Sino al confine/Parte II/Capitolo I

Da Wikisource.
../../Parte I/Capitolo III

../Capitolo II IncludiIntestazione 11 luglio 2016 100% Da definire

Parte I - Capitolo III Parte II - Capitolo II
[p. 68 modifica]

PARTE SECONDA.


I.


Dopo la morte del signor Sulis la casa diventò più triste di un convento. Il lutto doveva essere rigidamente osservato almeno per due anni, e durante i primi sei mesi le finestre verso strada dovevano restare chiuse. Gavina si consumava di tristezza. Ella aveva veduto suo padre morto; pallida e ansante s’era curvata sul viso calmo di lui, guardando entro quegli occhi glauchi socchiusi, come entro un luogo misterioso, un lago vitreo senza luce nè moto; e aveva avuto l’impressione che quello spazio immobile e freddo fosse, non l’abisso della morte, del nulla, ma l’abisso della vita. Ecco, tutto finiva così! Suo padre, che ieri ancora sorrideva e scherzava, adesso stava immobile e muto per tutta l’eternità. Che cos’è la vita umana! Un volo d’uccello. Ed ella andò ad appoggiarsi ai vetri della finestra chiusa, e pianse pensando che ella, col suo peccato, aveva forse affrettato la morte di suo padre. [p. 69 modifica]

Con tutto questo, non solo non si ribellava al Dio vendicatore che la castigava in modo così crudele, ma lo adorava col terrore e l’ammirazione primitiva dei selvaggi per tutto ciò che è forza distruggitrice. La morte di suo padre, avvenuta in quella circostanza, fu per l’anima di lei come uno di quegli uragani estivi che purificano l’aria ma devastano i giardini. La piccola anima si fece pura ed arida come una cima alpina. Ella non pensò più a Priamo che per procurarsi la triste voluttà di scacciare questo pensiero; e mentre trasaliva ogni volta che vedeva Michela, per paura che l’amica le portasse una lettera, desiderava di ricevere questa lettera per lacerarla senza leggerla. La solita preghiera — Dio fatemi soffrire — diventò in lei una specie di idea fissa.

Ogni tanto si esaminava se soffriva davvero, e le pareva di non soffrir mai abbastanza. Fu così che si sviluppò in lei, spontaneamente, una forza d’analisi sempre più acuta.

Otto giorni erano passati, dopo la morte del signor Sulis, e ancora la vedova, imbacuccata in uno scialle nero, seduta in un angolo della saletta ove un soffio di morte pareva avesse spento anche la luce, riceveva le barbare visite di condoglianza.

Tutti ripetevano:

— Pazienza! siamo nati per morire!

E la vedova, immobile, pallida, non piangeva, non parlava più, quasi che a forza di [p. 70 modifica]sentirselo dire si fosse ormai convinta che bisogna vivere pazientemente solo per aspettar la morte.

Accanto a lei stava Luca, vestito di nero, grasso, cascante, con gli occhi spalancati, simile ad un vecchio di sessant’anni. Anche Gavina sedeva nell’angolo fra la «console» e il divano, ma la gente che passava nella saletta semibuia come in una strada lugubre pronunziando parole di morte, non badava a lei.

Passarono tutti i borghesi della piccola città, i ricchi paesani, i preti, i canonici; il canonico Felix fu l’unico a parlare di vita.

— Signora Zoseppa, coraggio! Vede, i suoi figli le fanno compagnia, e hanno bisogno di lei. Sono giovani, la vita li attende; sì, hanno proprio bisogno di lei.

Ma poi venne il canonico Bellìa, accigliato, funebre, ad occhi bassi:

— Siamo nati per morire. Tutto muore, quaggiù: è destino; e noi siamo polvere che il vento disperde....

E Gavina si ripiegò su sè stessa come urlata dal vento funebre di cui parlava il suo confessore. Nella saletta la penombra si addensava, e sulla «console» anche la Venere pareva triste, convertitasi davvero in una melanconica Madonna.

Intanto in cantina zio Sorighe e il servo rimettevano il mosto nelle botti, procurando di non far rumore. Al vecchio rincresceva [p. 71 modifica]molto di non poter canticchiare, ma qualche verso di tanto in tanto lo borbottava; all’imbuto rivolse questo complimento!

Non bi at imbriagolu in custu mundu,
chi biat cantu a tie in d’unu die....1

Paska piangeva, ma sorvegliava i due servi, perchè in cantina c’era una botte ancora piena di vino vecchio, — e osservava una cosa strana. Luca scendeva di tanto in tanto in cantina, in punta di piedi, s’avvicinava alla botte, si curvava per aprire la cannella; ma poi, come colto da un terrore improvviso, si allontanava ed usciva senza aver bevuto.

Una sera il canonico Sulis, dopo aver conferito colla vedova del fratello, chiamò Gavina e Luca e disse loro:

— Vostro padre è vissuto onoratamente, lavorando per voi. Ora tocca a voi onorare la sua memoria. Egli non ha scritto il suo testamento, ma voi sapete che i suoi beni appartengono tanto a voi che a vostra madre. Ella continuerà ad essere la padrona, qui. Che ne dite? Parla tu, Gavina!

— Sì, sì! Lei è la padrona!

— E tu, Luca? Parla!

E Luca parlò, commosso e piangente:

— Sì, sì, ella sarà sempre la padrona! Io obbedirò ad ogni suo cenno. Anch’io vivirò [p. 72 modifica]onestamente, come mio padre, lavorerò, sarò un figlio rispettoso....

Gavina non credette ad una sola di queste parole e vedendo il canonico Sulis con le lagrime agli occhi ne provò stizza; ma per non turbare la scena commovente si alzò ed usci nell’orto, ove poco dopo la raggiunse Michela.

— Non sai, non sai che mi è accaduto? Priamo Felix voleva darmi una lettera per te....

— Tu l’hai presa.... tu?... — domandò Gavina, pallidissima. — No, no, vero? Guai a te, se osi tanto, guai, guai. Egli è pazzo....

— Ma se insiste, che devo dirgli?

— Che io.... che io.... non voglio sentir parlar di lui, nè di altri.... di nessuno, di nessuno! Io sono come morta per lui.... per tutti....

L’indomani zio Sorighe preparò la sua bisaccia per partire; andò a salutare il canonico Felix, si congedò dalla sua padrona, e dopo aversi caricato la bisaccia sulle spalle disse:

— Coraggio, signora Zoseppa! «Egli» ora è più felice di noi. Egli è arrivato, mentre noi camminiamo ancora.

Domandò di Gavina, e saputo che era nell’orto a inaffiare i crisantemi che ella coltivava con cura per farne corone da deporre sulla tomba di suo padre, andò a salutarla.

— «Dami sa manu, bellita, bellita....». [p. 73 modifica]

— Voi partite? Buon viaggio, — ella rispose, e non sorrise, non lo guardò. Egli se ne andò, con la sua bisaccia sulla spalla come un pellegrino.

Un momento dopo, mentre andava a prendere l’acqua dal pozzo ella vide per terra una lettera chiusa, senza dubbio smarrita da zio Sorighe. Si curvò, prese la lettera e impallidì; era diretta a lei; ed ella riconobbe la calligrafia di Priamo. Sulle prime provò un impeto di rabbia contro zio Sorighe, ma ad un tratto la sua collera svanì per dar luogo ad una cupa tristezza. Che fare, che fare? La lettera le bruciava le dita; ella sentiva un acerbo desiderio di aprirla, ma aveva già tanta potenza su sè stessa che non solo vinceva il suo desiderio, ma lo esaminava crudelmente. Bisognava rimandare la lettera; ma come? pensò a Michela, indi respinse con sdegno questo pensiero.

Rimase a lungo pensierosa ed inquieta; la sera cadeva, tiepida e vaporosa e con l’odore delle erbe secche, dei crisantemi umidi, saliva come un vapore di ricordi. Verso quell’ora, tutti i giorni, ella pensava a suo padre morto e pregava per lui; e anche quella sera cominciò la sua interminabile fila di «requiem aeternam» ma si accorse di non pregare con abbastanza raccoglimento. Pensava sempre alla lettera, e ad un tratto si accorse con dolore che il suo desiderio di leggerla diventava sempre [p. 74 modifica]più intenso; allora cadde in ginocchio sbigottita e la solita preghiera le salì alle labbra:

— Dio mio, perdono: Dio mio, fatemi soffrire! Così, così, fatemi soffrire!

E decise di conservar la lettera, di tenerla sul petto come un cilizio, per tormentarsi col desiderio di leggerla e vincere questo suo desiderio.



Veniva l’autunno, e la vita in casa Sulis diventava triste come la stagione. Finchè il sole di ottobre battè sull’orto, il suo riflesso illuminò le stanze melanconiche; poi tutto fu ombra, desolazione. Il giorno dei morti la vedova e Paska, che parlavano continuamente del caro scomparso, piansero come se egli fosse morto poche ore prima; eppure fu proprio in quel giorno che Gavina sorprese di nuovo Luca in agguato presso il guardaroba. Egli, che in tutto quel tempo non aveva più bevuto, quasi avesse ancora paura di suo padre, ricadeva nel suo vizio; e Gavina, pensando che non era il caso di ricorrere a sua madre, gli si avvicinò e lo guardò con occhi selvaggi.

— Vergognati! Via, via di qui; va via subito o la farai con me. Proprio oggi vuoi ubriacarti? Così onori la memoria di nostro padre? Ti farò cacciar via di casa....

— Tu, asina? È tua questa casa? [p. 75 modifica]

— È mia! È mia! Mettiti bene in mente che d’ora in avanti voglio essere io la padrona, qui! Ricordatelo.

— La padrona è nostra madre. Tu hai promesso....

— E tu, tu, che cosa hai promesso, miserabile? — ella disse minacciandolo coi pugni. Hai promesso di rovinarti e rovinarci? Ma io non lo permetterò, capisci, non lo permetterò mai.... mai! Piuttosto ti farò morire di rabbia, ti caccerò via di casa. Vattene, hai capito, sì o no? Non senti come piange quella disgraziata, non senti?

Infatti si udiva la signora Zoseppa singhiozzare, in cucina. Luca rinculò e tacque, colpito dal dolore di sua madre, e per qualche tempo parve ridiventare saggio o almeno animato da buoni propositi.

— Arriverà un giorno in cui tutti quanti voi, che ora mi tormentate pretendendo di guidarmi come un bimbo, mi rispetterete come padrone — diceva a Paska. — Vedrai, vedrai! Se mi riesce un progetto guadagnerò in una settimana ciò che tu non hai guadagnato in quarant’anni!...

— E Dio ti esaudisca! — rispondeva Paska convinta. — Il talento ce l’hai; così tu avessi un po’ di buona volontà!...

Ma i giorni passavano ed egli non metteva in esecuzione il suo progetto: accoccolato accanto al fuoco come una donnicciuola, si [p. 76 modifica]contentava di brontolare contro Paska e contro il servo lontano.

Un giorno, in dicembre, il canonico Felix e suo nipote fecero visita alla vedova Sulis, e mentre lo zio diceva, col suo placido riso: «ah, ah, oggi non ho veduto neppure una signora col ventaglio!» Priamo si guardava attorno con occhi foschi, aspettando Gavina che non compariva.

E l’inverno s’inoltrò, coi suoi venti feroci e le sue nevi silenziose; le montagne ne furono tutte coperte, ed anche le più lontane apparvero vicine, bianche sul cielo turchino come nuvole primaverili, o confuse fra nubi mostruose. Qualche notte la luna sorgeva dalle cime nevose, fredda e pura come se fosse stata a lungo sepolta fra la neve, e tutto il paesaggio sembrava di marmo argenteo, destinato a rimanere eternamente così. Nell’orto emergevano soltanto le cime dei cespugli, simili a strani fiori neri sbocciati sulla neve cristallina. Gavina guardava dai vetri, prima di coricarsi, e pensava a suo padre, che doveva aver freddo, laggiù, nel piccolo cimitero alle falde della montagna: e una tristezza morbosa l’assaliva, ma spesso si esaltava, pensava alla morte, a Dio, contenta di soffrire, e la sua anima rifletteva la purezza fredda e desolata della notte nevosa.

Ma al principio della primavera le finestre furono riaperte ed ella potè uscire di casa. [p. 77 modifica]Andò in chiesa, si confessò, espresse al canonico Bellia il suo desiderio di farsi monaca; ma con grande stupore sentì che egli la sconsigliava, imponendole di rimanere presso sua madre.

— Quale miglior chiostro della vostra casa? Andate in pace, non pensate più a queste cose, figlia mia!

La sera del giovedì santo, sei mesi dopo la morte di suo padre, Gavina, in compagnia di Michela andò alla processione del Cristo morto.

Sopra il lento ondeggiare della folla la Madonna che andava in cerca del figliuolo defunto s’ergeva nera sul cielo glauco, con le sette spade scintillanti sul petto e il viso pallido come il viso della luna. La folla mormorava una cantilena triste e monotona, simile a un ronzìo d’api improvvisamente uscite dagli alveari nel silenzio della sera.

Gavina, che procedeva da un gruppo di ragazze non tutte mistiche come lei, e che anzi si lasciavano guardare ed anche toccare da qualche studentello ardito, sentì qualcuno mormorarle all’orecchio:

Oh, dolce nella tiepida
Sera d’april vagare
Al fianco tuo.... Gavina....

Ella si volse di scatto, selvaggia:

— E la finisca, stupido! [p. 78 modifica]

I suoi occhi luminosi di sdegno s’incontrarono con gli occhi intelligenti e lieti dell’inquilino di Michela; ed egli, invece di offendersi, le sorrise. Pareva ubbriaco: ubbriaco di gioia, di poesia, di giovinezza; e Gavina si stizzì con Michela, quasi facendole colpa di ricoverare in casa sua un ragazzo tanto sfacciato ed insolente.

— Dopo tutto egli diventerà un grand’uomo, forse un deputato. I suoi professori dicono che non hanno mai avuto uno scolaro così di genio.... E poi fa anche delle belle poesie — disse Michela, per difendersi.

— Anche zio Sorighe è poeta! — ribattè Gavina con disprezzo. — Del resto, buono o cattivo, io non voglio che egli faccia lo spasimante. Tanto io non prenderò mai marito.

— Anch’io....

Questo proponimento delle due ragazze venne risaputo, e nella piazzetta, ove la zia Itria, con grave rammarico della signora Zoseppa, aveva riunito di nuovo intorno a sè il circolo dei giovinastri, se ne parlava spesso con ironia.

Anche la vedova maldicente, visto che il signor Sulis non poteva più ascoltarla, andò a far parte del famoso circolo; s’udirono allora certe belle discussioni tra lei e il reduce. Entrambi frequentavano le udienze della Corte d’Assise, e tutte le sere ne discutevano, difendendo od accusando i delinquenti di cui si [p. 79 modifica]svolgeva il processo, ripetendo i discorsi degli avvocati difensori e le requisitorie del pubblico ministero.

Quando la discussione degenerava in battibecco, la zia Itria batteva le mani e canticchiava una canzonetta che faceva ridere tutto l’uditorio!

Adamo capo stipite
Della famiglia umana
Per causa di una femmina
Perdè la tramontana....

Anche Luca, tanto cattivo e accigliato in casa, si divertiva alle riunioni della zia Itria. Il nano e l’ex-frate lo prendevano in giro e gli domandavano continuamente denaro in prestito: egli non ne aveva, ma parlava spesso del suo misterioso progetto che, una volta messo in esecuzione, doveva renderlo milionario. Vi fu un tempo in cui i due calzolai riuscirono a convincerlo d’accompagnarli in America, ove il nano voleva esporsi come «un fenomeno». Il progetto abortì per mancanza di denari. Allora l’ex-frate suggerì a Luca l’idea di farsi dare la sua parte dei beni paterni, e Luca ne parlò a Paska, che si mise a piangere e lo trattò da pazzo.

— È certamente malato — diceva Paska alla padrona. — Osservi bene: egli comincia a bere col crescer della luna, e non la smette fino a luna calante. Allora par che ritorni in sè: fa buoni propositi, sinceramente [p. 80 modifica]pentito, ma ricomincia quando la luna nuova riapparisce in cielo.

La signora Zoseppa propendeva a credere alla scoperta di Paska: ella che non scusava i vizi del prossimo non poteva non scusare quelli di suo figlio. Ma egli non si contentava di questo, e diceva a Paska

— Voi tutte mi odiate; ve lo leggo negli occhi. Vorreste che morissi. Ma me ne andrò, da questa casa: appena avrò la mia parte me ne andrò, e diventerò così ricco che non ti guarderò più in faccia.

— Dio ti esaudisca!

Un giorno egli scomparve davvero. La madre, disperata, mandò il padre di Michela a cercarlo nella vigna, ma a notte alta il contadino non era ancora tornato; e dal canto suo Michela, inquieta per suo padre, si fece accompagnare da Francesco e dalla vedova Fais e andò in casa Sulis per domandare notizie.

La signora Zoseppa e la serva, sedute nel cortile, piangevano come se Luca fosse morto.

— Ah, conosco anch’io queste ore! — disse la Fais, e sedette per terra, con gli occhi ancora pieni del terrore di un’attesa disperata.

I ragazzi uscirono nell’orto in cerca di Gavina. Era la prima volta che Francesco entrava in quella casa, in quell’orto del quale egli vedeva l’elce dallo stradale della valle; e nell'avvicinarsi all’albero illuminato dalla luna, e al cui tronco si appoggiava la figura [p. 81 modifica]nera nella fanciulla, non cercava di nascondere il suo turbamento. Tutt’altro che desolata per l’assenza di Luca Gavina disse ridendo:

— Che cercate qui? Oh, ladri?

Francesco rise, ma con le labbra tremanti, e senza chieder permesso si arrampicò sul muro e si guardò attorno: il piccolo orto bianco di luna gli pareva un giardino incantato.

— Michela, mi pare di veder tuo padre nello stradale!

— Che occhi di lince! — rispose Gavina. — Ma se zio Bustiano è dall’altra parte!...

— Francesco stanotte ha le traveggole! — disse Michela, urtandola col gomito; ed entrambe cominciarono a beffarsi di lui, finché non s’udì davvero la voce del contadino.

— Luca s’è chiuso nella casetta della vigna, e fabbrica fuochi artificiali! S’è impegnato di fornire i fuochi per la festa della Madonna della Neve. Verrà compensato, e spera di proseguire la «carriera» e di faro molti denari! Non son riuscito a convincerlo di ritornare in paese; ma forse è meglio così; lavorare non nuoce.

— Quale degradazione! Egli è diventato pazzo del tutto! — disse Gavina con dolore; poi si pentì di aver parlato così in presenza dei Fais ed aggiunse con orgoglio: — egli fabbricherà i fuochi per divertirsi; non ha bisogno di fare quel mestiere lì. [p. 82 modifica]

— Non è poi un mestiere disonorante! — rispose Francesco. — La pirotecnia è un’arte difficile e quasi poetica. Si direbbe l’arte di fabbricare.... le stelle!

— E allora vada a fare il pirotecnico, lei!

— E perché no? Se fossi ricco lo farei; anzi vorrei essere io stesso un razzo! — egli rimbeccò, guardandola negli occhi. — Sembrare una stella.... almeno per un momento!

— Ma perchè? — domandò Michela

— Per esser guardato!...

— Almeno por un momento.... — aggiunse Gavina.

Ed egli ripetè!

— Sì, sì, almeno per un momento!

L’indomani Gavina ricevette per la posta una cartolina su cui, con bella calligrafia, erano scritti alcuni versi intitolati «Il razzo». Il poeta anonimo ripeteva le stesse cose dette da Francesco Fais la notte prima; ella però non si commosse.

Luca intanto, chiuso nella casetta della vigna, continuava a lavorare, e i pastorelli sperduti nelle brughiere intorno aspettavano con ansia la sera por godersi l’insolito spettacolo dei razzi che egli accendeva e che attraversavano il cielo glauco simili a comete e a meteore luminose.

Ma due giorni prima della festa un grosso razzo gli scoppiò fra le mani: egli cadde svenuto, col viso ustionato, e in seguito dovette [p. 83 modifica]stare a letto per oltre un mese. Nel delirio diceva che era stata Gavina a far scoppiare il razzo, e la madre bagnandogli il viso bruciato piangeva domandandosi perchè i suoi figli, invece di amarsi, come Dio comanda, si odiavano come due nemici.

  1. Non c'è ubriacone, in questo mondo, - che beva quanto bevi tu in un giorno....