Signorine povere/Seconda parte/IX

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IX

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IX.

Paolo Venturi lasciò presto quella gaia conversazione. Aveva fatto già uno sforzo rimanendovi ancora, dopo che Antonietta rifiutava così risolutamente la direzione del periodico, che egli voleva fondare per lei. Quel rifiuto aveva riaperte tutte le vecchie ferite del suo cuore; e una nuova glie ne aveva fatta più crudele delle altre. Da gran tempo egli non si era sentito affranto ed avvilito come quella sera. Dacchè aveva rinunciato ad ogni speranza d’amore, egli si trovava nelle condizioni di un naufrago rifugiato sopra uno scoglio. Lo scoglio è arido, deserto: l’infelice vi perirà forse di freddo e di fame; non importa; intanto riposa, e dopo l’aspra lotta che lo ha spossato, il riposo è l’unico bene per lui. Ma neppure ciò gli è concesso. Un’ondata furibonda sommerge lo scoglio, ed il misero naufrago deve ricominciare la disperata battaglia.

Così Paolo credeva di aver conquistata la pace dell’anima a forza di rinuncie, e la pace gli era negata. Tutti i suoi sforzi fallivano. Le più pure intenzioni non gli giovavano; pareva [p. 276 modifica]quasi che una persecuzione del destino trasformasse in male il bene che egli voleva fare. Per la sua intromissione presso la signora Arquati, Antonietta aveva dovuto lasciare la casa dei suoi zii, dove viveva nell’agiatezza e, salvo alcune piccole contrarietà, assai tranquilla. Ed altri acuti dispiaceri egli le aveva attirati con la sua smania di vederla felice. Dolente di tale insuccesso e bramoso di ripararvi in qualche modo, gli era parsa una bella trovata quella di fondare una rivista letteraria, della quale avrebbe offerta all’Antonietta la direzione. Gli pareva impossibile ch’ella non dovesse accettare. Colta, intelligente, dotata d’ingegno vivace e battagliero, aveva tutte le qualità per riescire nelle lettere, specialmente nel giornalismo. Assistita da lui e resa indipendente mediante lo stipendio di direttrice che intendeva di fissarle, ella poteva farsi conoscere in poco tempo dal pubblico che legge e prepararsi una discreta carriera. Con questo bel sogno egli si era recato quella sera in casa Valmeroni, non sospettando neppure che il suo sogno dovesse essere così miseramente distrutto.

— Prova d’ingenuità e di superficialità imperdonabile! — pensava egli ora. — Conoscendo il carattere fiero, energico e la modestia di Antonietta, dovevo prevedere il rifiuto. Era naturale ch’ella non volesse da me quella specie di risarcimento. [p. 277 modifica]

E poi, e poi... oh! egli era ben fanciullo ancora!... Non solo per fierezza di carattere e perchè nella sua modestia non si credeva capace di dirigere un giornale, non solo per queste ragioni abbastanza palesi, Antonietta rifiutava. Ella aveva nell’intimo del cuore un altro più possente motivo; non voleva nulla da lui, perchè sapeva ch’egli l’amava e temeva d’impegnarsi, e di non poterlo respingere, il giorno in cui egli le parlasse d’amore, essendo vincolata dalla gratitudine. Lo credeva dunque capace di comportarsi così indegnamente con lei?... Di chiederle il prezzo del suo beneficio?...

Ah! povera Antonietta, come non lo conosceva! Ma lui, perchè si era lasciato scorgere?

Perchè non aveva saputo custodire il proprio segreto? Ogni diffidenza veniva in lei dal sapere ch’egli l’amava.

Questo pensiero l’opprimeva. Aveva tanto sofferto per quella creatura, che gli pareva di avere acquistato il diritto di vegliare su di lei, di assisterla, di consigliarla. Il dolore aveva santificato il suo affetto.

Ed ella forse l’odiava. Non avrebbe fatto meglio a non occuparsi più di lei? Fuggirla: non vederla più. Ecco ciò che egli avrebbe dovuto fare.

E poi?... L’avrebbe amata egualmente.

„Non l’abbandonerò mai. Anche respinto veglierò su lei; a sua insaputa cercherò di [p. 278 modifica]esserle utile. Solo in questa dolce protezione troverò un sollievo ai mici mali.“

Dalla finestra della sua camera a Vl Hotel Cavour, dov’era alloggiato, sentiva il canto delizioso di un usignolo che esalava la sua pena d’amore; e fino a lui saliva il profumo dei giardini. Gli pareva che tutta la natura s’abbandonasse all’amore, alla voluttà, e che a lui solo fosse negata la divina ebbrezza. Nessuna donna l’amava perchè egli era tale che nessuna donna poteva pensare all’amore guardandolo. La natura che dispensa tante bellezze e tanto fascino alle sue creature, non aveva dato a lui altro che l’intelligenza in un corpo tozzo e privo di ogni attrattiva. Poteva tenersi anche l’intelligenza! Solo il genio avrebbe potuto consolarlo: forse, neppure il genio. E pensava a Leopardi e al canto di Saffo. Brutto! Egli era dannato ad ubbriacarsi sozzamente con l’amore che si vende a un tanto all’ora. E se il suo cuore ne soffriva, se la sua anima aveva aspirazioni più alte, soffrisse in pace; non esisteva alcun rimedio per il suo male: neppure un briciolo di pietà.

„Chi non è pronto a ridere di un uomo brutto, tozzo e sentimentale? Perfino Leopardi fece ridere le belle donne che egli volle amare; solo i suoi canti immortali poterono commuovere le anime innamorate di quelle che non l’avevano conosciuto. Che posso sperare io?... Nulla. [p. 279 modifica]Quanto più è intensa la passione che mi strugge, tanto più sarò ridicolo. Io devo percorrere un’altra via. L’ideale che io posso raggiungere è più alto“. Molte volte egli si era inerpicato per quella via aspra e brulla; e dopo breve tratto era caduto e scivolato al basso.

Ripensandovi, aveva vergogna di sè. L’abbattimento morale lo schiacciava, quella sera, come rare volte. Anche le forze fisiche lo abbandonavano.

Stanco, sfinito, si buttò sul divano che era a piè del letto e vi rimase assopito. Poi la coscienza lo abbandonò: il sonno ebbe pietà di lui. Dormì fino all’alba.

Svegliatosi, si sentì riconfortato, calmo, quasi sereno. Nel cielo bianco qualche stella brillava ancora. Subito, Paolo si rammentò che doveva fare una visita al cimitero dov’era sepolta sua madre, morta a Milano di tisi fulminante dopo una festa, nella quale forse aveva troppo ballato.

Varie commissioni di una parente e dell’avvocato Pagliardi l’avrebbero occupato poi per alcune ore.

Al giornale non c’era più da pensare, poichè Antonietta non ne voleva sapere: avrebbe cercato altro. Il progetto della Cooperativa agricola poteva forse condurlo ugualmente alla meta più vivamente desiderata: essere utile ai Valmeroni, per fare, indirettamente, almeno, il bene di Antonietta. [p. 280 modifica]

Alle cinque uscì, incamminandosi verso il cimitero. Subito i suoi pensieri si rivolsero al passato e i ricordi giovanili e i vaghi, nebbiosi, dolcissimi ricordi dell’infanzia gli sgorgarono dal cuore. Rivide la sua giovane mamma, sempre allegra e sorridente, amante degli svaghi, ma buona, tenera, affettuosissima. Certo era la tetraggine della sua casa che la spingeva fuori, alle passeggiate, alle feste, in cerca di distrazioni.

Paolo ricordava troppo bene cosa era stata la sua casa sotto la direzione fredda, compassata della nonna paterna, una donna orgogliosa e arcigna, che non poteva soffrire la nuora. In quella casa, fin da ragazzo, guidato dalla precoce intelligenza, egli aveva penetrato ciò che vi ha di falso in certi sistemi famigliari. Là nella casa paterna, egli aveva sentito pesare sulla sua piccola anima la fatale ipocrisia, i feroci egoismi, le prepotenze appena larvate che si accompagnano abbastanza spesso alle massime di alta morale, al severo principio di autorità. Egli aveva riconosciuto in suo padre un onesto tiranno, convinto di valersi d’un sacro diritto, mentre imponeva ai famigliari la sua prepotente volontà e la implacabile sordidezza del suo animo; in sua nonna, uno spirito orgoglioso che si ricattava in vecchiaia delle mortificazioni patite in gioventù. Se pure non era stata una santa, sua madre gli appariva la più simpatica. Compressa nel suo temperamento esuberante, [p. 281 modifica]misconosciuta nel suo ingegno, delusa nelle sue aspettazioni più legittime, ella si era ribellata appartandosi, cercando distrazioni a tutti i costi in compenso della felicità di cui Pavè vano defraudata. Ed egli l’adorava da morta come da viva. Ella almeno aveva amato la vita mentre suo marito e sua suocera non amavano che il denaro e il potere. E pensava:

„Che pazzia, tormentarsi a quel modo e tormentare una creatura delicata e bella per ammucchiare del denaro. Ora sono tutti morti, e il denaro è mio, e io non so che farmene. Non una delle mie pene può essere sanata dal denaro che costò tanto travaglio e tante lagrime.“

Poco lungi dalla tomba di sua madre, Paolo vide una tomba tutta coperta di fiori e una giovine donna inginocchiata sul marmo. Ella era vestita a bruno e piangeva dirottamente.

— Ecco un altro dolore — pensò il giovine, allontanandosi rispettosamente. Lo afferrò subito quello che gli appariva il più grande problema e il più terribile incubo per tutti quelli che si amano sulla terra: l’eterna separazione. Non gli pareva possibile che un cuore amante si rassegnasse alla crudele sentenza. — E in realtà — egli si diceva — nessuno si rassegna. Da qui il potere delle religioni che fondano la loro fortuna sulla tenerezza del nostro cuore, per dominarci come fanciulli.

Più d’una volta egli aveva pensato che tra i [p. 282 modifica]più grandi bisogni dell’umanità era il bisogno di una fede nuova: di una fede fondata dalla scienza, scevra di fantastiche tradizioni e senza ministri interessati a mantenere gli animi sottomessi. Una religione senza terrori, la religione della vita e della natura.

Con questi pensieri egli si allontanò dalla tomba di sua madre e si avvicinò al Famedio. Salì la gradinata e si assise sul parapetto della terrazza.

Il sole era ormai alto e tutto il cielo brillava del suo splendore. Si presentiva una giornata torrida, sebbene l’aria mattutina mantenesse ancora una dolce frescura.

Egli alzò gli occhi e spaziò lungamente lo sguardo per l’infinito. Una benefica calma era entrata nel suo cuore; una serenità dolce, soffusa di tenera tristezza, dominava il suo pensiero. Non diverso dev’essere lo stato d’animo del saggio nel suo perfetto equilibrio. Tutto a un tratto, egli fu preso da un tremito e pronunciò parole che gli parvero suggerite:

— In questo istante mia madre è forse qui vicino a me.

Ritornò allora, come tante volte, sul ricordo di una lezione del geniale scienziato Tito Vignoli che tanto l’aveva impressionato. In quella lezione il maestro parlava della formazione della vita e quindi della coscienza della vita, e pure affermando che nulla vi ha in essa di [p. 283 modifica]sopranaturale, dichiarava non impossibile, non ripugnante alla scienza che una volta formata (dall’unione dell’intima essenza dei quattro corpi semplici che sono i principali fattori della vita) questa nostra coscienza duri anche eterna.

Quanti pensieri avevano destato nel giovine studente le parole del maestro! Subito dopo la lezione aveva fatto una lunga passeggiata, solo, per vie remote, fantasticando su quella possibilità scientifica di una coscienza immortale. Glie ne era rimasto un ricordo indelebile, il quale aveva avuto poi un potere determinante su tutte le sue azioni. La coscienza immortale, e i pianeti del nostro sistema e le innumerevoli stelle, tanto lontane da noi, popolate secondo ogni probabilità da creature viventi, se non uguali a noi, forse somiglianti, avevano aperto al volo della sua fantasia un campo sterminato, un soggetto inesauribile.

Spirito sereno e positivo, incapace di accettare le favolose leggende e la parte tetra e sanguinaria delle tradizioni, ma anelante a cose alte e trascendenti per la loro grandezza, egli seguiva con entusiasmo le indagini, le intuizioni, le divinazioni dei grandi spiriti. La scienza era il suo dio. E rideva di quei piccoli spiriti, i quali ripetono a sazietà che la scienza chiude il varco ai bei sogni e distrugge la poesia. La superficiale e vana poesia, certo, doveva sparire davanti alla scienza, ma per cedere il posto ad [p. 284 modifica]una poesia più grandiosa e più vera. Se la coscienza della vita perdurava eterna, doveva necessariamente purificarsi nella meditazione, doveva elevarsi, svolgendosi in un graduale perfezionamento. E perchè non potrebbe rivestire altre forme e rivivere in altri corpi e forse in altri mondi? Dolce era per lui questo sogno che gli concedeva la speranza d’una esistenza meno dolorosa. Egli, per altro, non era uomo da indugiarsi nel sogno ozioso di un bene esclusivamente personale.

Il suo intelletto altamente pratico pensava già all’utilità immediata, universale, che un grande sociologo legislatore avrebbe potuto trarre dalle nuove induzioni della scienza antropologica, completando con esse una religione umanitaria e scientifica sola capace di pacificare e di affratellare i popoli.

— Di fronte alla morte di una creatura amata — egli si diceva — tutti gli uomini si sentono deboli e la sola idea di una separazione eterna è per noi intollerabile; molti possono reagire contro la minaccia dei castighi dell’inferno; si può anzi affermare che solo gli ignorantissimi vi credono veramente; ma quasi tutti, perfino i più forti, e i più illuminati, invocano almeno una speranza nell’ora fatale dell’ultima separazione. Se la scienza non contraddice più questa ineffabile speranza, la religione scientifica umanitaria può dirsi sicura del suo trionfo. [p. 285 modifica]Strettamente legata alle teorie socialiste, delle quali dovrebbe essere l’anima e la poesia, questa religione potrà da sè sola rivoluzionare il mondo e mutare la faccia delle cose. Ed è evidente che i popoli l’attendono. Non per nulla le anime ingenue e le intensamente pensose si interessano a tutto ciò che riconduce il nostro pensiero a Gesù e ai primi periodi del cristianesimo; non è già un ritorno all’antico, non un rifiorire di cose morte, come taluni credono; è piuttosto la simpatia naturale istintiva della situazione nostra con una situazione analoga. Allora, in quel buio di schiavitù sotto al peso insolente di una società ebbra di fasto e di gozzoviglie, una grande cosa si maturava: ora, sotto l’impero dei cannoni e l’onnipotenza dell’oro, se ne prepara una grandissima, che potrà sembrare la concretazione reale, scientifica dei sogni ardenti di allora. Ma quando, dove, come si effettueranno questi fatti?... E poi? Sarà ancora una delusione? Le speranze di tante anime saranno ancora derise? Il sacrificio di tante vite — e chi sa quante saranno! — verrà ancora sfruttato dai farisei, dai traditori, dagli egoisti e dagli scribi?... No, se l’amore universale camminerà d’accordo con la scienza... E’ forse un sogno questo accordo sublime? M’illudo io forse come un fanciullo?...»

Egli si era levato in piedi dominato da una grande commozione, ed i suoi occhi pieni di [p. 286 modifica]scientille spaziavano pel cielo e sulla terra, tra i sepolcri, quasi interrogando le vive e le morte cose.

Speranza folle, divinatrice intuizione, vittoria santa o eroica sconfìtta, qualunque dovesse essere l’esito definitivo della suprema battaglia, se essa avveniva mentre egli era ancora presente sulla terra, voleva battersi nelle prime file. E se la grande battaglia era ancora lontana, egli voleva essere tra quelli che la preparavano. O se, per una fortunata combinazione di cause, l’evoluzione si doveva compiere senza martiri e senza vendette, egli voleva dare tutta la propria energia per affrettare quella evoluzione.

Non aveva più incertezze, nè dubbi. Il suo breve cammino sulla terra era tracciato sicuramente, come la eterna via luminosa dal grande astro lassù.

Si mosse. Entrò sotto la vòlta del Famedio, girò tutto intorno, guardando i busti degli illustri cittadini ivi raccolti; e la grande eccitazione dell’animo gli faceva pensare che egli pure potrebbe essere un giorno tra quei grandi.

Discese la gradinata, ritornò alla tomba di sua madre per darle un ultimo saluto. Poi si incamminò verso l’uscita. Non gli pareva quasi più di essere il medesimo uomo che era entrato in quel recinto qualche ora prima. Non aveva più dolori suoi personali, nè gioie: ma una gran fiamma d’amore e d’entusiasmo gli scaldava il petto.