Sotto il velame/Il corto andare/I

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Le tre fiere - IX Il corto andare - II

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I.


La lonza impediva il cammino di Dante; ma egli già bene sperava. E allora gli venne contra il leone, e, subito dopo, la lupa. A Virgilio Dante indica la lupa, come la bestia per cui si volse: a Dante Virgilio parla di quella fiera come di tale che gli tolse “il corto andar del bel monte„.1 Al cenno di Dante che gliela mostrava, l’anima cortese mantovana aveva esclamato, dopo averlo veduto lagrimare:

               A te convien tenere altro viaggio.

Dante era uscito dal profondo della selva; non era più nella notte; non era più immerso nel sonno. Il suo animo vedeva ciò da cui doveva fuggire e ciò a cui doveva cacciare: dalla selva, verso il colle. Era mattino: il sole illuminava il bel monte. Dante aveva riacquistata la prudenza.

La lonza è l’incontinenza di concupiscibile e d’irascibile. Dante ha speranza di vincerla. È dunque armato della virtù o delle virtù che ci vogliono contro quella. In vero “aveva una corda intorno [p. 168 modifica]cinta„.2 Dice altrove3 che l’appetito, che concupiscibile e irascibile si chiama, è guidato dalla ragione con freno e con isproni; e il freno si chiama temperanza e lo sprone fortezza. Invero Dante era nel mezzo della vita e nel bel mezzo della gioventù; nella qual gioventù la “nobile„ natura si fa “temperata e forte„. Uscendo dalla selva, da vile era divenuto non vile, cioè nobile. Egli aveva contro la lonza, che è concupiscenza e tristizia, il freno e lo sprone, la temperanza e la fortezza. Dice infatti che bene sperava di lei.

Ma ecco le altre due bestie: il leone e la lupa. Esse sono la violenza e la frode, cioè la malizia. E della malizia ingiuria è il fine. Vale a dire, ella è l’ingiustizia, come la chiama l’autore di Dante. Contro l’ingiustizia che può essere raffigurata dalla sola lupa, perchè questa comprende, se non altro, anche il leone, qual virtù era necessaria? La giustizia.

Dall’ingiustizia Dante è ripinto verso la selva della tenebra e della servitù. Dunque Dante non aveva questa virtù della giustizia, come aveva le altre tre? Egli l’aveva. Egli piange e s’attrista arretrando avanti la lupa, egli domanda aiuto contro lei, egli grida, egli lacrima. Anzi, nel vedere il suo lacrimare, Virgilio gli propone “altro viaggio„.4 Questi sono segni di orrore per la lupa, cioè per l’ingiustizia: dunque, segni della virtù di giustizia.

Ma si dirà: l’essere prima ripinto e poi tanto impedito da essere ucciso dalla bestia che simboleggia l’ingiustizia, significa simbolicamente essere [p. 169 modifica]ingiusti. No. Dante esprime in un modo, come l’ingiustizia faccia proseliti, in un altro, come faccia vittime. Fa proseliti ammogliandosi:5

               Molti son gli animali, a cui s’ammoglia,
               e più saranno ancora.

La lupa è altra volta una fuia,6 e il veltro, per cui la lupa deve discedere ed essere morta ed essere rimessa nell’inferno, è “un cinquecento dieci e cinque„. Anche questa fuia è la frode, o più in genere, la malizia o l’ingiustizia. Ebbene il gigante “che con lei delinque„ non è uno a cui ella, lupa e fuia, s’ammoglia? Esso è ingiusto o malizioso o frodolento; non quelli che la meretrice, con sue arti, diserti e derubi.7 E poi, ammogliarsi significa diventar donna ossia domina: dominare, quindi. Ed è questa la parola che Dante accoppia a “cupidità„ altrove, per significare appunto la lupa dell’inferno e del purgatorio, e la fuia che bacia il gigante.8 E qua e là della cupidigia egli fa una sirena o una meretrice che ammalia.9 Cupido dunque e perciò ingiusto sarà chi resta ammaliato da lei. Quelli ch’essa impedisce e uccide sono le sue vittime. E Dante dunque è o sarebbe sua vittima, non suo seguace.

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Vero è che noi non possiamo figurarci come con la lupa il viatore avrebbe potuto divenire ingiusto; mentre con la lonza possiamo imaginarci come avrebbe potuto divenire incontinente. La lonza lo avrebbe assonnato. La lupa? Lo avrebbe sedotto: sta bene: ma come? Nemmen Dante potrebbe rispondere; perchè in verità non vedeva in lei questa faccia, ora. Quando la vide, ne fece una meretrice, la quale, come possa sedurre, si capisce bene: è una lupa essa, ma non ha quattro gambe. E tuttavia anche qui col dire “animali„ fuor di rima, invece che bruti o fiere o belve o bestie, mostra riguardo per questa faccia del suo simbolo.

Del resto tra lonza e le altre due bestie si deve attendere una differenza. La lonza, se è, come è, incontinenza, fa sua preda di chi fa suo seguace: la lupa, se è, come è, malizia, fa proseliti in un modo e vittime in un altro, e quali ammalia e quali uccide. E anche le virtù opposte a quelle due “disposizioni„ operano diversamente: la temperanza e fortezza impediscono di diventare seguace e nel tempo stesso preda dell’incontinenza; la giustizia, virtù, impedisce che si diventi seguace d’ingiustizia, non impedisce, anzi agevola, il divenirne vittima. È chiaro. Tuttavia ricordo che i filosofi affermano che le virtù morali valgono contro due nostri impedimenti, tra loro ben diversi, la veemenza delle passioni e i tumulti esterni: un impedimento che è in noi e un altro che è fuori di noi; e che il primo possono le virtù togliere, il secondo non possono se non diminuire.10 [p. 171 modifica]

Dante è per vincere la lonza, è impaurito dal leone, è ripinto dalla lupa. Contro esse, dopo che ebbe riacquistata la prudenza, esercitò le altre tre virtù morali: temperanza, fortezza e giustizia.

Ciò nel “corto andare„ verso il bel monte. Quell’esercizio è dunque l’uso pratico dell’animo, il qual uso11 “si è operare per noi vertuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia„. Chè invero sono nella vita12 “due diversi cammini buoni e ottimi...„: l’uno è della vita attiva. E l’andar di Dante fu dunque questo cammino. E per questo cammino si perviene “a buona felicità„, sebbene di felicità ce ne sia un’altra ottima. E il bel monte, dunque, a cui conduceva quel cammino, sarà questa buona felicità: buona e non ottima. Chè13 “l’umana natura non pure una beatitudine ha, ma due; siccome quella della vita civile, e quella della contemplativa„; e di questa beatitudine “della vita attiva, cioè civile, nel governo del mondo„ l’altra “è più eccellente e divina„. E chi ha l’una, cioè “la beatitudine del governare„ non può “e l’altra avere„. Dunque Dante, con quel “corto andare„ sarebbe pervenuto alla beatitudine della vita attiva cioè civile. Impedito quello, “non c’era altra via„14 che il cammino della vita contemplativa; chè chi ha l’una beatitudine, non può l’altra avere: si escludono: o l’una o l’altra. Perciò Virgilio, vedendo l’ingiustizia, per la quale Dante gridava, pensa e dice, vedute le sue lacrime:15 [p. 172 modifica]

               A te convien tenere altro viaggio.

Cioè, l’altro.

Note

  1. Inf. I 88, II 119 seg.
  2. Inf. XVI 106.
  3. Conv. IV 26.
  4. Inf. I passim.
  5. Inf. I 100.
  6. Purg. XXXII 151 segg. XXXIII 43 segg.
  7. Vedi più sopra «Le tre fiere», III p.122.
  8. Ep. VI 5 nec advertitis dominantem cupidinem, quia caeci estis, venenoso susurro blandientem.
  9. Par. XXX 13: La cieca cupidigia che v’ammalia. Ep. V 4: Nec seducat illudens cupiditas, more Sirenum, nescio qua dulcedine vigiliam rationis mortificans. De Mon. I 13: hoc metu cupiditatis fieri oportet, de facili mentes hominum detorquentis.
  10. Summa 2a 2ae 180, 2.
  11. Conv. IV 22.
  12. Conv. IV 17.
  13. Conv. II 5.
  14. Purg. I 62.
  15. Inf. I 91.