Sopra le vie del nuovo impero/Sopra la città

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Sopra la città. - Il campo degli alpini. - La strada nuova. - Un villaggio greco

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Sopra la città. - Il campo degli alpini. - La strada nuova. - Un villaggio greco
Rodi dei turchi In pellegrinaggio a Psithos
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Sopra la città. - Il campo degli alpini.
La strada nuova. - Un villaggio greco.


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Rodi, Luglio.

Questo periodo della nostra storia nazionale parrà ai posteri degno d’esser celebrato non solo per la conquista, ma anche per la sanità morale che il nostro popolo va mostrando. Si dirà in avvenire che in mezzo all’estrema civiltà dell’occidente europeo era venuto su un popolo profondamente sano d’animo e di corpo, altrettanto paziente quanto astinente, altrettanto astinente quanto attivo; un popolo meritatosi di passare dallo stato d’emigrante allo stato di conquistatore per le sue virtù. Questo era il popolo italiano.

Il quale oggi si vede nei suoi soldati. Ignoro se un’altra nazione europea potrebbe fare una guerra e una conquista con soldati migliori di questi nostri, ottimi per i combattimenti, perchè ottimi prima de’ [p. 110 modifica]combattimenti. Il soldato italiano si celebra per lo slancio di cui dà prova negli assalti alla baionetta, e sta bene; ma più si deve celebrare per la disciplina. Ho visto a Tripoli e poi qui a Rodi quanto questo soldato energico e obbediente, pronto e sottomesso, congiunga le qualità che più comunemente si dicono italiane, con le altre che chiamerei tedesche, se noi avessimo bisogno di prendere dagli stranieri ciò che fu de’ nostri padri, ed è nostro. Non nello slancio, non nella disciplina, ma in un’unione tipica dell’uno e dell’altra consistono il carattere e l’eccellenza del soldato italiano, come, per aggiungere un esempio, il carattere e l’eccellenza del popolo italiano consistono in una tipica unione della genialità e del buon senso. Il nostro soldato è per se stesso un intelligente e agile individuo a faccia propria; sia dato un ordine: l’individuo sparisce, e sono il corpo, la compagnia, il reggimento. Tutte le volte che ho osservato questo passaggio, istantaneo, assoluto, mi son detto di aver dinanzi il soldato modello. E tale docilità del soldato ha radice nel profondo terreno morale del popolo, nel modo con cui esso seppe sopportare e portare la sua fortuna e con questa temprarsi.

Noi facciamo la nostra conquista pesando il meno possibile su quelli che [p. 111 modifica]assoggettiamo, e facciamo di tutto per non offendere nella roba e nella persona chi non ci offende, non tanto per un eccesso di civiltà comune a tutti i nostri vicini d’Europa, quanto per un eccesso di moderazione che è soltanto nostra, ed è quella stessa che fu dei nostri antichi padri romani della prima età, secondo il racconto degli storici. O meglio, avviene questo mirabile fatto d’una conquista così austera, perchè l’Italia ha soldati così in pugno dei loro superiori come poche altre nazioni ne hanno. Vi è in Italia chi può comandare e pretendere che questa guerra si conduca come se si fosse fatto voto di castità, e 120 mila giovanotti di 20 anni e qualche migliaio d’ufficiali mena da dieci mesi una esistenza claustrale. Prima che alla vita si rinunziò al piacere, il che è più arduo. Fra tante migliaia di soldati che sono a Rodi, uno solo si macchiò d’un furto meritevole di questo nome, in una casa ospitale, e fu punito con tanta severità che sbigottì gli stessi ospiti e tutti gli indigeni. Ho interrogato i giudici militari i quali mi hanno detto che intere armi non hanno dato luogo al più piccolo processo: il genio, l’artiglieria, gli alpini.

Racconterò una giornata trascorsa in mezzo a questi figliuoli della montagna, una giornata piena, quale fu nella realtà, qual’è [p. 112 modifica]nella mia memoria, perchè sarà edificante, ed anche perchè ci servirà per incominciare ad estendere le nostre cognizioni dalla città all’isola, per vedere che cosa questa è oggi, e che cosa s’incammina a diventare sotto di noi.

Un paio di settimane fa, una sera, ero stato un’altra volta verso il villaggio di Asguro, dove gli alpini fanno la strada. Prima, ero passato per Rodino dove altri soldati, i fucilieri del 57.°, stavano in festa cantando canzonette popolari ed eseguendo esercizi di forza tra i platani e le fontane, in presenza de’ loro ufficiali e del loro colonnello Vanzo che ha il pensiero del reggimento come un padre del suo unico figliuolo. Proseguendo la mia passeggiata giunsi agli alpini, ma visti gli ufficiali che desinavano sotto una quercia, per non disturbarli tirai di lungo. Uno di loro mi raggiunse, mi accompagnò per un po’ di tratto, poi altri, poi tutti, e m’invitarono per la Domenica dopo.

La mattina della Domenica tornai all’accampamento degli alpini e trovai il capitano Trivulzio che faceva la visita de’ soldati. Il capitano Trivulzio, gran soldato al cospetto di Dio, veterano d’Affrica, ha pratica di malattie e di medicine, e quella mattina sul piazzale dove sotto una gran quercia sorge [p. 113 modifica] la baracca per la mensa degli ufficiali, faceva la visita de’ soldati che non si sentivano bene. Gran buon omaccione, tagliato nella rupe della montagna anche se nato in città, il capitano Trivulzio sbrigava la faccenda con rude giovialità. Vennero gli altri ufficiali della compagnia, quattro giovanotti veri alpini, floridi, forti, schietti e gentili, e con tutti loro c’incamminammo. Lì presso è il principio della strada nuova, elevata sopra le frane del terreno e fiancata d’una massicciata robusta sulla cui pietra è inciso: 3.° A che i posteri vedranno.

Il luogo è sulle pendici orientali dell’isola presso i casolari sparsi d’Asguro turco, sotto il villaggio greco di Koskino che sta sull’alta roccia più ad oriente e dista dalla città di Rodi pochi chilometri. Scendemmo per sentieri tra burroni, massi e boscaglia, nella valle che lunga e stretta va verso il mare. Così per tutta l’isola le pendici dipartendosi dalla grande schiena delle montagne digradano al mare e si aprono in valli ubertose.

Quella dove scesi con gli ufficiali alpini, mi risvegliò subito nella memoria ricordi di luoghi simili della leggenda antica, favolosi nel nostro spirito, e il ricordo della Sicilia, misti dello spettacolo nuovo della nostra vita soldatesca italiana al campo. Perchè è [p. 114 modifica]tutta coperta d’una foresta d’agrumi come le terre siciliane, e di frutteti e di bosco, ed è tutta fontane e sorgenti che prorompono dalla roccia, dentro fondi specchi che sembrano parte artificiali, parte naturali, e rivoli e laghetti. E dovunque trovavamo soldati. Ce n’erano, di que’ figliuoli delle nostre alpi, a ogni laghetto, a ogni fontana, dentro ogni chiostra di piante. C’inoltravamo e li scoprivamo, alla spicciolata, o in numerose comitive. Non una voce per tutta la valle, solo qualche parola ci giungeva agli orecchi al nostro avvicinarci. Altri, in quel giorno di riposo, lavavano le loro robe; altri le loro persone, e dove l’acqua era più fonda, nudi, prendevano il bagno. Il capitano Trivulzio e gli altri ufficiali lanciavano un grido, una burla, chiamavano qualcuno per nome, avvertivano d’affrettarsi per il rancio; e allora tutti s’alzavano, salutavano con festa, in fraternità di guerra.

A lungo restammo in quella valle. Ci sedemmo dentro un gomito di rocce dove sgorga una polla, e c’è un piccolo quadrato di ruderi, forse un sacello dell’isola antica. Ci sedemmo presso la casa d’un contadino sotto un platano gigantesco, tra un cavallo e due mucche. Il fresco vento che viene dal mare, moveva intorno a noi i campi [p. 115 modifica]degli agrumi e campicelli di grano e olivi, pini, querci, fichi, nespoli, peschi, noci, melagrani e fiori e specchi d’acqua.

Tornammo all’accampamento e ci mettemmo a tavola sotto la gran quercia. Il piazzale è basso e cinto da un anfiteatro di vecchi ruderi, e sopra c’è il ridosso della collina. Sul quale anche i soldati, fra le tende, mangiavano il buon rancio domenicale, anch’essi sotto le piante. Stavamo all’ombra, ma insieme col cibo ci nutrivamo di quell’aria aperta e quasi montanina, della luce meridiana, del sole, del vento che veniva dal mare, impregnato di foresta, e della giocondità ospitale. Questa è sempre la vita di questi ufficiali e di questi soldati, con più il lavoro, gli altri giorni, dalle quattro del mattino alle dieci, e poi nelle ore pomeridiane fino al tramonto. Non so se nella presente guerra, o in un’altra tornerò ad avere dimestichezza, una lunga dimestichezza col capitano Trivulzio, coi tenenti Carbonara e D’Havet, con i sottotenti Venturini e Jacob: comunque, nell’intimo del mio spirito mi sono indimenticabili amici, perchè ricongiunsero me, oblioso delle origini e scribacchiante per le città, mi ricongiunsero con la santità del lavoro e della terra. Io li guardavo, mentre mi raccontavano delle loro dimore e escursioni sulle Alpi che ora mi [p. 116 modifica] parevano circondare l’isola di Rodi, più vicine delle stesse coste asiatiche, tanto vicine quanto il mio desiderio poteva farle, con quelli occhi dell’immaginazione che sembra abbiano pur sempre le pupille degli occhi del corpo. Vedevo la fronte possente e l’ossatura della penisola, e nella voce di coloro che mi parlavano, sentivo la robustezza della nostra gente. Io guardavo quei giovanotti, mentre mi parlavano della strada incominciata, con tanto amore con quanto non parliamo noi dell’opera della nostra mente, e mi dicevano che il lavoro era la loro vita, che senza il lavoro non avrebbero potuto vivere, e che la sera, quando tornavano stanchi dal lavoro con i loro soldati, mangiavano un boccone e si coricavano. Io guardavo quei giovanotti serii, pur nella allegrezza della mensa, e mi domandavo quale bellezza morale stava dinanzi a me. Appartenevano alle nostre classi, a famiglie agiate; eppure, il loro animo era profondamente congiunto col lavoro della terra, come quello dell’ultimo loro soldato figliuolo di contadini. Quella uguaglianza nel lavoro della terra fu il tesoro da me scoperto quel giorno. E pensai che i cristiani, quando davano il nome di milizia alla loro esistenza dedicata all’esercizio delle virtù, onoravano la milizia come si meritava, ed erano scopritori di squisite [p. 117 modifica] formazioni spirituali compiute da quella. Finito di mangiare, quando ci fummo alzati, continuando ancora la più affettuosa famigliarità tra superiore ed inferiori, uno de’ due sottotenenti si presentò al capitano Trivulzio per averne un ordine. Stava sull’attenti come un coscritto e gli si vedeva sul viso tutta l’anima sospesa in una commozione di rispetto e di obbedienza. Con quali delicati ordigni muove dunque gli uomini questo mestier delle armi, se può farli passare così in un momento dalla uguaglianza alla disciplina della gerarchia?

Dopo una breve siesta sotto la stessa quercia della mensa e della visita, ci mettemmo in moto, e c’incamminammo per la strada nuova la quale, come dissi altra volta, attraversando la pianura di Kalitea nella cui baia sbarcarono i nostri, deve giungere sino al villaggio di Aphandos sulla sottostante baia omonima.

La strada correrà sulla traccia d’un sentiero che al tempo de’ turchi era tutto e seguiva tra le rocce ogni dislivello dell’isola passando attraverso burroni e letti di torrenti. Poiché l’isola è tutta convulsa, e già appare così a pochi chilometri sopra la città.

Gli ufficiali mi mostravano il loro lavoro e dei loro alpini, mi additavano gli [p. 118 modifica]innumerevoli fori per le mine del giorno dopo, mi spiegavano l’arte di far quei fori e quelle mine, mi raccontavano come essi medesimi lavorassero anche manualmente.

E ogni tanto qualche soldato passava tornando all’accampamento. Altri se ne vedevano sparsi per le pendici vicine godendosi la libertà domenicale, ma tutti portavano il fucile, perchè il generale Ameglio vuole che il soldato in guerra non dimentichi mai d’essere in guerra. Passava qualche greco e salutava.

Koskino biancheggiava alla nostra sinistra in costa a una gran roccia che un profondo avvallamento separava da noi. Lasciammo la strada dove i lavori finivano, e prendemmo a discendere verso quel villaggio greco.

Uno degli ufficiali mi additò la cima piatta della roccia sopra Koskino da cui i nostri venendo dopo lo sbarco da Kalitea avevano avvistata la città di Rodi. Ivi pure erano state collocate le artiglierie. Domandai di quella giornata e di Psithos, della conformazione dell’isola, della marcia degli alpini da Kalamona e del combattimento. Seppi della faticosissima marcia di più di 30 chilometri, di notte, per un terreno sconosciuto, senza sentieri, asprissimo, guadagnato spesso con le mani e coi piedi. — Noi stessi, mi [p. 119 modifica]dissero gli ufficiali, non ne potevamo più. Ma quelli de’ nostri soldati che per qualche momento restavano indietro, ripresa lena ci raggiungevano. — Sempre, quelli che restarono indietro col respiro mozzo, raggiunsero i compagni. E il giorno manovrarono, combatterono, sotto la sferza d’un sole senza vento, e la sera dopo erano di ritorno a Rodi.

Giungemmo a Koskino e lo trovammo popolato e lindo, un modello dei molti villaggi che ha l’isola, tutti greci, tranne quattro o cinque turchi, il villaggio cretese, nuovo, tra Rodi e Trianda, Asguro sopra a Rodi, Salakos, Katokalamona e Apanokalamona sul versante occidentale. I villaggi greci hanno le case piccole e basse, quadrate, tozze, tutte bianche e senza tetti, come quelle degli arabi. I villaggi e le città degli arabi, com’era Tripoli, com’era Bengasi, rassomigliano ai sepolcri imbiancati, secondo la similitudine di Gesù Cristo, perchè al di fuori e da lontano splendono anch’essi come neve al sole e dentro sono tane luride. Non così il villaggio di Koskino. Entrammo per le case. Erano tutte in ordine e linde e con le pareti adorne di stoviglie, press’a poco come si usa anche nelle case delle isolette della laguna veneziana, con la differenza che a Murano e a Burano si usa di appendere alle pareti per belluria [p. 120 modifica]pochi grandi rilucenti piatti di rame, e qui nei villaggi greci innumerevoli piccoli piatti tramezzati da ampolle di vetro, sicchè le pareti di contro alla porta ne sono tutte coperte.

Con le stesse povere vesti dai colori vivaci e pulite e qua e là simmetricamente appese, questi abitanti contadini, quasi sia restata in loro qualche traccia dell’antico buon gusto ellenico, e con altri utensili domestici fanno ornamento. Molte case hanno un quadratello di cortile per atrio e per giardinetto con qualche fiore. Tutti salutavano festosamente. Tornammo all’accampamento dopo il tramonto. Gli alpini già si disponevano al riposo sotto le tende per esser pronti al lavoro con la prima luce dell’alba.

Altre strade saranno fatte dai nostri soldati nell’isola di Rodi. Quanto prima i bersaglieri metteranno mano alla strada di Trianda e la continueranno sino a Villanova; e il 57.° fanteria farà una strada sul mare da Rodi a Koskino, e poi l’allacciamento fra Koskino e Asguro.

Ho aggiunto questo, perchè ho voluto mostrare e l’animo che i soldati nostri portano nel lavoro, e le opere che di noi resteranno qui, qualunque sia la sorte avvenire di questa e delle altre isole.