può compendiarsi nella risposta, che alla sua morte Pasquino dette a Marforio: — Perchè è morto? — chiese Marforio. — Sfido — rispose Pasquino, — non mangiava! — con chiara allusione alle abitudini parsimoniose del ministro, e alla sua integrità. Al Iacobini, che morì nel 1854, successe un prelato, monsignor Milesi Ferretti, congiunto di Pio IX. La laicizzazione se ne andava in fumo, anche per ministeri essenzialmente profani; e dopo la morte del Farina, anche il ministero delle armi fu affidato ad un prelato straniero.


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Monsignor Savelli fu il solo ecclesiastico del primo ministero della restaurazione, ma aveva il dicastero più importante, quello dell’interno e della polizia. Era corso, e soprannominato monsignor Bull-dog per la sua faccia somigliante ai cani di quella razza. Era uomo cui piaceva la vita, non seminata di triboli. La sua intimità con i coniugi Leoni, che abitavano al Belvedere della villa Corsini, dove monsignore si recava molto di frequente, fu origine di molte dicerie. Il Leoni era occupato tutto il giorno al suo banco lotto in via di Sant’Eustachio, banco che ornava in maniera vistosa, per chiamare la gente a giuocare. Il Savelli era il solo dei ministri che avesse potere. Dipendendo da lui la polizia, non erano infrequenti le occasioni per dimostrare il suo rigore, come avvenne nelle ordinanze per il carnevale. Ripetuti i divieti circa i pubblici spettacoli e le [p. 24 modifica]mascherate, queste erano permesse, ma «col volto scoperto, nè contraffatto con barbe finte o con tinture o altri artifizi, sì di giorno che di notte, e in qualsiasi suolo tanto pubblico che privato ». E non fu lieve lo scandalo, allorchè, ridendosi di queste disposizioni, rese più esagerate dalle penitenze indette dal cardinal vicario, spirito angusto e non benigno, si tentò da alcuni ufficiali francesi, col permesso del generale Baraguay, di tenere due veglioni in maschera al Metastasio, e di ballare il can-can con alcune ballerine del Tordinona. Questo permesso, dice un cronista guelfo, fece verificare inconvenienti di un genere, a cui non si era usi a Roma. Il Baraguay fu fatto segno alle peggiori maldicenze nelle sagrestie, al vicariato e nelle anticamere dei cardinali. Ma che farci? Il padrone era lui, nè innanzi a lui i cardinali del triumvirato ed i ministri osavano fiatare. La potenza dei comandanti del corpo di spedizione fu sempre decisiva nelle cose ordinarie del governo pontificio, e trovavano lodi e incoraggiamenti nella cittadinanza laicale, che, non potendo avere un’amministrazione civile, secondo aveva lasciato sperare il principe Luigi Bonaparte nella lettera al Ney, e aveva promesso Pio IX col motu-proprio di Portici, si credeva vendicata nelle umiliazioni, che i supremi comandanti francesi infliggevano al governo ieratico. E questo alla sua volta non trovò alcun motivo di riporre confidenza nel capo di quella nazione, le cui armi l’avevano fatto risorgere. In Luigi Bonaparte, tenuto dalla corte romana in conto di spirito incerto, con tendenze di visionario, il ricordo dell’antico ribelle non era stato cancellato dalle nuove gesta di lui; e tutte le arti della curia mirarono, dal giorno che egli contrasse matrimonio, a tenersi nelle grazie dell’Imperatrice e della sua corte intima, solleticando le influenze francesi e spagnole, che vi mettevano capo, e che erano rigidamente cattoliche, per non dire addirittura clericali. Vedremo nel corso di queste cronache come si svolse quest’influenza, sino al fatale 4 settembre 1870.

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Quando il Papa tornò in Roma, l’ordine materiale vi era in parte ristabilito, ma l’ordine morale era ancora un desiderio platonico. La polizia francese e la pontificia, affidate, quella al comandante Le Rouxeau, col grado di prefetto, e che aveva per segretario il signor Mangin; e questa al tenente colonnello di gendarmeria Nardoni, nonostante il regime militare e le fucilazioni sul tamburo, sì mostrarono impari al loro ufficio. Nè può loro ascriversi ad onore la scoperta dell’uccisore del soldato francese, che fucilato la mattina del 19 febbraio 1850, sulla piazza del Popolo, morì, come disse il Giornale di Roma, «dando i più manifesti segni di cristiano pentimento», quando non riuscì loro di tirare in luce gli autori di altri numerosi attentati, in persona di militari e di borghesi, sopratutto di militari, nè gli autori di quello contro il principe di Musignano, Giuseppe Bonaparte, e la sua sorella Maria. La restaurazione, benchè salutata dagl’indirizzi magniloquenti dei principali municipi dello Stato, e singolarmente d’Imola, Recanati, Sinigaglia, Fano e Perugia, era solo riuscita a dare allo Stato una lustra di tranquillità, all’ombra dell’esercito austriaco, in quelle provincie. Il governo pontificio voleva persuadere il mondo, che l’ordine morale e materiale era stato ristabilito in Roma, ma i fatti smentivano il suo interessato ottimismo. Non vi era quasi giorno, in cui, agli appelli nelle caserme francesi, qualche milite non rispondesse, e si scoprisse che aveva trovata la morte nelle acque del Tevere, per opera di fanatici e violenti popolani, sui quali nulla potevano l’influenza del primo comitato repubblicano, nè il timore di essere fucilati per semplice sospetto. Buttare nel fiume qualche soldato sull’ora dell’imbrunire, dopo averlo reso alticcio nelle osterie di Trastevere, era cosa più facile e men compromettente di quella di ammazzarlo con una coltellata; nondimeno si preferiva il coltello. Nell’ultimo sabato di carnevale di quello stesso anno 1850, mentre ferveva la baldoria al Corso, provocata artificialmente dalla polizia, venne ucciso, in via Macel de’ Corvi, un altro soldato francese, e si compiva l’attentato contro il Bonaparte, giovane a 26 anni, di [p. 26 modifica]arditi spiriti, e primogenito del principe di Canino. Una lettera anonima gli aveva imposto di non andare al Corso; a lui parve viltà ubbidire, e vi andò ostentatamente in charrette, con la sorella Maria, che aveva 14 anni. Ma giunti innanzi al Caffè Nuovo, un ignoto, staccandosi dalla folla, offerse al principe un gran mazzo di fiori, nel quale era nascosta una granata di vetro, che scoppiò dopo pochi istanti, e ferì piuttosto gravemente il principe, e leggermente la sorella e il cocchiere, che furono condotti alla prossima farmacia per essere medicati. L’audacia di quell’attentato produsse una grande impressione, e fece scemare il vigore della gazzarra carnevalesca. Delle ferite i Bonaparte guarirono presto, e fra le dimostrazioni a favor loro per lo scampato pericolo, va ricordato il brindisi del comandante Vincent dell’11° dragoni, il quale in un pranzo nello stesso Caffè Nuovo, dato la sera del 10 con intervento di parecchi giovani dell’aristocrazia per festeggiare la promozione del colonnello Boyer, così parlò:

... facciamo brindisi al carnevale, alle sue gioie, ai suoi piaceri, ai suoi fiori, ai suoi lieti confetti, alle gentili donne che vi concorrono, essendone il più bell’adornamento, e massimamente all’egregia donzella, che insieme col nobil fratello sprezzò esecrabil minaccie anonime. A quell’angelo, da un pericolo scampato, giunga tutto il nostro genio simpatico; siano conforto al dolor materno le spontanee premure dell’armata francese; abominio al perfido mazzo di fiori, sdegno ed onta eterna sull’infame che lo vibrò, e sui più di lui infami, che armarono la mano scellerata...

«Parlò in italiana favella, - disse un giornale, - acciò fosse «compreso da tutti i romani ch’erano presenti». Donna Maria Bonaparte sposò l’anno appresso il conte Paolo di Campello; e volendo gli sposi partire per Napoli a passarvi la luna di miele, furono loro negati i passaporti.


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Continuavano gli attentati quasi senza tregua, a danno di reazionarii ben noti. Agostino Squaglia, bussolante in Vaticano e nerissimo papalino, camuffato da Cernuschi, era andato al Corso in carrettella, imitando stranamente, nei gesti e nei discorsi, il [p. 27 modifica]famoso tribuno. Lo Squaglia frequentava la libreria Bonifazi, posta al canto di San Marcello, dove è ora la bottega di oreficeria del Suscipi. In quella libreria, dove con lo Squaglia si riunivano i più odiati reazionarii, la sera del 29 maggio fu fatta scoppiare una bomba, con indicibile spavento dei frequentatori, che il giorno appresso fecero celebrare un solenne triduo nella vicina chiesa, per lo scampato pericolo. S’iniziò un processo, ma non si venne a capo di nulla; e tutto finì con una medaglia d’argento, col motto Fidelilati, concessa allo Squaglia, a Luigi Borghesi, frequentatore anch’egli del negozio, e lui pure bussolante, e a Filippo Bonifazi. Questi però, vinto dalla paura, non ebbe pace che quando potè cedere la bottega ad un gioielliere francese, chiamato Loulou, per cui si disse:

Vedete come il mondo
Se ne va proprio in giù,
Dov'era Bonifazi
Oggi vi è Loulou.

Lo Squaglia morì al manicomio, si disse per effetto della paura.

Un attentato audacissimo fu quello della mattina del 19 luglio, alle 7, contro il colonnello della gendarmeria Filippo Nardoni. Questi, passando pel vicolo dell’Abate Luigi, per andare a prendere il caffè in una piccola bottega tenuta da Lorenzo Ferrucci, altro sfegatato papalino, fu aggredito da due persone armate di pugnale. Essendo il Nardoni uomo coraggioso, si difese animosamente, sfoderando un’arma nascosta nel bastone. Gli assassini fuggirono, ma uno di essi, certo Pace di Frascati, muratore, fu raggiunto ed arrestato insieme a due complici dallo stesso Nardoni, Fedeli di Macerata e Antonini, già impiegato alle poste. Il Pace fu condannato a morte, ma il Papa gli commutò la pena nell’ergastolo.

Seguivano brevi periodi di calma, che parevano rassicuranti, ma non s’indugiava a tornar daccapo con nuovi attentati. Fu fatta scoppiare una bomba innanzi alla casa di monsignor Tizzani; si tentò di assassinare il Cesari, prefetto dell’archivio comunale, e poi il Mazio, direttore alla zecca pontificia. Ma più iniqua di tutte fu l’opera di sangue, di cui cadde vittima, la sera del 15 giugno 1851, il cancelliere della Consulta, Marco Evangelisti, il quale passando per via di San Venanzio innanzi [p. 28 modifica]al palazzo Lezzani, nel punto che alzava la testa per vedere se erano accesi i lumi nell’appartamento della signora Giovannina Lezzani, della quale era innamorato, fu colpito e steso al suolo da una coltellata in pieno petto. Cancelliere della Consulta, egli sottoscriveva, in tale qualità, le sentenze di morte, e si diceva pure che col fratello Luigi, ufficiale nei dragoni, informasse segretamente il Consiglio di censura sul conto di quegli ufficiali e impiegati, che si erano più compromessi durante la repubblica.

Quasi mai le due polizie riuscivano, come si è detto, a scoprire i veri autori degli attentati. Procedevano ad arresti in massa, sopra sospetti o denunzie, e gl’indiziati erano per mesi ed anni sostenuti in carcere, senza che mai una prova spuntasse a loro carico. Gli uccisori dei due popolani, che in via del Teatro Valle avevano additata la strada a due medici militari francesi, i quali, smarritisi per via, mentre precedendo l’avanguardia si affrettavano ad entrare in città, non furono mai scoperti; nè fu potuto parimenti chiarire l’uccisore del prete, che in quel giorno stesso, in piazza Sciarra, applaudiva i francesi che sfilavano per il Corso. E con essi rimasero pur nascosti coloro, che attentarono alla vita del Mazio e del Cesari, e ammazzarono l’Evangelisti. Gli assassinii politici, a Roma e nelle provincie, non si contarono più dopo la restaurazione. Le esecuzioni sommarie, fatte dagli austriaci e dai francesi, ma sopratutto dai primi nelle Legazioni e nelle Marche, riuscivano a dare un po’ di calma, ma poi si ricominciava, nè veramente gli assassinii per mandato di setta finirono a Roma, e negli Stati della Chiesa, prima che cessasse il dominio temporale, benchè non possa affermarsi, neppure oggi, che il lievito ne sia interamente sparito.

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Dinanzi a questa impotenza delle due polizie nell’impedire o scoprire ì reati di sangue, il generale Baraguay, in data 11 febbraio, fu consigliato a dar fuori un’ordinanza così concepita: «Chiunque sarà rinvenuto latore di coltelli, pugnali, stiletti, o qualunque siasi strumento atto alla perpetrazione di un delitto, [p. 29 modifica]sarà immediatamente fucilato». Nè fu una grida spagnola, perchè, in virtù di essa, venne fucilato il Gatti, e sette giorni dopo, sulla stessa piazza, un certo Paolo Cascapera, perchè sorpreso armato di uno stocco; ed imponendosi altri esempi, la mattina del 9 ottobre, per sentenza della Consulta, furono passati per le armi alla Bocca della Verità, contemporaneamente, sei individui di infima condizione sociale, condannati per tre feroci omicidii, consumati sulla piazza di ponte Sant’Angelo il 3 maggio 1849, prima che entrassero i francesi. A differenza dei giudizi statari, questo della Consulta ebbe salve le apparenze, La Consulta era stata ricostituita con monsignor Sagretti presidente, con prelati intransigentissimi, e con l’Evangelisti per cancelliere.

La verità è che nei bassifondi della città era rimasto tale un lievito di odii contro il governo pontificio e contro i suoi partigiani, che non si penava a cercare chi, per suggestione, sì prestasse a compiere un assassinio. Bastava creare, nella coscienza di persone rozze, la persuasione che il tale o il tal altro fosse una canaglia o una spia, perchè la vita di quest’uomo fosse condannata. Se a Roma non fu mai popolare il governo pontificio, come quello che esercitava una doppia tirannide, la politica e la religiosa; che traeva profitto da tutto; che favoriva, con mezzi subdoli e inframmettenze di donne, chiunque gli piacesse; che amministrava senza giustizia, ed entrava in ogni intimità della vita, pubblica e privata, bisogna riconoscere che questo governo tornava, dopo tre anni, peggiorato ed imposto dalla forza di quattro eserciti, e da un’armata di occupazione. Molte famiglie avevano perduto, nella guerra e nell’assedio, i congiunti: a Cornuda, a Treviso, a Vicenza, erano caduti valorosi giovani della miglior borghesia, e primo fra tutti, Natale del Grande, al quale il municipio ha dedicata testè una via, e collocato un busto al Gianicolo. Erano caduti con egual valore, nelle giornate dell’assedio, Gustavo Spada, l’amico intimo del principe Luciano Bonaparte, che di quella perdita non si consolò più, e Paolo Narducci, ufficiale d’artiglieria, la cui madre inconsolabile fu arrestata il 9 febbraio di quell’anno, perchè protestava contro le gazzarre del carnevale, e tanti altri tra morti e feriti. Non pochi avevano preferito l’esilio volontario, ed altri erano usciti con Garibaldi.

[p. 30 modifica]Roma aveva dato un copioso e prezioso contributo di sangue alla causa nazionale, e non era possibile cancellare tante memorie, estirpare tanti germi di vendetta, e conciliare tanti interessi offesi o traditi; si rispondeva con violenze alle violenze; e quel disordine morale, di cui il triumvirato rosso fu coi suoi eccessi il maggior fattore, ebbe per complice tanta parte della popolazione, credente nella religione del coltello, per antiche e immutate tradizioni. Il governo pontificio non visse che di trepidazioni e di paure, dal giorno in cui rinacque, a quello in cui finì.


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Col ritorno del Papa, il triumvirato dei cardinali cessò di esistere, e dal 13 aprile i poteri furono accentrati nel cardinal Antonelli, al quale, come il primo e maggiore dei ministri, questi ubbidivano, nè erano ammessi all’udienza del sovrano che solo una volta alla settimana. L’ultimo atto del triumvirato, messo fuori nello stesso giorno che il Papa giunse a Terracina fu il regolamento interno per gl’impiegati, ch’è un documento curiossimo. Si raccomandava agl’impiegati l’assiduità, e si vietava loro di cumulare impieghi, o d’interessarsi direttamente o indirettamente negli appalti, di essere agenti d’affari e di esercitare la professione di commercianti. Erano poi considerate mancanze disciplinari, e in vario modo punibili, il ritardo, le assenze senza permesso, la trascuratezza e la notabile lentezza (sic). Ma nessuno ricorda che fosse mai punito alcun impiegato per notabile lentezza; che anzi era questa la caratteristica della burocrazia pontificia, ecclesiastica e laica. Ricordo l’aneddoto, che raccontava il Verdi a proposito della lentezza degl’impiegati pontificii. Egli era venuto a Roma nell’inverno del 1853, per assistere alla prima rappresentazione del Trovatore, e usava quasi tutte le mattine recarsi alla posta, che aveva sede nel cortile del palazzo Madama, dov’è oggi il Senato. Il maestro, alle 9 precise, ora dell’apertura, va alla posta, trova gli sportelli chiusi, e sbuffa pel ritardo. Suonate le nove e mezzo, un impiegato sonnolento apre lo sportello; il Verdi gli si accosta e dà il suo nome; e poi, cacciando l’orologio sotto il naso [p. 31 modifica]dell'impiegato, gli dice: — Ma non vedete che sono le nove e mezzo? — E quello, con romana fiemma: — E non ringrazia Iddio che ce semo arrivati? — E passando in rassegna le lettere della casella V, risponde: — Niente per Verdi Giuseppe —, e gli volta le spalle. Aneddoto caratteristico, da me udito dall’immortale maestro, che da quel giorno andò alla posta un’ora più tardi.

Il cumulo degl’impieghi era veramente la maggiore magagna, ma non era possibile sradicarla, perchè conseguenza della tenuità degli assegni, che oggi non sembrano neppur verosimili, e della confusione dei due poteri. L’esempio veniva dall’alto, come si vedrà. La condotta degl’impiegati doveva essere «scevra di qualsiasi eccezione religiosa, morale o politica, da comprovarsi con certificati o informazioni riferibili, non solo al tempo presente, ma anche al passato». Questo regolamento restò lettera morta, com’era da prevedersi, anche perchè venne fuori, dopo che il Consiglio di censura aveva fatto repulisti dei funzionari compromessi o sospetti, e ne aveva retrocessi di grado tanti di loro, compresi i militari; anzi tra i militari, e sopratutto fra quelli di grado superiore, fu più larga la strage.

Un grande servizio alla sicurezza pubblica nelle Legazioni fu però reso nel marzo 1851, non dagli austriaci, ma dai gendarmi del Papa, con l’uccisione del famoso Passatore, sorpreso la mattina del 23 nel territorio di Russi, insieme ad un suo compagno, da una brigata comandata dal vicebrigadiere Battistini. Il Passatore era proprio lo spavento di quelle terre. Si chiamava Stefano Pelloni; era nato a Boncellino; e avanti di darsi alla campagna, dopo i primi omicidii, aveva fatto il contrabbandiere sul Po, traghettando con una sua barca le merci di maggior valore, ed aveva avuto per questo, dalla voce pubblica, il soprannome di «Passatore». Quando morì, contava solo trent’anni. Intorno a lui si era creata una leggenda. Si narrava, che una sera apparisse sul palcoscenico del teatro di Forlimpopoli, armato di doppietta, e puntando questa contro la platea, minacciasse dì morte chiunque osasse levarsi, obbligando tutti a consegnargli danaro e ogni altro valore. Condannato a morte, e cercato dai gendarmi e dagli austriaci, vide ridotta la sua banda, da 40 a 18 uomini, ed in ultimo a 15, e fu allora che s’uni a un certo Taselli, soprannominato Giazzola. Scovati dai [p. 32 modifica]gendarmi, opposero disperata resistenza, ferendo gravemente il vicebrigadiere Battistini, che ne morì due settimane dopo. Il nome della povera vittima del dovere fu portato all’ordine del giorno dal principe Orsini, ministro delle armi, colla rnenzione che il Papa aveva concessa alla vecchia madre del Battistini la lauta pensione di sei scudi al mese. Addosso al Passatore furono trovati 476 scudi di varia moneta ed oggetti preziosi. Nel bando per la taglia, il brigante era così indicato: «anni 30 circa; statura giusta; portatura complessa; spalle grosse; capelli scuri e fronte alta; ciglia scure; occhi neri; naso giusto; bocca regolare; mento tondo; viso tondo; carnagione naturale; barba nera con mosca al mento, e rara; marcato in faccia da granelli di polvere sulfurea». Proprio così. La taglia posta sul capo dei briganti variava secondo la rispettiva loro importanza. Una somma di tremila scudi era promessa in premio a chi consegnava il Passatore, vivo o morto; ed altre minori taglie di 500, di 100 e di 50 scudi, colpivano gli altri banditi, tutti giovani dai venti ai trent’anni. In poche settimane la banda fu distrutta. A Bagnacavallo e a Faenza vennero fucilati alcuni ricettatori, a pubblico esempio; e d’allora le campagne romagnole furono relativamente meno insicure, ma la quistione della pubblica sicurezza in quelle provincie fu sempre un argomento di accuse contro il governo.


Note

  1. Cenni economico-statistici sullo Stato Pontificio, con appendice di Angelo Galli, computista generale della R. C. A. Roma, tip. Carnevale, 1840.