Storia d'Italia/Libro I/Capitolo V
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V
Pubbliche dichiarazioni di fiduciosa sicurezza e segrete preoccupazioni di Ferdinando d’Aragona. Sua azione per allontanare da sé il pericolo e per riconciliarsi col pontefice e con Lodovico Sforza. Il re di Francia compone le sue divergenze co’ re di Spagna, col re de’ romani e con l’arciduca d’Austria. L’investitura di Lodovico Sforza a duca di Milano. Ambasciata di Perone di Baccie al pontefice, al senato veneziano ed a’ fiorentini. Piero de’ Medici di fronte alle richieste del re di Francia. Comincia a vacillare la congiunzione fra il pontefice e Ferdinando d’Aragona.
Ma essendo giá incominciata, benché da principio con autori incerti, a risonare in Italia la fama di quello che oltre a’ monti si trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli uomini: perché a molti, i quali la potenza del regno di Francia, la prontezza di quella nazione a nuovi movimenti e le divisioni degli italiani consideravano, pareva cosa di grandissimo momento; altri, per la etá e per le qualitá del re, e per la negligenza propria a’ franzesi e per gli impedimenti che hanno le grandi imprese, giudicavano questo essere piú tosto impeto giovenile che fondato consiglio, il quale, poi che fusse alquanto ribollito, avesse leggiermente a risolversi. Né Ferdinando, contro al quale tali cose si macchinavano, dimostrava d’averne molto timore, allegando essere impresa durissima: perché, se e’ pensassino assaltarlo per mare, troverebbono lui proveduto d’armata sufficiente a combattere con loro in alto mare, i porti bene fortificati e tutti in sua potestá, né essere nel regno barone alcuno che gli potesse ricevere come era stato ricevuto Giovanni d’Angiò dal principe di Rossano e da altri grandi; l’espedizione per terra essere incomoda, sospetta a molti e lontana, avendosi a passare prima per la lunghezza di tutta Italia, di maniera che ciascuno degli altri arebbe causa particolarmente di temerne, e forse piú di tutti Lodovico Sforza, benché, volendo dimostrare che fusse proprio di altri il pericolo comune, simulasse il contrario, perché, per la vicinitá dello stato di Milano alla Francia, aveva il re maggiore facoltá e verisimilmente maggiore cupiditá di occuparlo. E essendogli il duca di Milano congiuntissimo di sangue, come potere almeno assicurarsi Lodovico che il re non avesse in animo liberarlo dalla sua oppressione? avendo massime pochi anni innanzi affermato palesemente che non comporterebbe che Giovan Galeazzo suo cugino fusse conculcato sí indegnamente. Non avere tale condizione le cose aragonesi che la speranza della debolezza loro dovesse dare a’ franzesi ardire d’assaltarle, essendo egli bene ordinato di molta e fiorita gente d’arme, abbondante di bellicosi cavalli, di munizioni, di artiglierie e di tutte le provisioni necessarie alla guerra, e con tanta copia di danari che senza incomoditá potrebbe quanto gli fusse necessario augumentarle; e oltre a molti peritissimi capitani preposto al governo degli eserciti e armi sue il duca di Calavria suo primogenito, capitano di fama grande e di virtú non minore, e esperimentato per molti anni in tutte le guerre d’Italia. Aggiugnersi alle forze proprie gli aiuti pronti de’ suoi medesimi, perché non essere da dubitare gli mancasse il soccorso del re di Spagna, suo cugino e fratello della moglie, sí per il vincolo doppio del parentado come perché gli sarebbe sospetta la vicinitá de’ franzesi alla Sicilia. Queste cose si dicevano da Ferdinando publicamente, magnificando la sua potenza e estenuando quanto poteva le forze e l’opportunitá degli avversarii; ma, come era re di singolare prudenza e di esperienza grandissima, intrinsecamente gravissimi pensieri lo tormentavano, avendo fissa nell’animo la memoria de’ travagli avuti, nel principio del regno suo, da questa nazione. Considerava profondamente dovere avere la guerra con inimici bellicosissimi e potentissimi, e molto superiori a sé di cavalleria, di peditato, d’armate marittime, di artiglierie, di danari e d’uomini ardentissimi a esporsi a ogni pericolo per la gloria e grandezza del proprio re; a sé, per contrario, sospetta ogni cosa, pieno il regno quasi tutto o di odio grande contro al nome aragonese o di inclinazione non mediocre a' rebelli suoi, del resto la maggiore parte cupida per l’ordinario di nuovi re, e nella quale avesse a potere piú la fortuna che la fede, ed essere maggiore la riputazione che il nervo delle sue cose; non bastare i danari accumulati alle spese necessarie per la difesa, e empiendosi per la guerra ogni cosa di ribellione e di tumulti annichilarsi in uno momento l’entrate. Avere in Italia molti inimici, niuna amicizia stabile e fidata; perché chi non era stato offeso, in qualche tempo, o dalle armi o dalle arti sue? Né di Spagna, secondo l’esempio del passato e le condizioni di quel regno, potere aspettare altri aiuti a’ suoi pericoli che larghissime promesse e fama grandissima di apparati ma effetti piccolissimi e tardissimi. Accrescevangli il timore molte predizioni infelici alla casa sua, venutegli a notizia in diversi tempi, parte per scritture antiche ritrovate di nuovo parte per parole d’uomini, incerti spesso del presente ma che si arrogano certezza del futuro; cose nella prosperitá credute poco, come cominciano a apparire l’avversitá credute troppo. Angustiato da queste considerazioni, e presentandosegli maggiore senza comparazione la paura che le speranze, conobbe non essere altro rimedio a tanti pericoli che o il rimuovere, quanto piú presto si poteva, con qualche concordia, la mente del re di Francia da questi pensieri o levargli parte de’ fondamenti che lo incitavano alla guerra. Perciò, avendo in Francia imbasciadori, mandativi per trattare lo sposalizio di Ciarlotta figliuola di don Federigo suo secondo genito col re di Scozia, il quale, per essere la fanciulla nata di una sorella della madre di Carlo e allevata nella sua corte, si maneggiava da lui, dette loro sopra le cose occorrenti nuove commissioni; e vi deputò, oltre a questi, Cammillo Pandone, statovi altre volte per lui: affine che, tentando privatamente i principali con premi e offerte grandi, e proponendo al re, quando altrimenti non si potesse mitigarlo, condizione di censo e altre sommissioni, si sforzasse di ottenere da lui la pace. Né solo interpose tutta la diligenza e autoritá sua per comporre la differenza delle castella comperate da Verginio Orsino, la cui durezza si lamentava essere stata causa di tutti i disordini, ma ricominciò col pontefice le pratiche del parentado trattato prima tra loro. Ma il principale suo studio e diligenza si indirizzò a mitigare e ad assicurare l’animo di Lodovico Sforza, autore e motore di tutto il male, persuadendosi che a cosí pericoloso consiglio piú il timore che altra cagione lo conducesse. E però, anteponendo la sicurtá propria allo interesse della nipote e alla salute del figliuolo nato di lei, gli offerse, per diversi mezzi, di riferirsi in tutto alla sua volontá, delle cose di Giovan Galeazzo e del ducato di Milano: non attendendo al parere d’Alfonso, il quale, pigliando animo dalla timiditá naturale di Lodovico, né si ricordando che alle deliberazioni precipitose si conduce non meno agevolmente il timido per la disperazione che si conduca il temerario per la inconsiderazione, giudicava che l’aspreggiarlo con spaventi e con minaccie fusse mezzo opportuno a farlo ritirare da questi nuovi consigli. Composesi finalmente, dopo varie difficoltá, procedute piú da Verginio che dal pontefice, la differenza delle castella; intervenendo alla composizione don Federigo, mandato a questo effetto dal padre a Roma: convennono che Verginio le ritenesse, ma pagando al pontefice tanta quantitá di danari per quanti l’aveva prima comperate da Franceschetto Cibo. Conchiusesi insieme lo sposalizio di madama Sances figliuola naturale di Alfonso in don Giuffré figliuolo minore del pontefice, inabili tutt’a due per l’etá alla consumazione del matrimonio: le condizioni furono che don Giuffré andasse fra pochi mesi a stare a Napoli, ricevesse in dote il principato di Squillaci con entrata di ducati diecimila l’anno, e fusse condotto con cento uomini d’arme agli stipendi di Ferdinando: donde si confermò l’opinione, avuta da molti, che quel che aveva trattato in Francia il pontefice fusse stato trattato principalmente per indurre col timore gli Aragonesi a queste convenzioni. Tentò di piú Ferdinando di confederarsi con lui a difesa comune; ma interponendo il pontefice molte difficoltá, non ottenne altro che una promessa occultissima, per breve, di aiutarlo a difendere il regno di Napoli, in caso che Ferdinando promettesse a lui di fare il medesimo dello stato della Chiesa. Le quali cose espedite, si partirono, licenziate dal papa, del dominio ecclesiastico le genti d’arme che i viniziani e il duca di Milano gli aveano mandate in aiuto. Né cominciò Ferdinando con minore speranza di felice successo a trattare con Lodovico Sforza, il quale con arte grandissima, ora mostrandosi malcontento della inclinazione del re di Francia alle cose d’Italia come pericolosa a tutti gli italiani, ora scusandosi per la necessitá la quale, per il feudo di Genova e per la confederazione antica con la casa di Francia, l’aveva costretto a udire le richieste fattegli, secondo diceva, da quel re, ora promettendo, qualche volta a Ferdinando qualche volta separatamente al pontefice e a Piero de’ Medici, di affaticarsi quanto potesse per raffreddare l’ardore di Carlo, si sforzava di tenergli addormentati in questa speranza, acciocché, innanzi che le cose di Francia fussino bene ordinate e stabilite, contro a lui qualche movimento non si facesse: e gli era creduto piú facilmente perché la deliberazione di fare passare il re di Francia in Italia era giudicata sí mal sicura ancora per lui, che non pareva possibile che finalmente non se n’avesse, considerato il pericolo, a ritirare.
Consumossi tutta la state in queste pratiche, procedendo Lodovico in modo che, senza dare ombra al re di Francia, né Ferdinando né il pontefice né i fiorentini delle sue promesse si disperavano né totalmente vi confidavano. Ma in questo tempo si gittavano in Francia sollecitamente i fondamenti della nuova espedizione, alla quale, contro al consiglio di quasi tutti i signori, era ogni dí maggiore l’ardore del re: il quale, per essere piú espedito, compose le differenze che aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di Spagna, príncipi in quello tempo molto celebrati e gloriosi per la fama della prudenza loro, per avere ridotti di grandissime turbolenze in somma tranquillitá e ubbidienza i regni suoi, e per avere nuovamente, con guerra continuata dieci anni, recuperato al nome di Cristo il reame di Granata, stato posseduto da’ mori di Affrica poco manco di ottocento anni; per la quale vittoria conseguirono dal pontefice, con grande applauso di tutti i cristiani, il cognome di re cattolici. Fu espresso in questa capitolazione, fermata molto solennemente e con giuramenti prestati in publico dall’una parte e dall’altra ne’ templi sacri, che Ferdinando e Isabella (reggevasi la Spagna in nome comune) né direttamente né indirettamente gli Aragonesi aiutassino, parentado nuovo con loro non contraessino, né in modo alcuno per difesa di Napoli a Carlo si opponessino; le quali obligazioni egli per ottenere, cominciando dalla perdita certa per speranza di guadagno incerto, restituí senza alcuno pagamento Perpignano con tutta la contea di Rossiglione, impegnata molti anni innanzi a Luigi suo padre da Giovanni re di Aragona padre di Ferdinando: cosa molestissima a tutto il regno di Francia, perché quella contea, situata alle radici de’ monti Pirenei e però, secondo l’antica divisione, parte della Gallia, impediva agli spagnuoli l’entrare in Francia da quella parte. Fece per la medesima cagione Carlo pace con Massimiliano re de’ romani e con Filippo arciduca d’Austria suo figliuolo, i quali avevano seco gravissime cagioni, antiche e nuove, di inimicizia, cominciate perché Luigi suo padre, per l’occasione della morte di Carlo duca di Borgogna e conte di Fiandra e di molti altri paesi circostanti, aveva occupato il ducato di Borgogna, il contado di Artois e molte altre terre possedute da lui. Donde essendo nate gravi guerre tra Luigi e Maria figliuola unica di Carlo, la quale poco dopo la morte del padre si era maritata a Massimiliano, era ultimamente, essendo giá morta Maria e succeduto nell’ereditá materna Filippo figliuolo comune di Massimiliano e di lei, fattasi, piú per volontá de’ popoli di Fiandra che di Massimiliano, concordia tra loro; per stabilimento della quale a Carlo figliuolo di Luigi fu Margherita sorella di Filippo sposata e, benché fusse di etá minore, condotta in Francia: dove poi che fu stata piú anni, Carlo repudiatala, tolse per moglie Anna, alla quale, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi, apparteneva il ducato di Brettagna; con doppia ingiuria di Massimiliano, privato in uno tempo medesimo del matrimonio della figliuola e del proprio, perché prima per mezzo di suoi procuratori aveva sposato Anna. E nondimeno, impotente a sostentare da se stesso la guerra, ricominciata per cagione di questa ingiuria, né volendo i popoli di Fiandra, i quali, per essere Filippo pupillo, con consiglio e autoritá propria si reggevano, stare in guerra col regno di Francia; e vedendo posate l’armi contro a’ franzesi da’ re di Spagna e di Inghilterra, consentí alla pace: per la quale Carlo restituí a Filippo Margherita sua sorella, ritenuta insino a quel dí in Francia, e insieme le terre del contado di Artois, riservandosi le fortezze ma con obligazione di restituirle alla fine di quattro anni; al quale tempo Filippo, divenuto di etá maggiore, poteva validamente confermare l’accordo fatto. Le quali terre, nella pace fatta dal re Luigi, erano state concordemente riconosciute come per dote di Margherita predetta.
Stabilissi, per esser renduta al regno di Francia la pace da tutti i vicini, la deliberazione della guerra di Napoli per l’anno prossimo; e che in questo mezzo tutte le provisioni necessarie si preparassino, sollecitate continuamente da Lodovico Sforza. Il quale (come i pensieri degli uomini di grado in grado si distendono), non pensando piú solo a assicurarsi nel governo ma sollevato a piú alti pensieri, aveva nell’animo, con l’occasione de’ travagli degli Aragonesi, trasferire in tutto in sé il ducato di Milano: e per dare qualche colore di giustizia a tanta ingiustizia, e fermare con maggiori fondamenti le cose sue a tutti i casi che potessino intervenire, maritò Bianca Maria sorella di Giovan Galeazzo e sua nipote a Massimiliano, succeduto nuovamente per la morte di Federico suo padre nello imperio romano; promettendogli in dote in certi tempi quattrocentomila ducati in pecunia numerata, e in gioie e in altri apparati ducati quarantamila. E da altro canto Massimiliano, seguitando in questo matrimonio piú i danari che il vincolo della affinitá, si obligò di concedere a Lodovico, in pregiudicio di Giovan Galeazzo nuovo cognato, l’investitura del ducato di Milano, per sé, per i figliuoli e per i discendenti suoi; come se quello stato, dopo la morte di Filippo Maria Visconte, fusse di legittimo duca sempre vacato: promettendo di consegnargli, al tempo dell’ultimo pagamento, i privilegi, spediti in forma amplissima.
I Visconti, gentiluomini di Milano, nelle parzialitá sanguinosissime che ebbe Italia de’ ghibellini e de’ guelfi, cacciati finalmente i guelfi, diventorno (è questo quasi sempre il fine delle discordie civili), di capi di una parte di Milano, padroni di tutta la cittá; nella quale grandezza avendo continuato molti anni, cercorono, secondo il progresso comune delle tirannidi (perché quello che era usurpazione paresse ragione), di corroborare prima con legittimi colori e dipoi di illustrare con amplissimi titoli la loro fortuna. Però, ottenuto dagli imperadori, de’ quali Italia cominciava giá a conoscere piú il nome che la possanza, prima il titolo di capitani poi di vicari imperiali, all’ultimo Giovan Galeazzo, il quale, per avere ricevuto la contea di Virtus da Giovanni re di Francia suo suocero, si chiamava il conte di Virtú, ottenne da Vincislao re de’ romani, per sé e per la sua stirpe mascolina, la degnitá di duca di Milano; nella quale gli succederono, l’uno dopo l’altro, Giovan Maria e Filippo Maria suoi figliuoli. Ma finita la linea mascolina per la morte di Filippo, benché egli avesse nel testamento suo instituito erede Alfonso re d’Aragona e di Napoli, mosso dall’amicizia grandissima la quale, per la liberazione sua, aveva contratta seco, e molto piú perché il ducato di Milano, difeso da principe sí potente, non fusse occupato da’ viniziani, i quali giá manifestamente v’aspiravano, nondimanco Francesco Sforza, capitano in quella etá valorosissimo né minore nell’arte della pace che della guerra, aiutato da molte occasioni che allora concorsono, e non meno dall’avere stimato piú il regnare che l’osservanza della fede, occupò con l’armi quel ducato come appartenente a Bianca Maria sua moglie, figliuola naturale di Filippo; ed è fama che e’ potette ottenerne poi, con non molta quantitá di danari, l’investitura da Federigo imperatore, ma che, confidando di potere con le medesime arti conservarlo con le quali l’aveva guadagnato, la dispregiò. Cosí senza investitura continuò Galeazzo suo figliuolo, e continuava Giovan Galeazzo suo nipote: onde Lodovico, in uno medesimo tempo scelerato contro al nipote vivo e ingiurioso contro alla memoria del padre e del fratello morti, affermando non essere stato alcuno di essi legittimo duca di Milano, se ne fece come di stato devoluto allo imperio investire da Massimiliano, intitolandosi per questa ragione non settimo ma quarto duca di Milano. Benché queste cose alla notizia di pochi, mentre visse il nipote, trapassorono. Soleva oltre a questo dire, seguitando l’esempio di Ciro fratello minore di Artoserse re di Persia, e confermandolo con l’autoritá di molti giurisconsulti, che precedeva Galeazzo suo fratello, non per l’etá ma per essere stato il primo figliuolo che fusse nato al padre comune poi che era diventato duca di Milano: la quale ragione insieme con la prima, benché taciuto l’esempio di Ciro, fu espressa ne’ privilegi imperiali; a’ quali, per velare, benché con colore ridicolo, la cupiditá di Lodovico, fu in lettere separate aggiunto non essere consuetudine del sacro imperio concedere alcuno stato a chi l’avesse prima con l’autoritá di altri tenuto, e perciò essere stati da Massimiliano disprezzati i prieghi fatti da Lodovico per ottenere l’investitura per Giovan Galeazzo, che aveva prima dal popolo di Milano quel ducato riconosciuto. Il parentado fatto da Lodovico accrebbe la speranza a Ferdinando che e’ s’avesse a alienare dalla amicizia del re di Francia, giudicando che l’essersi aderito e il somministrare a uno emulo, e per tante cagioni inimico, quantitá cosí grande di danari, fusse per generare diffidenza tra loro, e che Lodovico, preso animo da questa nuova congiunzione, avesse piú arditamente a discostarsene: la quale speranza Lodovico nutriva con grandissimo artificio, e nondimeno (tanta era la sagacitá e destrezza sua) sapeva in uno tempo medesimo dare parole a Ferdinando e agli altri d’Italia, e bene intrattenersi col re de’ romani e con quello di Francia. Sperava similmente Ferdinando che al senato viniziano, al quale aveva mandato imbasciadori, avesse a essere molesto che in Italia, dove tenevano il primo luogo di potenza e di autoritá, entrasse uno principe tanto maggiore di loro: né conforti e speranze da’ re di Spagna gli mancavano, i quali soccorso potente gli promettevano, in caso che con le persuasioni e con l’autoritá non potessino questa impresa interrompere.
Da altra parte si sforzava il re di Francia, poiché aveva rimosso gl’impedimenti di lá da monti, rimuovere le difficoltá e gli ostacoli che potessino essergli fatti di qua. Però mandò Perone di Baccie, uomo non imperito delle cose d’Italia, dove era stato sotto Giovanni d’Angiò; il quale, significata al pontefice, al senato viniziano e a’ fiorentini, la deliberazione fatta dal re di Francia per recuperare il regno di Napoli, fece instanza con tutti che si congiugnessino con lui; ma non riportò altro che speranze e risposte generali, perché, essendo la guerra non prima che per l’anno prossimo disegnata, ricusava ciascuno di scoprire tanto innanzi la sua intenzione. Ricercò medesimamente il re gli oratori de’ fiorentini, mandati prima a lui, con consentimento di Ferdinando, per escusarsi della imputazione si dava loro di essere inclinati agli Aragonesi, che gli fusse promesso passo e vettovaglia nel territorio loro all’esercito suo, con pagamento conveniente, e di mandare con esso cento uomini d’arme, i quali diceva chiedere per segno che la republica fiorentina seguitasse la sua amicizia: e benché gli fusse dimostrato non potersi senza grave pericolo fare tale dichiarazione se prima l’esercito suo non era passato in Italia, e affermato che di quella cittá si poteva in ogni caso promettere quanto conveniva alla osservanza e devozione che sempre alla corona di Francia portata aveva, nondimeno erano con impeto franzese stretti a prometterlo, minacciando altrimenti di privargli del commercio che la nazione fiorentina aveva grandissimo di mercatanzie in quel reame: i quali consigli, come poi si manifestò, nascevano da Lodovico Sforza, guida allora e indirizzatore di tutto quello che per loro con gli italiani si praticava. Affaticossi Piero de’ Medici di persuadere a Ferdinando queste dimande importare sí poco alla somma della guerra, che e’ potrebbe giovargli piú che la republica e egli si conservassino in fede con Carlo, per la quale arebbono forse opportunitá di essere mezzo a qualche composizione. Allegava, oltre a questo, il carico grandissimo e l’odio il quale contro a sé si conciterebbe in Firenze se i mercatanti fiorentini fussino cacciati di Francia; e convenire alla buona fede, fondamento principale delle confederazioni, che ciascuno de’ confederati tollerasse pazientemente qualche incomoditá perché l’altro non incorresse in danni molto maggiori. Ma Ferdinando, il quale considerava quanto si diminuirebbe della riputazione e sicurtá sua se i fiorentini si separassino da lui, non accettava queste ragioni, ma si lamentò gravissimamente che la costanza e la fede di Piero cominciassino cosí presto a non corrispondere a quel che di lui s’avea promesso; donde Piero, determinato di conservarsi innanzi a ogni cosa l’amicizia aragonese, fece allungare con varie arti la risposta da’ franzesi instantemente dimandata, rimettendosi in ultimo che per nuovi oratori si farebbe intendere l’intenzione della republica.
Nella fine di quest’anno cominciò la congiunzione fatta tra il pontefice e Ferdinando a vacillare: o perché il pontefice aspirasse, con introdurre nuove difficoltá, a ottenere da lui cose maggiori o perché si persuadesse di muoverlo con questo modo a ridurre il cardinale di San Piero a Vincola all’ubbidienza sua; il quale egli, offerendo per sicurtá la fede del collegio de’ cardinali, di Ferdinando e de’ viniziani, desiderava sommamente che andasse a Roma, essendogli sospetta molto la sua assenza, per la importanza della rocca d’Ostia (perché intorno a Roma teneva Ronciglione e Grottaferrata), per molte dependenze e autoritá grande che aveva nella corte, e finalmente per la natura sua desiderosa di cose nuove e l’animo pertinace a correre prima ogni pericolo che allentare uno punto solo delle sue deliberazioni. Scusavasi efficacissimamente Ferdinando di non potere piegare a questo il Vincola, insospettito tanto che qualunque sicurtá gli pareva inferiore al pericolo; e si lamentava della sua mala fortuna col pontefice, che sempre attribuisse a lui quel che veramente procedeva da altri; cosí avere creduto che Verginio per i conforti e co’ danari suoi avesse comperato le castella, e nondimeno la compera essere stata fatta senza sua partecipazione, ma essere bene egli stato quello che aveva disposto Verginio all’accordo, e che a questo effetto l’aveva accomodato de’ danari che si pagorono in ricompensa delle castella. Le quali scuse mentre che ’l pontefice non accetta, anzi con acerbe e quasi minatorie parole si lamenta di Ferdinando, pareva che nella reconciliazione fatta tra loro non si potesse fare stabile fondamento.