Satire di Tito Petronio Arbitro/15

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Capitolo quindicesimo - Giuochi, fanfaluche e cena prolungata

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo quindicesimo - Giuochi, fanfaluche e cena prolungata
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CAPITOLO QUINDICESIMO

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giuochi, fanfaluche, e cena prolungata.



Continuava egli così a tor la mano ai filosofi, quando portaronsi intorno in un vaso alcuni viglietti, ed il paggio, che ne era incaricato, ne lesse le sorti. Un diceva: danaro buttato iniquamente; e si portò un presciutto con branche di gamberi sopra, un orecchio, un marzapane, ed una focaccia bucata. Recossi dipoi una scatoletta di cotognato, un boccone di pane azimo, uccelli grifagni, insieme ad un pomo, e porri, e pesche, e uno staffile, ed un coltello. Uno ebbe passeri, un ventaglio, uva passa, miele attico, una veste da tavola, ed una toga, una fetta di marzapane, e tele dipinte: un altro ebbe un tubo, ed un socco: portossi pure una lepre, e un pesce sogliola, e un pesce morena, e un sorcio acquatico legato con una rana, ed un mazzo di biete.

[p. 70 modifica] Ridemmo lungamente di questo gioco: eran seicento i viglietti, de’ quali altro non mi ricordo. Ma Ascilto con somma licenza e colle mani alzate, facea beffe di tutto, e piangea del gran ridere; perlocchè uno de’ liberti di Trimalcione, che restava appunto al di sopra di me, ne prese collera, e sì gli disse: che ridi tu, castroncello? forse non ti piacciono le splendidezze del mio padrone? se’ tu più felice di lui? Hai tu migliori conviti? Così mi sia propizia la divinità di questo luogo, come io, se fossi vicino a colui, gli avrei di già applicato uno schiaffo. Bel soggetto veramente da farsi beffe degli altri! Un biante notturno, che non val l’urina, ch’ei piscia! Che s’io mi metto a pisciargli addosso, non sa dove fuggirsene.

Io non soglio, perdio, scaldarmi assai presto, ma e’ non bisogna aver carne per non sentir de’ vermi. Ei ride; e cosa ha egli da ridere? forse tuo padre ha comperato gli agnelli non nati per trarne lana? se’ tu cavalier Romano? Ed io son figlio di re. Perchè dunque hai servito? tu mi dirai: perchè mi resi schiavo volontariamente, volendo piuttosto essere cittadino romano, che principe tributario: ed ora spero io di vivere in modo, che nessuno abbia a beffarsi di me: qual uomo libero io vo’ colla fronte alta in mezzo agli altri, e non devo un soldo a nessuno. Non mi fu intimata mai veruna citazione, nè in alcun tribunale mi fu mai detto: paga i tuoi debiti. Ho acquistato qualche solco, ho i miei paiuoli, do a mangiare a venti bocche, non compresi i miei cani, ho redenta la moglie mia, onde nessuno si asciugasse le mani ne’ suoi capegli, e spesi mille ruspi per torle questa macchia: poi venni fatto gratuitamente un de’ sei, e spero di morire in tal guisa, che io non abbia ad arrossir dopo morte.

Ma tu sei dunque sì occupato da non poterti guardar dietro? Tu vedi dunque il pidocchio sugli altri, e non la zecca sopra di te? a te solo sembriam noi [p. 71 modifica]dunque ridicoli? vedi là il tuo maestro, uomo di venerabile età, al qual noi piacciamo; e tu, fanciul da latte, che non sa dire nè mu, nè ma, vuoi censurare? vaso di terra, anzi lista di cuoio macerato nell’acqua, ma più duro e non migliore. Se’ tu più ricco? desina due volte, cena due volte: io valuto più la mia coscienza, che tutto l’oro del mondo. In somma, chi ha mai chiesta a me due volte una cosa? Io ho servito quarant’anni, pur nessun seppe se schiavo o libero io mi fossi. Venni fanciullo ancora chiamato in questa colonia pria ch’ella fosse Basilica. Ma in modo mi diportai che piacqui al mio padrone, uomo di alto bordo, e insignito di carica, un’unghia1 del quale valeva più che non vali tu intero. Vi erano in casa alcuni che mi tendean dei lacci qua e là; pur per grazia dell’angiol mio, me ne cavai. Questa è la vera mia storia. Gli è tanto facile ad un uom nato libero diventare un atleta, quanto venire in questo luogo. Or di che prendi tu istupore, come fa un becco della mercorella?

Come così ebbe detto, Gitone, il quale sedea sotto a lui, dopo essersi lungo tempo compresso, indecentemente si pose pur egli a ridere; locchè osservatosi dal nimico d’Ascilto, rivolse la sua invettiva al ragazzo, dicendogli: anche tu ridi, o gazza ricciuta? o che baccano! È egli giunto il dicembre, di grazia? Quand’è che tu hai passata la tua vigesima? Or che farà questa ciambella inchiodata? sarà pasto di corvi. Io avrò cura che Giove si adiri con te, e con costui, che coll’autorità sua non ti raffrena. Così sarò soddisfatto; e tanta mia moderazione dono io al mio collega; altrimenti io ti avrei di già dato a quest’ora ciò che ti meriti. Noi non istiam bene, nè lo stanno codesti Sciti, che non ti san governare: qual padrone, tal servo. Appena posso io contenermi, perchè son caldo di temperamento, e quando il moscherin m’è saltato,2 non guardo in faccia nemmanco a mia madre. Or va bene: io ti [p. 72 modifica]guarderò nel pubblico come si guarda ad un topo, anzi pure ad una tartufola. Che io più non mi mova nè di qua, nè di là, se io non involgo il tuo padrone in una foglia di ruta: nè perdonerò a te, quand’anche, perdio, invocassi Giove olimpico. Io farò ben in modo che ti sia rasa codesta zazzera che pare una bieta, e che tu perda quel tuo padron da un quattrino. Oh mi capiterai sotto i denti; e o non sarò io, o tu certo non riderai, quand’anche avessi la barba d’oro.3 Farò che la befana perseguiti te, e chi primo ti ha sì bene educato. Io non istudiai nè Geometria, nè Critica, nè codest’altre buffonerie, ma intendomi di Lapidaria, e sciolgo cento difficoltà sul danaro, sul peso, sulla moneta, sui conti. Se nulla vuoi, così tra noi due, io sono pronto a scommettere, o fantasma.

Benchè io non sappia di Rettorica, ben ti so dire, che il padre tuo consumò i suoi salarj. Nessuno, vedi, è da me assai distante, perchè io arrivo lontano. Lascia un po’ ch’io ti chiegga, chi di noi due faccia più strada senza pur moversi dal suo posto, e chi parer voglia il più grande, e sia piccino. Tu corri, tu ti maravigli, tu ti affanni come un topo nell’orinale. Taciti adunque, o non molestare il più forte, il qual non sa pure se tu sei nato, a meno che tu non creda, che io m’inchini a quegli anelli di paglia,4 che hai rubato alla tua druda. Mercurio ci aiuti!5 Andiamo ora in piazza a prender danari a mutuo. Là vedrai il credito. Questa è bene la bella cosa, o volpaccia da fosso! Così possa io arricchire e morir contento! Ma il popolo giurerà la mia morte, se io non ti avrò messa in cento pezzi la veste. La bella cosa, che è costui che t’insegna; egli è non maestro, ma mosto.6 Noi sì che imparammo: Il maestro dicea: questi sono i vostri doveri, salutare, andar a casa addirittura, non ingiuriare i maggiori, e non fermarsi a contar le botteghe. Ciò non ostante, nessun si approfitta. Quant’ a me, ringrazio gli Iddii di [p. 73 modifica]avermi data tale destrezza, per la qual mi vedi sì comodo.

A queste ingiurie Ascilto incominciava a rispondere, ma Trimalcion divertendosi della eloquenza del suo liberto, disse: troncate gli insulti, e siate più miti; e tu, Ermero, perdona a quel fanciullo, e siccome egli ha il sangue che bolle, tu sia il più prudente. SEMPRE VINCE CHI È VINTO IN TAI CONTRASTI. Anche quando eri cappone, facevi cocò cocò, nè avevi pur tanto cuore. Stiamcene adunque allegri, prima di tutto, che gli è il meglio, intanto che aspettiam gli Omeristi.7

In questa entrò uno stuol di costoro, che fecero strepito battendo l’aste sui scudi; Trimalcione si assise sopra un guanciale; e intanto che gli Omeristi coll’accostumata loro insolenza recitavano que’ versi greci, egli con alta cantilena leggeva un libro latino. Fattosi poi silenzio, ei disse: sapete voi la favola che rappresentano?

Diomede e Ganimede erano due fratelli,8 de’ quali Elena era sorella. Rapilla Agamennone, e pose in suo luogo la cerva di Diana. Ora Omero in questo passo racconta come tra lor combattessero i Troiani, ed i Parentini. Ma egli vinse, e diè sua figlia Ifigenia per moglie ad Achille: di che Aiace divenne pazzo; e così l’argomento vi sarà noto.

Dopo queste parole di Trimalcione, gli Omeristi alzarono un gran gridore, perchè in mezzo ai famigli, che d’ogni parte correano, fu portato sopra un grandissimo bacino un vitello intero cotto a lesso, e con un caschetto sul capo. Aiace gli veniva dietro, il qual come furibondo, imbrandito il trinciante, il tagliò, rivoltandone i pezzi colla punta, a guisa di ciarlatano, or di sotto, or di sopra, e distribuendolo a noi, che lui ammiravamo. Ma non potemmo quegli eleganti lavori a lungo osservare, perchè tutto ad un tratto sentimmo scricciolar la soffitta, e tutto il triclinio tremare. Io [p. 74 modifica]m’alzai spaventato, temendo che qualche saltatore non scendesse dalla parte del tetto, e gli altri convitati non men sorpresi alzarono i volti, curiosi della novità che venir potesse dal cielo. Ed ecco che apertasi la soffitta si vide un gran cerchio che quasi da larga cupola distaccandosi venne giù, e gli pendeano d’intorno varie corone d’oro, e scatolette d’alabastro piene di unguenti odorosi.

Mentre ci era ordinato di prenderci questi presenti, io volsi l’occhio alla mensa, sulla quale vidi già riposto un servizio di alcune focacce, e in mezzo un Priapo fatto di pasta, che nel largo suo grembo tenea, secondo il solito, uve e poma d’ogni qualità.

Noi con avidità allungammo le mani a quei frutti, ed improvvisamente un nuovo ordine di giuochi accrebbe la nostra allegria, perchè le focacce ed i pomi appena colla minima pressione toccati diffusero intorno tale odor di zafferano,9 sino a riescirci molesto.

Persuasi adunque, che una vivanda sì religiosamente profumata fosse cosa sacra, noi ci rizzammo in piedi, e augurammo felicità ad Augusto padre della patria. Alcuni però avendo anche dopo questa venerazione rapiti quei frutti, noi pur ce ne empiemmo i mantili, ed io soprattutto, cui parea non aver mai abbastanza regalato il mio Gitone.

Tra questi fatti entrarono tre donzelli involti in candide tonicelle, due de’ quali misero in tavola i Dei lari inghirlandati,10 ed uno recando intorno una tazza di vino gridava: CI SIENO PROPIZI I DEI. Dicea parimenti, che l’un di essi chiamavasi Cerdone, l’altro Felicione, ed il terzo Lucrone. E come fu portato intorno il ritratto di Trimalcione, che tutti baciarono, noi non potemmo sebben con rossore scansarcene.

Poichè dunque ebbersi tutti augurato lieto animo, e buona salute, Trimalcione voltosi a Nicerota gli disse: tu solevi essere amabile nelle comitive; or non so per[p. 75 modifica]chè ti stii zitto, a guisa di muto. Io ti prego, se mi vuoi bene, contaci qualche cosetta a tuo piacimento.

Nicerota, allettato della affabilità dell’amico, rispose: possa io divenir povero, s’egli non è già qualche tempo che io son contentissimo di vederti tal qual ti veggio. Ora dunque stiamcene pure allegri, benchè io abbia soggezione di codesti dottorelli, che rideranno. Ma non importa: io racconterò; perchè finalmente che mal mi fa un che rida? Egli è meglio far ridere, che esser derisi.

Queste parole avea finite, quando


incominciò quest’altro chiaccheramento.

Essendo io nella servitù, abitavamo in un viottolo, dove ora è la casa di Gavilla. Là, come piacque a Dio, presi amore alla moglie di Terenzio locandiere: voi dovete sicuramente conoscere quella bellissima baciucchiona di Melissa da Taranto. Ma non crediate perdio, che io la amassi carnalmente e per frascherie di Venere, ma sì perch’ell’era bene accostumata. Ella non mi negava mai cosa ch’io le cercassi. Quand’io avea uno scudo, due scudi, deponeali in sua mano, e quando mi abbisognavano, me ne servia. Avvenne che il marito suo morì in campagna, ond’io mi adoperai colle mani e co’ piedi per andarla a trovare, giacchè gli amici si conoscono all’occasione. Diessi il caso che il mio padrone sortì di Capua per andar a vendere con profitto alcuni suoi vecchi stracci. Approfittando io della congiuntura persuasi l’ospite nostro a venir meco per cinque miglia: era costui un soldato forte come il diavolo. Partimmo verso l’ora in cui cantano i galli; la luna splendea come il mezzodì; arrivammo dov’erano de’ sepolcri, e là il mio uomo si mise ad invocar gli astri, intanto che io canticchiando numerava le stelle. Volto poi lo sguardo sopra di lui vidi che si era spogliato, e posti tutti i suoi abiti in mezzo alla strada. Io presi paura, e stavami come morto. Ma egli pisciò intorno a’ suoi abiti, e subito dopo convertissi in un lupo.

[p. 76 modifica]Non crediate ch’io scherzi; non direi una bugia per tutto l’oro del mondo. Ma per continuare il mio discorso, dopo che fu diventato lupo cominciò ad urlare e fuggì nei boschi. Io dapprima non sapeva dove io mi fossi: andai poi per levarne i vestiti, ma essi eran diventati di sasso. Chi morirà di paura, se io non morii? strinsi tuttavia la spada, e tagliai l’aria di qua e di là, tanto che giunsi al villaggio della mia bella. Appena fui entrato nella porta credei di basire; colavami il sudor pei calzoni, gli occhi erano tramortiti, appena insomma potei rinvenirmi. La mia Melissa maravigliavasi come io avessi viaggiato di siffatta ora; se tu fossi venuto prima, mi disse, mi avresti almanco aiutato: imperocchè egli venne un lupo nel paese, e peggio d’un macellaio ci ha svenato tutto il gregge. Pur sebben sia fuggito, ei non ha troppo a riderne, perchè il nostro famiglio gli ha passato con una lancia il collo da una parte all’altra. Quand’io sentii questa cosa i’ non potei più batter palpebra, ma venuta l’aurora me ne volai qui a casa del nostro ospite come un mercadante svaligiato e giunto al luogo, ove gli abiti eran divenuti di sasso, altro non vi ritrovai che sangue. Allora poi ch’io giunsi a casa, il mio soldato giaceva in letto come una bestia, e un chirurgo fasciavagli il collo. Seppi di poi ch’egli era stregone, e dopo quel dì non volli più mangiar pane con lui, quand’anche mi avesse ucciso. Nulla mi cale che altri tenga di ciò opinion diversa della mia: ma s’io dico bugia, voglio che gli Iddii vostri mi puniscano.

Questo racconto avendoci tutti storditi, Trimalcion disse: oltre che tu l’hai detto, egli dov’essere certissimo ciò che hai detto, e che mi ha fatto dirizzare i capegli, perch’io so che Nicerota non suole dir fandonie, anzi ch’egli è veritiero, e non fanfarone; diffatto io pure cosa orribile vo’ narrarvi, quanto orribil sarebbe un asino che volasse.

[p. 77 modifica]Essendo io ancor giovinetto (giacchè fin da ragazzo io menai vita deliziosa) un mio dolce amico morì. Egli era un gioiello, per bacco, garbatissimo, e di mille belle qualità. Intanto che la sua povera madre il piangea, e che molti di noi la stavam confortando, improvvisamente le streghe lo rapiron più presto che il cane non prosiegue la lepre. Avevamo fra noi un uomo di Cappadocia, lungo, assai temerario, e che avrebbesi preso a lottar con Giove fulminatore. Costui impugnato arditamente l’acciaro corse fuor dalla camera, avvolta sagacemente la man sinistra nel suo mantello, e ferì nel mezzo una strega, propriamente in questa parte, che il cielo mi tenga illesa. Udimmo un gemito, ma per dir vero nessuna vedemmo di costoro; rientrato poi il nostro campione buttossi sul letto, ed avea livido tutto il corpo, come dopo una flagellazione, e ciò senza dubbio perchè una mano infernale lo aveva toccato.

Noi, chiusa la porta, tornammo al piagnisteo, ma nell’atto che la madre si fe’ ad abbracciare il corpo del figliuol suo, tocca e vede un mucchio di lordure, in cui non vi era nè il cuor, nè le viscere, nè altro: perchè le streghe aveano di già involato il fanciullo, e messi in suo luogo que’ vuoti cenci. Ditemi in grazia: ei bisogna proprio crederlo: le donne ne sanno più di noi, le son maliarde, e mettono tutto co’ piedi insù. Del resto quel lungo valentuomo, dopo un tal fatto, non riacquistò mai più il suo colore, anzi di lì a pochi giorni morì frenetico.

Noi femmo le maraviglie, e d’accordo credemmo agli uditi prestigj, anzi baciata la mensa pregammo le streghe di rimanersene a casa loro, quando noi sortirem dal convito.

E a dir vero e’ pareami di già che molte lucerne splendessero, e che tutto il triclinio avesse cambiata figura, quando Trimalcione, rivoltosi a Plocrimo, gli disse: ebbene, Plocrimo, tu non dici nulla? tu non ci [p. 78 modifica]diverti in verun modo? pur solevi esser grazioso, cantar delle ariette, e recitar bellamente qualche squarcio drammatico. Ohimè ohimè! voi passaste, o bei tempi!

Ah sì, rispos’egli, i miei carri hanno compiuto il lor corso, ond’è ch’io son fatto gottoso: allorchè però io era giovane, divenni, cantando pressochè tisico. Che saltare? che recitar scene? che accomodar barbe? Appena Appellete potea starmi del paro.

Dopo ciò messo la mano alla bocca fischiò un certo qual suono, che poi disse esser di maniera greca: locchè affermò Trimalcione, dandosi ad imitare i flautisti, e volgendosi poi alla sua gioia, che chiamavasi Creso. Era costui un ragazzaccio cisposo, con sporcissimi denti, il qual volgea in una fascia color di porro una cagnuccia nera e grassa fino alla nausea, e ponea sopra il letto un mezzo pane, che le facea mangiare sino al vomito; della qual gentilezza Trimalcione avvedutosi ordinò che fosse condotto Scilace, che era il guardian della casa, e di tutta la famiglia. All’istante venne condotto un cane di grandissima mole, legato alla catena, cui il portiere ordinò con un calcio di sdraiarsi, ed egli si distese davanti la mensa. Allor Trimalcione gittandogli un pan bianco, non avvi, disse, nessuno in mia casa, che mi ami più di costui. Sdegnato il ragazzo ch’ei lodasse Scilace così sbracatamente, mise in terra la cagnuccia e l’aizzò contro lui. Scilace, secondo il costume cagnesco, empiè la sala di orrendi latrati, e stracciò quasi la Margarita di Creso. Nè a questa lite fermossi il rumore, perchè venne altresì rovesciata una lampada, di cui si ruppero i cristalli, e si sparse l’olio bollente addosso ad alcuno dei commensali.

Trimalcione per non parere in collera di questo accidente, baciò il ragazzo, e gli comandò di salirgli sulla schiena. Egli andò subito, e messoglisi cavalcioni gli batteva col palmo delle mani le spalle, e ridendo [p. 79 modifica]chiedevagli: conta, conta, quanti fanno? Trimalcione rimessosi per un poco, ordinò che si empiesse un gran fiasco, e si distribuisse a bevere a tutti gli schiavi, che sedevano a’ nostri piedi, con questa condizione; se alcun, disse, non vuol bevere, versagli il vin sul capo. E così or facea il severo ed ora il pazzo.

A queste famigliarità venner dietro gl’intingoli, la cui memoria vi giuro che mi fa stomaco. Poichè tutte quelle grasse galline erano contornate di tordi, con uova d’anitra ripiene, le quali Trimalcione ci pregò con orgoglio di mangiare, dicendo che le erano galline disossate.



Note

  1. [p. 300 modifica]Pretende qualche interprete che qui si alluda ad un uso invalso presso i grandi di tenersi l’unghia del dito mignolo della mano destra molto lunga, ciò che è assai indecente ai dì nostri, benchè taluno fra noi mantenga tuttavia questa pratica.
  2. [p. 300 modifica]Il testo dice: e quando io ho bevuto sugo di ceci; Proverbio romano.
  3. [p. 300 modifica]I Dei principali erano dai gentili ornati con barbe d’oro:
    Praecipui sunto, sitque illis aurea barba,


    dice Persio nella sat. 2, verso 58.

  4. [p. 300 modifica]Di bosso, dice il testo, per disprezzo. Parmi che l’ingiuria sentasi egualmente dicendo di paglia, e che l’intelligenza sia più rapida e alla portata. Sì la paglia che il bosso, hanno un color d’oro; a che vuol alludere il testo.
  5. [p. 300 modifica]Cioè: guardimi dai ladri, qual è costui, che sino gli anelli che porta, rubò all’amica sua.
  6. [p. 300 modifica]Cioè nemmen vino nuovo, non che buon vino, o vecchio.
  7. [p. 301 modifica]Sorta di comici, che recitavano lunghi squarci de’ poemi di Omero per divertire la brigata. Ateneo al capo 3, lib. 14, come avverte Nodot, li chiama Rhapsodi, donde la voce Rapsodia.
  8. [p. 301 modifica]Aggiugni questa storiella a quella della Sibilla nell’ampolla, di Annibale sotto a Troia, dei figliuoli di Cassandra, ecc., di cui Trimalcione ha regalata eruditamente la compagnia.
  9. [p. 301 modifica]Lo zafferano serviva presso i Romani ad uso dei sacri riti, presso a poco come l’incenso presso noi. Sacro per conseguenza tenevasi ciò che di zafferano era condito o asperso.
  10. [p. 301 modifica]Questa ghirlanda o altro ornamento d’onore che appendevasi alle statue degli Dii, e principalmente de’ Penati, ond’eran detti bullati, è pur accennata da Persio, nella sat. 5.