Sotto il velame/L'altro viaggio/V

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L'altro viaggio - V

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V.


“Non è ira codesta; è bestialita (feritas)„1 leggeva, par certo, Dante in Seneca. E leggeva che Seneca confutava quest’asserzione dei peripatetici, dicendo: “E che, dunque? L’origine di questo male è l’ira la quale pose in oblìo la clemenza e ripudiò ogni umano patto e finì col mutarsi in crudeltà„.2 Ira, dunque, la bestialità; e non quel semplice moto che ubbidisce alla ragione, come quando “uno si crede leso, vuol vendicarsi, ma, dissuadendolo una causa, sbollisce„.3 Ira per Seneca è non il moto solo, ma l’impeto e l’abbrivo; è quella che “varca d’un salto la ragione, e porta via seco l’uomo„; è quella “concitazione dell’animo che va alla vendetta con la volontà e il giudicio„.4. Per altro, non è nei medesimi libri, ira la sola ferita: ira è anche quella che Dante punisce nello Stige. Invero “dell’iracondia è compagna la tristizia e in essa ogni ira si muta o dopo la penitenza o dopo la ripulsa„.5 Ebbene, Dante chiamava ira peccato codesta iracondia? No: egli quivi ricordava il maestro e pensava come lui che si battagliasse di parole. L’iracondia di cui è compagna la tristizia non è in sè e per sè peccato, poichè egli non mette soltanto nel fango dello Stige la tristizia vicina all’ira, ma anche in Virgilio; chè lo fa tornare indietro dalla porta di Dite con le ciglia rase di ogni baldanza e parlante tra i sospiri. Or in Virgilio come nè la tristizia così [p. 341 modifica]nè l’ira è peccato. E in ciò contradice a Seneca il quale nega che la virtù debba mai essere irata, perchè “l’ira non è della dignità della virtù più che l’attristarsi„.6 Dante dunque, per questo rispetto, corregge Seneca.

E qui e altrove. Per esempio, quando Seneca dice che il sapiente, se avesse ad avere l’ira, sarebbe assai infelice, chè per tutto all’ira troverebbe motivo, quando, per esempio, vedesse il foro pieno piuttosto di fiere che di uomini, di uomini anzi peggiori delle fiere, di uomini che “mutua laceratione satiantur„;7 Dante corregge questo che è certo un suo autore, dicendo: E sì, il sapiente deve appunto aver qui la sua ira, che partita dalla medesima passione che quella, non è peccato ma virtù, e deve anche godere di tal vista, quando quella mutua lacerazione sia di giustizia.

Dante fa suo prò di tante asserzioni e osservazioni di Seneca, riducendole però alla sua norma peripatetica. Eccone alcune altre. “Che c’è di più insulso dell’iracondia che tumultua in vano?„8 È l’orgoglio di Filippo Argenti. “L’iracondia aiuta i leoni„.9 Se il leone è simbolo di violenza, è nel tempo stesso atto a significare l’ira. “Semplici (perchè esposti a ricevere il male) sono gl’iracondi in comparazione dei frodolenti e degli astuti„.10 In vero Dante pone in comparazione dei frodolenti, come rei di peccato meno complicato, i violenti: non forse i violenti sono iracondi? “Languido, si dice, è l’animo senz’ira. Bene: se però non ha nulla di più valido [p. 342 modifica]che l’ira. Non si deve essere nè predone nè preda; nè pietoso nè crudele. Quello ha l’animo troppo molle, questo troppo duro: il sapiente ha da essere temperato. Alle azioni forti usi non l’ira, ma la forza (vim)„.11 E qui Dante correggeva: proprio l’ira, che è la cote della fortezza o il calcar della virtù. Senz’ira non si può entrare in Dite, esclama Virgilio. “I gladiatori scherma l’arte, espone (denudat) l’ira... Che mai levò di mezzo quel rovescio di Cimbri e Teutoni venutici di su l’Alpi... se non ciò che avevano ira per valore?„.12 Quest’ira dei Cimbri e dei Teutoni mi sa dell’13

                                      orgoglio degli Arabi
               che diretro ad Annibale passaro
               l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Quelle tot millia erano superfusa Alpibus. E qui pure corregge Dante: Sì: ira fu la loro; ma la passione non generò che orgoglio; non fortezza. “Nessun altro affetto è più cupido vindicandi, che l’ira, e per ciò stesso inabile ad vindicandum, troppo avventato e pazzo; come ogni cupidità impaccia sè stessa nel suo fine„.14 E questo è il fatto del Minotauro che, correndo alla vendetta (vindicare non è vendicare; ma tant’è), “gir non sa„. 15 È l’ira che lo fiacca e lo fa morder sè stesso e poi lo manda in furia; sì che Dante può passare. Sicchè l’infamia di Creti, come di bestialità, è acconcio simbolo d’ira. “Se l’ira fosse un bene, non si troverebbe ella nei [p. 343 modifica]più forti? Eppure i più iracondi sono gl’infanti e i vecchi e i malati. Ogni impotenza è querula„.16 E non si deve qui ricordare l’Argenti, che dice: “Vedi che son un che piango„?17 Ma anche qui Dante corregge: L’ira dei fanciulli e dei vecchi e dei malati non genera fortezza, sì qualche cosa che contrasta alla fortezza, come la timidità: l’audacia, l’orgoglio. “L’ira... tanto è lontana dalla grandezza d’animo, quanto l’audacia dalla fortezza, l’insolenza dalla fiducia, la tristizia dall’austerità, la crudeltà dalla severità. C’è molta differenza tra un animo sublime e uno superbo... L’ira mi sembra propria d’un animo letargico e infelice, consapevole della sua debolezza, che spesso si rammarica, come i corpi esulcerati e malati, che gemono al più lieve tocco. Così l’ira è sopra tutto vizio di donne e di fanciulli...„ Gl’irati dicono certe frasi, come quella: Mi odiino, pur che mi temano! E il filosofo osserva: “Questa non è grandezza, sì immanità! Non c’è da credere alle parole di quelli che s’adirano, di cui sono grandi e minaccevoli strepiti, e dentro l’anima timidissima... Niente è nell’ira di grande, nemmeno quando pare veemente e sprezzatrice di dei e d’uomini; niente v’è di nobile...„18 E qui noi vediamo i rissosi del brago, che sono detti ignudi tutti, forse o senza forse, per quelle parole di Seneca ira denudat,19 vediamo Filippo Argenti orgoglioso e vediamo Capaneo superbo, e tutti e due per l’ira! Ma c’è di più. L’ira “volge i suoi morsi contro sè„.20 Così Filippo Argenti. L’uomo irato deprime “ciò che non si può [p. 344 modifica]sommergere se non con chi lo sommerge„.21 Non c’è un ricordo di questa idea e di questa imagine, combinata con ciò che lì si legge poco prima, che l’ira è secondo Aristotele, sprone della virtù; non c’è un ricordo di queste parole nell’esclamazione di Dante:22

               O cieca cupidigia, o ira folle,
               che sì ci sproni nella vita corta
               e nell’eterna poi sì mal c’immolle?

Seneca descrive gl’irati che hanno il viso quale in nessun’altra passione è peggiore, aspro e fiero, e ora pallido ora sanguigno, con le vene gonfie e gli occhi ora mobili ora fissi. E Dante raccoglie il tutto nelle parole “con sembiante offeso„. E il filosofo continua parlando “dei denti arietati tra loro e bramosi di mangiare qualcuno„, e delle mani che si frangono e del petto che si picchia.23 Certamente ad ognuno viene subito in mente:24

               Questi si percotean non pur con mano,
               ma con la testa e col petto e co’ piedi,
               troncandosi coi denti a brano a brano.

Or a chi s’affrettasse a concludere da certi passi che i fangosi sono dunque rei d’ira, io direi che in Seneca Dante trovava rei d’ira, anche, non solo i bestemmiatori o spregiatori degli Dei, come abbiamo veduto, ma i suicidi (a quanti l’ira nocque da sè. Altri, nel soverchio bollore, ruppero le vene... Non c’è altra via più breve per giungere alla follia...); [p. 345 modifica]ma i dissipatori, congiunti nei libri del filosofo ai suicidi, così come nel canto del poeta: “l’ira si pose sotto i piedi l’avarizia, che è il più duro e il meno pieghevole dei vizi, spingendosi a dissipare le sue sostanze o ad attaccar fuoco alla sua casa e alle sue cose in un mucchio„.25 Questo luogo è ben decisivo, o lettori! E che cosa dobbiamo concludere da tali raffronti? Almeno questo: che la ferità o bestialità trovava Dante in Seneca, sia che conoscesse questi libri in parte o in tutto, o direttamente o per citazione, essere ira;26 e che superba era detta codesta ferità o ira.27 Si raccoglie ancora che Dante, a somiglianza di Seneca, potesse dichiarare rei d’ira peccato, i simili all’Argenti? No: egli mostra più volte di assentire ad Aristotele, cui Seneca contradice; e di credere che ci sia un’ira passione, sprone della virtù, e un’ira pur passione che conduce al male, senza essere per altro una ferità o bestialità. Si può essere certi che leggendo egli: “Combatti contro te stesso: se non puoi vincere l’ira, ella comincia a vincer te„28 intendeva della passione e non del peccato. Ma sopra tutto questa asserzione di Seneca: l’ira è “quella concitazione che va alla vendetta con la volontà e il giudicio„; 29 doveva [p. 346 modifica]muovere Dante che pensava: Quella di Filippo Argenti, quella di color cui vinse l’ira, non è ira, non è l’ira proprio peccato; poichè coloro cui vinse l’ira, sono incontinenti; e gl’incontinenti non peccano con la volontà, bensì con l’appetito. Questa considerazione dovrebbe bastare a solvere il nodo. Per quanto il peccato di violenza sia detto “bestialità„, pur non è così bestiale, come quello dei cani e dei porci dello Stige. La violenza è minotauro, centauro, arpia, semifero e semiuomo. L’ira, per il Dottore, anche se è incontinenza, partecipa in qualche modo della ragione, “in quanto l’irato tende a vendicare un’ingiuria a lui fatta, il che in qualche modo è la ragione che detta...„30 Ora, secondo il medesimo, l’incontinenza d’ira, che per certi rispetti è meno turpe che quella di concupiscenza, è però più grave “perchè conduce a cose che pertengono a nuocere al prossimo„. E come dunque il peccato col quale alcuno “per violenza in altrui noccia„, e che non è incontinenza soltanto, perchè è con volontà; non si deve pensare essere questa incontinenza medesima che abbia seguitato il suo andare? Ma sia ira anche questa: sarà ira d’incontinenza o incontinenza d’ira; l’altra, ira di volontà o volontà d’ira. Si dice ira anche di Dio o di uomo il quale “non per passione, ma per giudizio di ragione, infligge la pena„;31e allora è un’ira appartenente all’appetito intellettivo, alla volontà.32 Dante afferma manifestamente che infliggere la pena e “spietati danni„ non per giudizio di ragione, ma per passione, è atto della volontà e non [p. 347 modifica]impeto solo dell’appetito sensitivo. Ora è per lo meno probabile che egli quest’atto chiamasse ira; come è ira il suo proprio contrario.

Note

  1. Sen. de ira II 5, 2.
  2. id. ib. 3
  3. id. ib. 5
  4. id. ib. 3, 4 e 5.
  5. id. ib. 6, 2.
  6. Sen. de ira ib.
  7. id. ib. 8, 3.
  8. id. ib. 11, 1.
  9. id. ib. 16, 1.
  10. id. ib. 3.
  11. Sen. de ira ib. 17, 2.
  12. id. ib. n. I 11, 2. Calcar virtutis trovava Dante ivi III 3, 1.
  13. Par. VI 49 segg.
  14. Sen. de ira I 12, 5.
  15. Inf. XII 24, 15, 27.
  16. Sen. de ira I 13, 5.
  17. Inf. VIII 36.
  18. De ira I 20, 3-5; 21, 1.
  19. ib. 11, 2.
  20. ib. III 1. 5.
  21. Sen. de ira ib. 3, 2.
  22. Inf. XII 49 segg.
  23. De ira III 4, 1 e 2.
  24. Inf. VII 112 segg.
  25. De ira II 36, 4-6.
  26. Vedi anche III 17, 1: haec barbaris regibus feritas in ira fuit.
  27. Anche III 19, 1: Quam superba fuerit crudelitas eius etc. Anche III 1, 5: sive successit, superba, sive frustratur, insana. Può Dante da questi libri aver tratto l’esempio che pone per primo, tra i tiranni, II 22, 3: Hoc eo magis in Alexandro laudo, quia nemo tam obnoxius irae fuit. III, 17, 1: regem Alexandrum qui Clitum carissimum sibi et una educatum inter epulas transfodit manu quidem sua etc.
  28. III 13, 1. Ricordiamo «color cui vinse l’ira».
  29. Vedi più sopra a pag. 340.
  30. Summa 2a 2ae 156, 4. Eth. VII 6.
  31. Summa 2a 2ae 158, 8.
  32. ib. 162, 3 e passim.