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Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/I

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I
I SICILIANI

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II


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STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA




I.


I SICILIANI


Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduta la Cantilena o Canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una Canzone di Folcacchiero da Siena.

Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un’epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico II da cui prese il nome.

Federico II, Imperatore d’Alemagna e Re di Sicilia, chiamato da Dante cherico grande, cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel Novellino, nobilissimo signore, nella cui corte a Palermo venìa la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori. E perciò i rimatori di quel tempo, ancorchè parecchi sieno d’altra parte d’Italia, furono detti siciliani.

Che cosa è la cantilena di Ciullo?

È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle Canzoni popolari di tutti i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia. [p. 2 modifica]Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, e chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane, provenzali, francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe:

Amante

Molte sono le femine
Che hanno dura la testa1,
E l’uomo con parabole2
Le dimina3 e ammonesta4:
Tanto intorno percacciale5
Sinchè l’ha in sua podesta6.
Femina d’uomo non si può tenere.
Guardati, bella, pur di ripentere7.

Madonna

Che eo8 me ne pentesse9
Davanti10 foss’io auccisa11,
Ca nulla buona femina
Per me fosse riprisa12.
Er sera13 ci passasti
Correnno14 a la distisa15.

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Acquistiti16 riposo, canzoneri17:
Le tue paraole18 a me non piaccion gueri19.

La canzone è tirata giù tutta d’un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perchè se l’ingegno del poeta apparisce nei concetti e ne’ sentimenti e nell’andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo.

E studiando in quella forma, è facile indurre che c’era allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c’era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.

Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.

E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all’ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi.

Come e quando la lingua latina sia ita in [p. 4 modifica]decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può concetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare, per la insufficienza de’ documenti. Oltrechè, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della Nazione, parlata e scritta da’ chierici, dai dottori, da’ professori e da’ discepoli. Ricordáno Malespini dice che Federico II seppe la lingua nostra latina è il nostro volgare.

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell’uso comune della vita, si vede pure dai contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina, trovi la voce in uso con un: vulgo dicitur, o dicto.

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il romano rustico. Nell’812 il Concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in lingua romana rustica. Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, solo che l’oratore si fosse accostato alla guisa del volgo. Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne’ diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ec. C’era dun[p. 5 modifica]que un tipo unico, presente in tutte le lingue neo-latine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun’altro.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese, per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell’uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico, a cui s’informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.

Questo tipo o carattere de’ nostri dialetti appare e nella somiglianza de’ vocaboli e delle forme grammaticali, e nei mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il volgare. Così Malespini dicea: «la nostra lingua latina e il nostro volgare», cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne’ suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti, che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il volgare, così prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall’altra, ad [p. 6 modifica]esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distingua dalla plebe.

Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi colte, e sia come il convegno degli uomini più illustri. Questo fu a Palermo, nella Corte di Federico II, dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per dirla col Novellino, dove la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti.

Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non è più dialetto siciliano, e non è ancora lingua italiana, ma è già, malgrado gli elementi locali, un parlare comune a tutti i rimatori italiani, e che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio delle persone civili.

La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura, l’araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co’ normanni, che ebbero parte così splendida nelle crociate. Ivi più che in altre parti d’Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de’ Trovatori, le novelle orientali, la tavola Rotonda, un contatto immediato con popoli così diversi di vita e di coltura, avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico II l’Italia colta avea [p. 7 modifica]la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano siciliani. Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt’i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il volgare, di tutt’i volgari moderni il più simile al latino.

La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com’era usato in tutt’i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia.

Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin quì è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l’eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un’espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta, e meno locale è nella Romanza attribuita al re di Gerusalemme, o nel lamento dell’amante del Crociato, di Rinaldo di Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo sonetto, come lo chiama l’innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così:

     Giammai non mi conforto
Nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
E vogliono collare.
Vassene la più gente
In terre d’oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!

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Come degg’io fare!
Vassene in altra contrata,
E nol mi manda a dire:
Ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
Che mi fanno gran guerra
La notte con la dia;
Nè in cielo nè in terra
Non mi par ch’io sia.

In seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l’amato, ora dolendosi con la croce:

La croce mi fa dolente,
E non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
Perchè m’hai così distrutta?
Oimè lassa tapina!
Ch’io ardo e incendo tutta.

Finisce così:

Però ti prego, Dolcetto,
Che sai la pena mia,
Che me ne facci un sonetto
E mandilo in Soria:
Ch’io non posso abentare
Notte, nè dia:
In terra d’oltremare
Ita è la vita mia.

La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e molto sviluppata ne’ suoi elementi musicali e ne’ suoi lineamenti essenziali.

L’amante che prega e chiede amore, l’innamorata che lamenta la lontananza dell’amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie dell’amore, sono i temi semplici de’ canti popolari, la prima effusione del [p. 9 modifica]cuore messo in agitazione dall’amore. E queste poesie, come le più semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e raffinati.

Di tal natura è il lamento dell’innamorato per la partenza in Soria della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove l’innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:


Oi lassa innamorata,
     Contar vo’ la mia vita,
     E dire ogni fiata,
     Come l’amor m’invita,
     Ch’io son, senza peccata,
     D’assai pene guernita
     Per uno che amo e voglio,
     E non aggio in mia baglia20,
     Siccome avere io soglio;
     Però pato travaglia;
     Ed or mi mena orgoglio,
     Lo cor mi fende e taglia.
O’ lassa tapinella,
     Come l’amor m’ha prisa!
     Come lo cor m’infella
     Quello che m’ha conquisa!
     La sua persona bella
     Tolto m’ha gioco e risa,
     Ed hammi messa in pene
     Ed in tormento forte:
     Mai non credo aver bene,
     Se non m’accorre morte,
     E spero, là che vene;
     Traggami d’esta sorte.

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Lassa che mi dicìa,
     Quando m’avìa in celato:
     « Di te, o vita mia,
     Mi tegno più pagato.
     Che s’io avessi in balìa
     Lo mondo a signorato ».

Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori nella loro natìa integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche trai meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta popolare, e com’è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva, e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti pur mo’ nata, e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:

Giorno non ho di posa,
Come nel mare l’onda:
Core, chè non ti smembri!
Esci di pene e dal corpo ti parte:
Ch’assai val meglio un’ora
Morir, che ognor penare.

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:

Perzò meglio varrìa
Morir in tutto in tutto,
Ch’usar la vita mia
In pena ed in corrutto,
Come uomo languente.

[p. 11 modifica]Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

Ei par ch’eo viva in noja della gente
Ogni uomo m’è selvaggio:
Non pajono li fiori
Per me, com’ già soleano,
E gli augei per amori
Dolci versi faceano agli albori.


Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia, e lo commuovono e lo interessano, senza ch’ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma è di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.

Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale. La gaja scienza, il codice d’amore, i romanzi della Tavola Rotonda, i Reali di Francia, le novelle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il Soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se colpiva l’immaginazione, rimaneva estraneo all’anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l’imitazione. Avemmo anche noi i Trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L’intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L’amore divenne un’arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna [p. 12 modifica]con forme e lineamenti fissati, così come era concepita ne’ libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere, con sentimenti fattizii e attinti da’ libri. Ma il movimento si formò negli strati superiori della società, e non penetrò molto addentro nel popolo, e non durò. Forse, se la Casa Sveva avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa Sveva e la vittoria de’ Comuni nell’Italia centrale fecero della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di Troja.

Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano messe lì, come tolto di peso, con manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini o raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa trovare, lo rende un trovatore; ma è un amore, come lo trova scritto nel codice e ne’ testi, nè ti è dato sentire ne’ suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee di voga gli tengono luogo d’ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto e di un colore, così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l’autore del canto, ove ne’ codici sia discordanza o silenzio: ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell’anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo, come erano le corti di amore, è la gaia scienza, un modo di passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina d’amore; e chi più mostrava saperne, era più ammirato. Invano cerchi ne’ canti di Federigo, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le [p. 13 modifica]agitazioni della loro vita: vi trovi il solito codice d’amore, con le stesse generalità. L’arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale, concetti, frase, forme, metri: un meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle donne; la Nina Siciliana e la compiuta Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.

Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all’effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene. Anche nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e d’immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma, che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano dal vero e dalla natura, ed hai tutti i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori d’Italia, e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt’i difetti della decadenza, un seicentismo che infetta l’arte ancora in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti, così crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c’è, ma freddo e meccanico. Concetti, i immagini, sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che il lettore ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata, come il concetto, e scopre l’artificio di un lavoro; a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro, sì che rivelasse nel poeta una vera svogliatezza e attività dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch’esso dal di fuori. Eccone un esempio:

Umile sono ed orgoglioso,
Prode e vile e coraggioso,

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Franco e sicuro e pauroso,
E sono folle e saggio.
Facciome prode e dannaggio,
E diraggio
Vi’ como
Mal e bene aggio
Più che null’omo.


Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casacccio.

I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il Notajo Jacopo da Lentino.

Guido, Dottore o, come allora dicevasi, Giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la storia della caduta di Troja, di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l’acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinità d’immagini e concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

Ancor che l’aigua (acqua) per lo foco lasse
    La sua grande freddura,

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Non cangerea natura,
Se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
Anzi avverrea senza alcuna dimura
Che lo foco stutasse,
O che l’aigua seccasse.
Ma per lo mezzo l’uno e l’altro dura.
Così, gentil criatura,
In me ha mostrato amore
L’ardente suo valore,
Che senz’amore — era aigua fredda e ghiaccio.
Ma el m’ha sì allumato
Di foco, che m’abbraccia,
Ch’eo fora consumato,
Se voi, donna sovrana,
Non foste voi mezzana
Infra l’amore e meve,
Che fa lo foco nascere di neve.

E non si ferma qui, e continua con l’acqua e il foco e la neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo spirito ch’io aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia, e conchiude ch’ella lo tira a sè, ed ella sola può, come di tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre, paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure dissimulate nell’artificio della forma; perchè se guardi alla condotta del periodo, all’arte de’ passaggi, alla stretta concatenazione delle idee, alla felicità della espressione in dir cose così sottili e difficili, hai poco a desiderare.

In Jacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza massime ne’ sonetti. Non mancano movimenti d’immaginazione ed una certa energia d’espressione, come:

Ben vorria che avvenisse
Che lo meo core uscisse

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Come incarnata tutto,
E non dicesse mutto ― a voi sdegnosa:
Ch’ Amore a tal m’addusse,
Che se vipera fusse,
Naturia perderea:
Ella mi vederea: fora pietosa.


Ma son affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella rozza e trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d’amore, come:


Fino amor de’ fin cor vien di valenza
E scende in alto core somigliante,
E fa di due voleri una voglienza,
La quale è forte più che lo diamante,
Legandoli con amorosa lenza,
Che non si rompe, nè scioglie l’amante.


Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una maniera falsa è affettata, come è un sonetto, che comincia:


Lo viso, e son diviso dallo viso,
   E per avviso credo ben visare,
   Però diviso viso dallo viso,
   Ch’altro e lo viso che lo divisare, ec.


Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali; come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne’ più rozzi trovi de’ brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca, Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a Re Manfredi:


E vero certamente credo dire,
Che fra le donne voi siete sovrana,
E d’ogni grazia e di virtù compita,
Per cui morir d’amor mi saria vita.


[p. 17 modifica]L’Intelligenzia, poema allegorico, pieno d’imitazioni e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra nell’ignoto autore un’anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C’è una descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il sentimento. E continua così:


Ed io stando presso a una fiumana
In un verziere all’ombra di un bel pino,
D’acqua viva aveavi una fontana
Intorneata di fior gelsomino
Sentia l’aire soave a tramontana:
Udia cantar gli augei in lor latino;
Allor sentio venir dal fino amore
Un raggio che passò dentro dal core,
Come la luce che appare al mattino.


E descrive così la sua donna:


Guardai le sue fattezze delicate,
Che nella fronte par la stella Diana,
Tant’è d’oltremirabile beltate,
E nell’aspetto sì dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
Che color di cristallo o fior di grana:
La bocca picciolella ed aulorosa,
La gola fresca e bianca più che rosa,
La parladura sua soave e piana.
Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
Che stanno in sì salutevole loco,
Quando li volge, son sì dilettosi,
Che il cor mi strugge come cera foco,
Quando spande li sguardi gaudiosi,
Par che il mondo si allegri e faccia gioco.


Qui ci è un vero entusiasmo, lirico il sentimento della [p. 18 modifica]natura e della bellezza: ond’è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi: così è giovine e fresca.

E se il sonetto dello sparviero è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, e un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un’anima piena di tenerezza e d’immaginazione.

Tapina me che amava uno sparviero,
     Amaval tanto ch’io me ne moria;
     A lo richiamo ben m’era maniero,
     Ed unque troppo pascer nol dovria.
Or è montato e salito sì altero;
     Assai più altero che far non solia;
     Ed è assiso dentro a un verziero,
     E un’altra donna l’averà in balìa.
Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito;
     Sonaglio d’oro ti facea portare,
     Perchè nell’uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
     Ed hai rotto li geti21 e sei fuggito,
     Quando eri fermo nel tuo uccellaro.

Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.

Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, nè l’elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall’immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche [p. 19 modifica]nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e musicale, come da uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata de’ dialetti meridionali.

La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile Signore Federico e il bennato Re Manfredi dieron luogo ai Papi e agli Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il dí sopra in Toscana, e la libertà de’ comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata nell’Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De’ Siciliani non rimase che questa epigrafe:

Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.


Note

  1. Sono ostinate
  2. Parabole o paraole, parole. Nel basso latino si dice parabola.
  3. Dimína, come dimíno per domíno o dominio.
  4. Persuade, ammonisce. In provenzale e spagnuolo si dire admonestar.
  5. Percacciare, dar la caccia: in provenzale percassar.
  6. Potestas, podesta, come majestas, maesta
  7. Pentere, ripentere dal latino poenitere.
  8. Eo da ego, come meo da meus, abl. meo.
  9. Pentessi, pentesse: desinenza conforme alla latina poenituisset.
  10. Piuttosto, o innanzi: in provenzale davant.
  11. In napoletano, acciso, nel basso latino aucir, nel provenzale aucire e aucis, nell’antico francese occire.
  12. Nel basso latino prisus e riprisus, in siciliano prisu e riprisu. Ca vuol dire che, o perchè, ed è napoletano.
  13. Ieri sera: in provenzale er ser, dal latino heri sero.
  14. Correnno, forma napoletana, quanno, munno, dicenno, correnno ecc.
  15. Alla distisa, alla distesa, a tutta corsa.
  16. Acquisiti in luogo di acquistati, desinenza dell’imperativo usata anche oggi in parecchi luoghi: acquistiti riposo, vuol dire: vattene in pace, ritirati, e finiscila, acquetati.
  17. Canzonieri, canzonero, canzonere, vuol dire canzonatore, burlatore.
  18. Paraole o parabole, in provenzale paraulas.
  19. Gueri, o, come è in Brunetto Latini, guero, guari, punto, niente affatto, in francese guère.
  20. Baglia, balìa.
  21. Geto è un lacciuolo di pelle che si lega a’ piè degli uccelli.