Storia di Milano/Capitolo XVI

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Capitolo XVI

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STORIA

DI MILANO




CAPO DECIMOSESTO


Repubblica di Milano, che termina colla dedizione

a Francesco Sforza.

Prima ch’io narri gli avvenimenti della repubblica di Milano, vuolsi esaminare brevemente in quale stato trovavansi le potenze che avrebbero voluto signoreggiare sopra di noi. (1447) Colla morte del duca Filippo Maria era terminata la discendenza maschile di Giovanni Galeazzo Visconti, infeudata coll’imperatore Venceslao; e perciò il ducato (considerandolo come un podere) era devoluto all’imperatore. Se il destino delle città dipendesse dal solo diritto di proprietà ereditaria, l’imperatore solo, sulla base della pace di Costanza, avrebbe dovuto decidere di noi, o creando un nuovo duca, o nominando un vicario imperiale, ovvero, sotto quella denominazione che più gli fosse stata in grado, ponendo chi esercitasse la suprema dominazione dell’Impero su questa parte dell’Impero medesimo. Ma lo scettro imperiale era nelle deboli mani di Federico III, principe timido, indolente e minore della sua dignità; il quale nemmeno avrebbe potuto far valere le sue ragioni sull’Italia, oppresso, come egli era, dalle armate del re d’Ungheria. Il lungo regno di questo [p. 2 modifica]Cesare lasciò dimenticato nel Milanese il nome dell’Impero per più di quarant’anni dopo morto l’ultimo duca. La casa d’Orleans possedeva la città di Asti, portatale in dote dalla principessa Valentina, figlia del primo duca, conte di Virtù. V’era un piccolo presidio francese in quella città: ma la casa d’Orleans non regnava. Cinquantadue anni dopo ella ascese sul trono di Francia, e colle armi sostenne le sue pretensioni sul ducato di Milano, appunto come discendente dalla Valentina Visconti. Frattanto il re di Francia Carlo VII, occupato nel combattere contro gl’Inglesi, che avevano conquistate alcune province del suo regno, non aveva nè mezzi nè pensiero di rivolgersi a questa parte d’Italia in favore di suo cugino. Il papa Niccolò V, di carattere sacerdotale, non conosceva l’ambizione; e l’antipapa Felice V e il non affatto disciolto concilio di Basilea occupavano interamente la corte di Roma. Il trono di Napoli era incerto e disputato. I Veneziani e il duca di Savoia avevano formato il progetto di profittare dell’occasione; ed erano e finitimi e potenti e sagaci. La vedova duchessa di Milano, Maria di Savoia, era in Milano, e cercava di guadagnare un partito al duca di Savoia, di lei padre. I Veneziani avevano in Milano i loro fautori, e colle immense ricchezze possedevano i mezzi di sostenerli e secondarli colle armi. Il conte Francesco Sforza pareva che nemmeno dovesse porre in vista le insussistenti pretensioni della moglie e del suo primogenito, esclusi per la investitura imperiale dalla successione nel ducato. La condizione del conte era anche più degradata di quella del duca d’Orleans, attesa la viziata origine della Bianca Maria. Egli possedeva Cremona, recatagli in dote; comandava un possente numero d’armati; aveva il nome più illustre [p. 3 modifica]di ogni altro nella milizia di que’ tempi. Ma un Romagnuolo, nato in Samminiato da Lucia Trezania, senza parenti illustri, e che non ebbe fra suoi antenati un nome degno di memoria, trattone suo padre (a cui il conte Alberico di Barbiano, sotto del quale militava, diede il sopranome Sforza), non pareva posto in condizione da disputare con alcuno la signoria di Milano, meno poi di prevalere. In questa situazione si trovò la città di Milano, quando, nel 1447, morì l’ultimo duca, ed ella intraprese a governarsi a modo di repubblica.

Appena aveva cessato di vivere Filippo Maria, che cominciarono a comparire nuove leggi e regolamenti sotto il nome de’ capitani e difensori della libertà di Milano. Il primo proclama col quale annunziarono la loro dignità e il loro titolo, fu del giorno 14 agosto 1447, cioè il primo dopo la morte del duca. In esso questi capitani e difensori della libertà di Milano confermarono per sei mesi prossimi a venire il generoso Manfredo da Rivarolo de’ conti di San Martino nella carica di podestà della città e ducato. Questi nuovi magistrati però non pretesero d’invadere tutta l’amministrazione della città; anzi lasciarono che i maestri delle entrate dirigessero le finanze e le possessioni che erano state del duca; e lasciarono pure che il tribunale di Provvisione regolasse la panizzazione, le adunanze civiche, l’annona e gli altri oggetti di sua pertinenza. I capitani e difensori, considerandosi investiti dell’autorità sovrana, riserbate al loro arbitrio le cose veramente di Stato, col dare, quand’occorreva, ordini al podestà, al capitano di giustizia, al tribunale di Provvisione ecc. [p. 4 modifica]pe’ casi straordinari, lasciarono a ciascun magistrato la cura di provvedere, secondo i metodi consueti e regolari, a quanto soleva appartenere alla di lui giurisdizione. Questi capitani e difensori della libertà non avevano però ragione alcuna per comandare agli altri cittadini. S’erano immaginato un titolo, creata una carica, attribuita una autorità, addossata una rappresentanza tumultuariamente, per usurpazione e sorpresa, non mai per libera scelta della città. Se un virtuoso entusiasmo di gloria e di libertà avesse animati coloro ad ascendere alla pericolosa rappresentanza del sovrano, potevano, annientato ogni privato interesse, primeggiando il solo pubblico bene, andare cospiranti e unanimi, e adoperare così la forza pubblica [p. 5 modifica]col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come sperare che si accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città oppressa da una serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo resosi sovrano, e la opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione delle parti di lui medesimo; nè era riserbato nemmeno ai più accorti il prevedere la poca solidità e durata di un tal sistema, manifestatamente vacillante. Già nel capitolo antecedente nominai i fautori principali del governo repubblicano, cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era probabile che le altre città della Lombardia superassero il ribrezzo di farsi suddite di una città metropoli, governata a caso e senza una costituzione politica. In fatti due sole città, cioè Alessandria e Novara si dichiararono di essere fedeli a Milano; le altre o progettarono di voler governarsi a modo di repubblica indipendente, o posero in deliberazione a qual principe sarebbe stato meglio di offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti; gli uni volevano Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia; altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di Ferrara; altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco Sforza. Il Corio, che ciò racconta, non fa menzione dell’ottavo partito, che sarebbe stato quello di reggersi da sè e collegarsi in una confederazione di città libere; o meglio ancora unirsi in una sola massa e formare un governo comune. Nè ciò pure terminava la serie de’ mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, occupavano i loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano gl’innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno [p. 6 modifica]era più sicuro di possedere qualche cosa di proprio; la vita era in pericolo non meno di quello che lo erano le sostanze; il disordine era generale e uniforme; il che doveva accadere in una numerosa e ricca popolazione, rimasta priva del sistema politico, mentre con incerte mire tentava di accozzarne un nuovo. Il castello di Milano non poteva torreggiare sopra di una città che voleva essere libera e temeva un invasore; perciò con pubblico proclama si posero in vendita i materiali di quella ròcca.

Il conte Francesco Sforza, appena ebbe l’annunzio della morte del duca, s’incamminò diligentemente verso Milano, abbandonando la Romagna, ove si trovava. I Veneziani erano nella circostanza la più favorevole per impadronirsi del Milanese. Lodi, Piacenza ed altre città desideravano di vivere sotto la repubblica veneta. Francesco Sforza vedeva che i Veneziani erano i più potenti ad invadere e conquistare questo ducato, ch’egli aveva in mente di far suo; sebbene le circostanze non gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze de’ Veneti già si trovavano nel Milanese prima che il duca morisse, il che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s’erano essi presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte di Brianza, così v’era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero l’imminente pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la morte di Filippo Maria, che la repubblica milanese dovette eleggere un comandante capace di opporsi alle forze [p. 7 modifica]venete e salvarla; e questa scelta cadde nel conte Francesco Sforza, dichiarato capitano delle nostre armate. I denari de’ Milanesi erano necessari per mantenere un corpo numeroso di soldati, e ai Milanesi era necessario un gran capitano, la cui mente e valore, opportunamente dirigendo la forza, li preservassero dall’invasione dei Veneti. Questi bisogni vicendevolmente unirono da principio lo Sforza e i repubblicani nascenti, se pure il nome di repubblica poteva convenire a una illegale adunanza, che governava senza autorità e senza principii.

Una prova della incertezza di quel governo la leggiamo nel proclama che i capitani e difensori della libertà pubblicarono in data 21 settembre 1447. Per ordine di questi vennero pubblicamente consegnati alle fiamme i catastri che servivano alla distribuzione de’ carichi, affine di rallegrare il popolo; e si credette fondo bastante per le spese pubbliche [p. 8 modifica]la spontanea generosità di ciascun cittadino. Appena due settimane dopo si dovette pensare al rimedio; e fu quello che i medesimi capitani e difensori arbitrariamente tassassero i cittadini a un forzoso imprestito. Si obbligarono poi i sudditi a notificare quanto possedevano sotto pena della confisca, invitando gli accusatori col premio; e ciò per formare nuovi catastri per ripartire i carichi. Cercavano questi [p. 9 modifica]incerti capitani e difensori l’opinione favorevole del popolo con mezzi rovinosi, e vi rimediavano poi con ingiusti e odiosi ripieghi. Alcune delle leggi che proclamarono, poichè danno una precisa idea dello spirito di quel governo e della condizione di que’ tempi, non sarà discaro al lettore ch’io qui trascriva. Nei primi momenti della inferma Repubblica, incerti della loro autorità, privi di legale sanzione, in una città divisa in partiti, attorniata da città che non eranle amiche, coll’armata veneta che invadeva le sue terre, coi Savoiardi e Francesi, che minacciavano d’occuparlene dalla parte opposta, costretta a confidarsi al pericoloso partito di collocare nelle mani del conte Sforza il poter militare in così importante e seria situazione, pubblicarono un ordine il 18 ottobre 1447, rinnovando irremissibilmente la pena del fuoco ai pederasti. Gli uomini nei più [p. 10 modifica]pressanti disastri cercano l’aiuto della Divinità colla maggiore istanza, e a tal uopo credonsi di ottenerlo persino col sacrificio d’umane vittime. I Greci cercavano i venti col sangue d’Ifigenia; i Romani placavano il cielo seppellendo uomini vivi; i nostri, bruciando i peccatori. Le pazzie e le atrocità di un secolo si assomigliano alle pazzie e atrocità d’un altro, a meno che la coltura e la ragione, diffondendosi largamente, non indeboliscano i germi del fanatismo inerente all’uomo; e questa coltura, questa filosofia, contro la quale ancora v’è chi declama, formano appunto l’unica superiorità de’ tempi presenti, Oggidì un popolo che aspiri a diventar libero e combatta per sottrarsi dall’imminente giogo, non pubblicherà certo una legge per proibire ai barbieri di far la barba ne’ giorni festivi. Ha ben altro che fare chi si trova al timone della Repubblica fra la tempesta, che vegliare su di questi meschini e [p. 11 modifica]indifferenti oggetti; eppure allora si proclamò un bando cosiffatto. [p. 12 modifica]

Anco un’altra legge ho riscontrata in quei tempi, la quale merita d’essere ricordata, perchè ci fa conoscere alcuni ripieghi politici, i quali volgarmente si credono d’invenzione di questi ultimi tempi, non erano punto sconosciuti negli stati d’Italia alla metà del secolo decimoquinto; cioè le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai come sino dall’anno 1240 s’era posta in uso da noi la circolazione della carta in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero leggi assai opportune; ora dall’editto del 9 gennaio 1448 verrà assicurato il lettore dell’antichità delle lotterie, ossia tontine, di quei tributi spontanei in somma ai quali si adescano i cittadini colla lusinga di arricchirli. [p. 13 modifica]Colle note potrà il lettore dalla sorgente istessa conoscere da quai principii fosse regolato quel [p. 14 modifica]governo, a qual grado fosse la coltura, a quale elevazione si trovasse la politica; nè sulla asserzione [p. 15 modifica]mera dello storico dovrà persuadersi della infelicità di que’ tempi.

Ora conviene ch’io ponga sott’occhio una fedele immagine del nuovo comandante delle armi milanesi Francesco Sforza. Sì tosto che il conte Francesco fu creato capitano generale della repubblica di Milano, e che l’armata di esso conte venne allo stipendio de’ Milanesi, ei si trovò alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato e dai Veneziani, e da ogni altro pretendente. Se egli le avesse rivoltate allora per assoggettare a sè il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e l’entusiasmo della nascente libertà de’ popoli, non per anco staccati dai disordini dell’anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato fors’anco del tradimento che si faceva ai Milanesi, della illegalità delle pretensioni sue alla successione nel ducato; si doveva temere o la defezione o la svogliatezza. Il conte conosceva i tempi, gli uomini e gli affari. Egli era venerato come il più gran generale del suo tempo. Sapeva farsi adorare da’ suoi soldati, che egli, con una prodigiosa memoria, soleva quasi tutti chiamare col loro nome. Nella azione si esponeva con mirabile indifferenza e intrepidezza, e con voce militare animava nella mischia i combattenti. Padrone assoluto de’ propri moti, sapeva celare le cose che gli dispiacevano con mirabile superiorità d’animo. Accortissimo conoscitore dei pensieri altrui, antivedeva le risoluzioni de’ nemici, che lo trovavano preparato mentre s’immaginavano di sorprenderlo. La reputazione dello Sforza era tale, che, venendo da’ Veneziani attaccato un drappello dei suoi ch’egli aveva postati a Montebarro, vi giunse il conte Francesco nel punto in cui i nemici vincevano [p. 16 modifica]pienamente. Al solo avviso della inaspettata sua presenza, si posero in fuga i vincitori; anzi innoltrandosi egli incautamente ad inseguirli, si trovò come attorniato e preso da essi; ma invece di farlo prigioniere, i nemici deposero le armi, e scopertisi il capo, riverentemente lo salutarono, e qualunque poteva, con ogni reverentia li tochava la mano perchè lo reputavano patre de la militia ed ornamento di quella; così il Corio. Sin dalla sua gioventù egli inspirava rispetto per la nobile e dignitosa figura, e più per la saviezza, prudenza, costumatezza ed eleganza nel parlare; onde l’istesso Filippo Maria admirabatur enim magis atque magis quotidie tum illius prudentiam, facundiam egregiosque mores, tum formae praestantiam, vultus gestusque dignitatem. Un fatto raccontatoci dallo storico Giovanni Simonetta, che viveva in que’ tempi, mostra l’indole generosa del conte Francesco, e la singolare di lui prudenza nel fiore degli anni suoi. Sforza suo padre, mentre guerreggiava nell’Abruzzo, aveva affidato a Francesco un corpo. Ivi guerreggiavano i due partiti francese e spagnuolo, ossia gli Angioini contro gli Aragonesi. Si formò una trama segreta fra i soldati sottoposti a Francesco Sforza; e improvvisamente una gran parte di essi tradì la fede, e, abbandonando il giovine Francesco, passò al nemico. Francesco co’ pochi rimastigli fedeli si ricoverò in luogo munito. Appena ottenuto dal padre nuovo soccorso, si scagliò contro i nemici, e fece prigionieri tutti i traditori. Ne spedì la novella a Sforza di lui padre, chiedendo i suoi comandi sul trattamento da farsi a questi prigionieri. Sforza gli mandò il comando di farli, tutti quanti erano, impiccare. Al ricevere [p. 17 modifica]un tal riscontro rimase pensieroso il giovane Francesco, e dopo qualche taciturnità interpellò il messaggero: Dimmi; con quale aspetto parlò mio padre, che t’incaricò di quest’ordine? Il messaggere rispose ch’egli era assai incollerito. Non lo comanda adunque mio padre, disse Francesco; questo è l’impeto di un uomo sdegnato, e mio padre a quest’ora è pentito di aver detto così: indi, fatti condurre alla sua presenza i prigionieri, poichè mio padre, diss’egli, vi perdona, io pure vi perdono. Siete liberi; se volete restare al nostro stipendio, vi accetto come prima, se volete partire, fatelo. La sorpresa di que’ soldati, che si aspettavano il supplizio, fu tale che, lacrimando e singhiozzando, giurarono fede alle insegne sforzesche, e in ogni incontro poi se gli mostrarono affezionatissimi e valorosi. Quando Sforza intese il fatto, confessò che Francesco era stato più prudente di se stesso. Questo avvenimento ci fa risovvenire delle Forche Caudine: lo Sforza fu assai più avveduto che non si mostrò Ponzio. Francesco amava e venerava suo padre, e con ragione. Mentre appunto nel regno di Napoli Francesco stava alle mani coi nemici, vennegli il crudele annunzio che, poco discosto, Sforza suo padre, volendo soccorrere un suo paggio, erasi miseramente affogato nel fiume, che stavano passando. Questa era la massima prova che potesse dare della padronanza di se medesimo, Francesco, soffocando l’immenso dolore, e dirigendo la battaglia con mente e faccia serena, come fece. Questi fatti bastano [p. 18 modifica]per darci idea di questo illustre Italiano, che diventò poi nostro principe.

Agnese del Maino s’era ricoverata nella ròcca di Pavia, dove ella ebbe influenza bastante per rendere preponderante il partito di coloro che scelsero per loro principe il conte Francesco, genero di lei. Se il conte avesse accettata questa sovranità mentre era allo stipendio de’ Milanesi, senza l’assenso loro, avrebbe mancato al dovere. Pavia era, ed è una parte dello Stato di Milano vicina ed importante. Il conte Francesco però fece conoscere che, attesa l’antica avversione, non sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione di Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia, ovvero ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli poi da quella città munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato, esposto alle invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi per quella navigazione. In somma persuase che l’interesse di Milano era, dover Pavia cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro principe. Per tal modo, coll’assenso de’ Milanesi, il conte Francesco diventò signore di Pavia; e così due città principali del ducato, Cremona e Pavia, una per dote, l’altra per dedizione, furono del conte Francesco.

Non sì tosto ebbe il conte acquistata Pavia, che s’innoltrò colle sue armi sotto Piacenza, occupata da’ Veneziani, e se ne impadronì il giorno 16 dicembre 1447. Così, appena trascorsi quattro [p. 19 modifica]mesi dalla morte del duca, il conte s’era già reso padrone del corso del Po; padronanza la quale indirettamente lo rendeva arbitro di Milano, che non ha altro sale per i bisogni della vita, se non di mare, che conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i Francesi, che stavano al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona; ma vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte Francesco. Così, al terminare dell’anno in cui era morto Filippo Maria, il conte possedeva già una importante porzione del ducato.

I repubblicani, o, per nominarli con maggior proprietà, gli oligarchi milanesi conoscevano la loro situazione e il pericolo imminente di ricadere sotto la dominazione d’un uomo solo, cosa generalmente detestata; per ciò si rivolsero secretamente a fare proposizioni di accomodamento coi Veneziani: anzi si progettò una confederazione fra le due repubbliche per la difesa reciproca della loro libertà e signorie, offerendo a’ Veneziani il dominio di Lodi, oltre quei di Bergamo e Brescia, che le armi venete avevano già conquistate sotto il regno dell’ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per attraversare la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v’era più sicurezza se a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quando meno ce lo saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San Marco e città provinciale e squallida; che non v’era più una sola notte tranquilla pe’ Milanesi, se una così vergognosa cessione si facesse. La plebaglia, mossa da ciò, andava per le strade urlando: guerra, guerra contro de’ Veneziani! e così vennero forzati gli usurpatori del governo, [p. 20 modifica]i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in disparte. Frattanto il conte Francesco, sempre vittorioso, con molti e piccoli fatti d’arme avendo fatto sloggiare i Veneti dalle rive del Po, stava risoluto di movere sotto Brescia, e toglierla ai Veneti, che da ventidue anni la possedevano per conquista fattane dal Carmagnola, siccome vedemmo nel capitolo precedente. Presa una volta Brescia, non potevano più i Veneziani conservare Bergamo nè Lodi, nè altra parte delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora cominciarono più che mai a temere, forse più de’ nemici, il loro capitano generale; il quale se riusciva, come era probabile di rendersi padrone di Brescia, l’avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto di Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l’avrebbe costretta, non che a rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono adunque ordini al conte, comandandogli che non altrimenti s’innoltrasse a Brescia, ma si portasse a Caravaggio e facesse sloggiare i Veneti da quel borgo. Il conte ubbidì. Nella sua armata eravi il Piccinino, generale emulo e nemico del conte: le operazioni militari o s’eseguivano lentamente, ovvero venivano attraversate: si lasciava penuriare il campo dello Sforza d’ogni sorta di foraggi e di viveri: l’armata veneziana che stavagli di fronte, era di dodicimila e cinquecento cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi egli venne a una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poichè nei contorni di Mozzanica venne il conte còlto dai Veneziani talmente all’improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente; onde si pose a comandare e diresse l’azione mancandogli i bracciali. L’insidiosa emulazione fu quella che rese inoperosi i drappelli di osservazione che [p. 21 modifica]egli aveva postati verso del nemico, il quale perciò potè cadere con sorpresa sull’armata del conte. V’erano, siccome dissi, il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini, generali di cattivo animo. Il conte, mezzo disarmato, espose più volte se stesso al più forte della mischia, riconducendo i fuggitivi all’attacco, animando colla voce e coll’esempio i soldati; in somma tanto gloriosa fu quella giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i Veneti, e tanti furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedarli per mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di trionfo le insegne di san Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro Cotta, che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano colle medesime, conducendo i più illustri prigionieri, fra i quali un Dandolo ed un Rangone.

Questa vittoria di Mozzanica dava sempre maggior motivo di temere lo Sforza; e il Piccinino, generale di credito, nemico del conte, cercava di accrescere il popolar timore, fors’anco sulla speranza di acquistare per se medesimo poi quella sovranità che ora faceva comparire esosa ed esecranda. Giorgio Lampugnano era, fra i più accreditati [p. 22 modifica]Milanesi, quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da’ principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravii, obbligandoci a riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l’impresa di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s’erano presa; ma non lo vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d’ogni specie ritardati; le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della libertà, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione, perchè, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti si univano contro l’imminente fortuna del conte; il quale, posto in tale condizione, ascoltò le proposizioni della repubblica veneta, e segretamente stipulò un trattato per cui egli si obbligò a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila [p. 23 modifica]fiorini d’oro al mese, sin tanto ch’egli non si fosse impadronito di Milano. Poichè il trattato fu concluso, il conte lo pubblicò nel suo esercito. Sì tosto che i Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza e i Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini, cercando con modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi offrendo ogni soddisfazione, salva sempre la Repubblica. Ma il conte aveva già presa palesemente la sua determinazione; e, senza mistero, espose ad essi le ragioni ch’egli asseriva competere e a Bianca Maria, di lui moglie, e a se medesimo e a’ figli suoi, per la successione nel dominio di Filippo Maria, suo suocero: sè essere determinato a farle valere ad ogni costo. Che se i Milanesi, deposta la chimerica pretensione d’erigersi in repubblica, di buon grado riconoscevano lui per sovrano, egli avrebbe avuta cura della salvezza e felicità di ciascuno; che se, all’incontro, si fossero ostinati a sostenere una illusione di libertà, che, in sostanza, era una rovinosa oligarchia, doveano attribuire a loro stessi i mali che avrebbero sofferti, obbligandolo, suo malgrado, ad usare contro di essi la forza. Furono con tal risposta congedati i legati Giacomo Cusano, Giorgio Lampugnano e Pietro Cotta; e, mentre con tristezza s’incamminavano a recare questo poco favorevole riscontro alla loro patria, vennero dileggiati non solo, ma insultati e svaligiati dalla licenza militare di alcuni soldati sforzeschi. Intese ciò con isdegno il conte, e, prontamente rintracciati i malvagi soldati, convinti del delitto, immantinente furono impiccati; la roba al momento venne spedita ai legati, a’ quali di più aggiunse il conte altri regali, per riparare quanto poteva il danno sofferto da essi. La nobile generosità del conte Francesco sorprese i legati. [p. 24 modifica]

I Veneziani spedirono le loro truppe a servire come ausiliarie al conte. La repubblica fiorentina inviogli i suoi legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per tal modo sicuro dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a circondare sempre più Milano. Da Pavia spinse le forze al castello d’Abbiategrasso, e lo costrinse bentosto alla resa. È memorabile il fatto che, mentre il conte Francesco conteneva i suoi, vietando loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura vennegli scoppiata un’archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il conte, illeso, placidamente impedì che si facesse male a veruno. Fattosi padrone di Abbiategrasso, prese a sviare l’acqua del Naviglio, e per tal modo rese inoperosi i mulini di Milano. S’innoltrò a Novara, e se ne impadronì. I Tortonesi spontaneamente si diedero al conte. Vigevano pure spontaneamente lo volle per suo sovrano, discacciando i Savoiardi che l’occupavano; Alessandria fece lo stesso; Parma si assoggettò. Mentre le cose erano a tal segno, i Milanesi scelsero per loro comandante Carlo Gonzaga. Allora il Piccinino, che forse aveva adocchiata [p. 25 modifica]la signoria di Milano, vedendosi preferito il marchese Gonzaga, anzi che servire sotto di lui, passò ad offrirsi al conte Francesco Sforza. Egli era stato sempre, siccome dissi, emulo non solo, ma nemico e atroce nemico del conte; ciò nondimeno il conte lo accettò per suo generale, e gli accordò un onorevole stipendio. Due uomini volgarmente zelanti, certo Barile e certo Frasco, andavano animando il conte perchè lo facesse uccidere, o per lo meno lo imprigionasse come irreconciliabile nemico, che, per necessità, simulava in quel momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli sarebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s’era abbandonato al suo potere. In fatti il Piccinino desertò poi con tremila cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di più alla di [p. 26 modifica]lui fama, e un contraposto sempre più glorioso pel conte Francesco.

Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per la libertà, s’erano cambiati ed erano diventati fautori del conte Sforza, o fosse ciò accaduto perchè l’esperienza gli avesse convinti della impossibilità di adattare stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virtù grandi del conte, e le speranze sotto la sovranità di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s’interpretarono; si connobbe la trama di aprirgli le porte della città, e si destinò di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficultà consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poichè i magistrati non avevano forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all’imperatore, per implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta. Essi cercavano di procrastinare la partenza per essere mal sicure le strade; ma Carlo Gonzaga seppe sì bene fingere, che, apprestata loro una buona scorta d’armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove assicurògli che sarebbesi sborsata loro una conveniente somma di danaro per inoltrarsi nella Germania e fare la commissione. Adescati così, caddero nell’insidia. Usciti appena dalla città, furono costretti dai soldati del Gonzaga a passare a Monza, ove Giorgio Lampugnano venne subito decapitato, [p. 27 modifica]e la sua testa, portata a Milano, fu esposta al pubblico. Indi, a forza di torture, Teodoro Bosso in Monza fu costretto a nominare i complici, a’ quali tutti fu troncata la testa alla piazza de’ Mercanti, e furono Giacomo Bosso, Ambrogio Crivello, Giovanni Caimo, Marco Stampa, Giobbe Orombello e Florio da Castelnovato. Vitaliano Borromeo, il di cui nome pure trovavasi fra i proscritti, potè uscire dalla città e salvarsi.

Oppressi per tal modo i primari del partito nobile, del quale poco si fidava il Gonzaga, e sollevata la plebe ad ambire il comando della Repubblica, il disordine e lo scompiglio divennero generali nell’interno della città. Artigiani, giornalieri, plebaglia la più sfrenata arrogantemente cominciarono a disporre e della vita e delle fortune altrui a loro piacimento. Giovanni da Ossona e Giovanni da Appiano si segnalarono colle tirannie, usurpandosi una dittatoria facoltà e il dominio della repubblica. Il Corio li chiama uomini iniquissimi e scellerati. Saccheggiare i granai de’ proprietari delle terre; sforzare di notte con mano armata l’asilo delle private famiglie, rubando le gioie, gli argenti, e quanto v’era di meglio; costringere colla minaccia dell’oppressione i nobili agiati a manifestare e consegnare i denari che possedevano; quest’era la forma colla quale costoro percepivano il tributo col pretesto di mantenere l’armata a salvamento della Repubblica. Si pubblicò pena di morte a chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si andava gridando che, piuttosto che a lui, si darebbero al Turco o al diavolo. I cittadini ragionevoli non ardivano nemmeno d’uscire dalle case loro sotto di un sì atroce governo. Per rimediare al disordine, Guarnerio Castiglione, Pietro Pusterla e Galeotto [p. 28 modifica]Toscano formarono un triumvirato, e si posero alla testa della città. Chiusero in carcere l’Ossona e l’Appiano. La plebaglia liberò dal carcere costoro; indi a furore insurgendo contro i triumviri, Galeotto Toscano venne scannato sulla piazza dei palazzo ducale; i due altri si sottrassero colla fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di merito. Le case de’ migliori cittadini vennero saccheggiate: in somma la misera patria divenne orrendo teatro di sciagure.

In mezzo alle vicende e alle angustie della città stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la quale, cogliendo l’opportunità, sparse la speranza che il duca di Savoia, di lei padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. In fatti il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorchè vide comparire questo nuovo nemico al conte Sforza abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occupò, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una città bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d’un assalto; ma l’inviato non potè parlare se non a quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranità. Il marchese Gonzaga, vedendo però le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva quasi tutte le città del contorno, l’ascendente del valor suo e della scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessità lo costringesse a perdere la carica di capitano dei milanesi senza verun compenso. Trattò col conte Francesco; e fu convenuto ch’egli passerebbe allo stipendio del conte. [p. 29 modifica]

I Milanesi, attorniati dallo Sforza, già padrone di Cremona, Parma, Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de’ borghi e terre ancora più vicine; vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non potendosi fidare sul Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di Savoia; in mezzo ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati, oppressi da’ propri magistrati; non avendo un uomo solo di qualche merito nelle cariche, usurpate da’ più violenti, e da chi meno conosceva l’arte di reggere una città, e meno forse degli altri si curava della felicità della patria; in tale misero stato si pensò da alcuni a conciliare la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano; il che, sebbene recentemente si foss’ella collegata col conte, non mancò del suo effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese, avendovi casa di negozio: costui venne incaricato d’invocare il senato veneto, amatore della libertà, in favore della patria. Fu ammesso il Panigarola a trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo lo stato a cui erano ridotti i Milanesi, non per altro, se non perchè ricusavano essi un giogo ingiusto e illegale, e volevano reggersi da sè con una libera costituzione. Turpe cosa, diss’egli, che i Veneziani, illustri difensori della libertà, si colleghino con un usurpatore, per porre i ceppi agl’Italiani, loro confratelli. Assicurò che se la Repubblica cessava di far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a questa nascente repubblica, dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero amato e venerato i Veneziani come loro padri e Dei tutelari; che da una generazione all’altra ne sarebbe passata ai secoli la divozione e la gratitudine. Il discorso del Panigarola commosse gli animi; ma più ancora erano commosse le menti del [p. 30 modifica]senato dalle lettere che andava scrivendo il nobil uomo Marcello, il quale, per commissione della Repubblica, stava al fianco del conte. Testimonio della prudenza e del grand’animo del conte Sforza, ammiratore della imperturbabile fermezza di lui negli avvenimenti prosperi e avversi; vedendo la benevolenza somma che avevano per lui i soldati, non meno che i suoi sudditi, colpito continuamente dalla superiorità de’ talenti suoi nel mestiere dell’armi, andava esso Marcello colle sue lettere intimorendo il senato, parendogli facil cosa che, poichè lo Sforza avesse acquistato Milano, pensasse poi a riunire le membra del ducato, e ricuperando Brescia, Vicenza e fors’anche Padova, ritornasse ad occupare quanto settantadue anni prima era soggetto al conte di Virtù, primo duca. Queste circostanze produssero l’effetto che: primieramente, i Veneziani trascurarono di spedire i convenuti soccorsi al conte; e gli stipendiari loro, che servivano nell’armata di lui, cambiando costume, più non volevano concorrere od esporsi; indi, senz’altro, abbandonarono il campo. Non faceva mestieri di tanto, perchè il conte s’avvedesse del cambiamento de’ Veneziani; i quali, per mezzo di Pasquale Malipiero, fecergli noto avere la loro repubblica fatta la pace coi Milanesi. Le condizioni erano, che tutto lo spazio compreso fra l’Adda, il Ticino e il Po rimanesse della repubblica di Milano, trattane Pavia, che si sarebbe lasciata al conte; e il rimanente dello Stato posseduto dal duca Filippo Maria passasse al conte Francesco Sforza. I Veneziani poi, oltre Brescia, Bergamo e Crema, rimanevano padroni di Triviglio, Caravaggio, Rivolta e altre terre del ducato.

Un tal partito non poteva convenire al conte, giacchè [p. 31 modifica]la maggior parte del ducato e la capitale medesima venivagli sottratta, e se gli assegnava una sovranità di tante membra quasi staccate, estesa per lungo spazio, difficile a custodire. Si rivolse egli adunque ad accomodarsi col duca di Savoia, e colla cessione di alcune terre sull’Alessandrino e sul Novarese, si assicurò da quella parte. Indi, rivolgendosi ai Milanesi e Veneti, si pose a disputare con essi il ducato di Milano. Io non entrerò a descrivere i fatti d’arme; inutile materia per uno storico, a cui preme di conoscere lo spirito dei tempi, l’indole degli uomini, lo stato della società, e non di stendere i materiali per una tattica di poco profitto, atteso il cambiamento accaduto nella maniera di guerreggiate: basta dire che il conte Sforza in ogni parte si presentò abilissimo generale nel postare il suo campo, nel prevenire il nemico, nelle marce giudiziosamente condotte, nel cogliere il momento per attaccare, nel dirigere la battaglia, nel provvedere di tutto l’armata propria e impedire la sussistenza al nemico, nel conservare la militar disciplina, risparmiare quanto era possibile la miseria dei popoli, e nel tempo stesso conservarsi l’amore de’ soldati, che giungeva sino all’entusiasmo. (1449) Con tai superiori talenti, con virtù tale ei circondò sì bene la città di Milano, che in breve tempo si manifestò lo squallore della carestia. Egli non volle spargere il sangue de’ cittadini, nè diroccare con macchine Milano; ma costringerla per la fame a darsi a lui. In somma egli concepì quel progetto medesimo sopra Milano, che il grande Enrico IV fece poi con Parigi; e molta somiglianza troverebbesi fra l’uno e l’altro di questi grandi uomini, se venissero al paragone. Le traversie che l’uno e l’altro dovettero soffrire ne’ primi anni; i pericoli della [p. 32 modifica]vita che corsero per le insidie delle corti, nelle quali dovevano regnare poi; l’umanità, la popolarità, il valore, la perizia militare dell’uno e dell’altro sono degne di confronto. A Francesco Sforza mancò un più grande teatro sul quale mostrarsi, e spettatori più illuminati. Enrico ebbe per campo il regno di Francia, e per testimonio un secolo più colto.

La carestia fece nascere un generale disordine. Non v’era più chi volesse ubbidire. Quei che si erano arrogate le magistrature e il comando della città, [p. 33 modifica]erano considerati come buffoni del popolo. Il consiglio generale era stato composto da essi, scegliendo maliziosamente ad arte uomini inetti o del partito. Per dare apparenza al popolo che si vegliava al bene della città, i rettori fecero radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria della Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in quel contorno: cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla spensierata condotta de’ rettori e sulla dappocaggine de’ consiglieri. A misura che passavano i cittadini, si trattenevano; e cominciò a formarsi un’unione di popolari malcontenti. Ben tosto corse il grido per i quartieri della città, come vicino alla Scala vi fosse unione di malcontenti, e da ogni parte concorsero nuovi popolari, in modo che i rettori e consiglieri si trovavano assai inquieti. Laonde spedirono Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il popolo, e, colle buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe pena a salvarsi. Comparve il capitano di Giustizia Domenico da Pesare, scortato da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo i capestri; ma il popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de’ malcontenti si creò due capi: Gaspare da Vimercato e il sopranominato Pietro Cotta. Altri signori spalleggiarono i malcontenti, come Giovanni Stampa, Francesco da Triulzio, Cristoforo Pagano suddetto, Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso; vennero espulsi i magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l’organizzazione civile; se ne formò una tumultuariamente. I primarii cittadini, il giorno seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano [p. 34 modifica]rimaner liberi e non ubbidire a verun principe. Altri, conoscendo l’impossibilità di formare una repubblica in mezzo a tanti e sì appassionati partiti, in una città nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano ad ammorzate le private mire, volevano un principe. Tutti però concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa; da altri il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo da Vimercato propose il conte Francesco Sforza. Egli nel suo discorso fece vedere che la fame minacciava a giorni la morte; che nè il papa nè il re Alfonso nè il duca di Savoia avevano mezzi per salvarci al momento, come chiedeva l’urgente necessità; che non rimaneva altro partito da scegliere che o i Veneziani o il conte. Sudditi de’ Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino d’una città secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe temuta la nostra prosperità. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico, nostro concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un padre saggio, provvido, amoroso, da cui si sarebbe posto rimedio a’ nostri mali. (1450) Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si spedì tosto ad avvisarlo. Due [p. 35 modifica]mesi prima che la città si rendesse allo Sforza, si pubblicò in Milano un proclama, col premio di diecimila zecchini a chi avesse ammazzato il conte Sforza, o mortalmente ferito. Così gl’imbecilli nostri legislatori si mostravano insensibili alla virtù, ignoranti della ragion delle genti, indegni per ogni modo di comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in tanta disciplina le sue truppe, che vietò loro di non offendere per niun modo [p. 36 modifica]le terre o le persone de’ Milanesi, come si scorge dagli archivi dì città. Ma i nostri capitani e difensori, l’istesse armi che avean rivolte contro dello Sforza, le adoperavano ancora verso altri. Leggesi ne’ registri di città la taglia di duemila ducati d’oro a chi condurrà a Milano Antonio e Ugolino fratelli Crivelli, i quali avevano ceduta la fortezza di Pizzighettone al conte Sforza. Leggesi la taglia di mille ducati a chi consegnerà Francesco Borro, che aveva ceduta allo Sforza la fortezza di Lodi.

Era circondata la città di Milano dai soldati dello Sforza, e custodita con tanta esattezza, che egli era impossibile di ricevere alimento veruno. Un moggio di grano si vendeva a venti zecchini S’eran vendute pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli asini, de’ cani, de’ gatti e persino de’ sorci. Morivano sulle pubbliche strade alcuni cittadini di fame. In queste estremità, cioè tre giorni prima che Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori della libertà pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza pubblica.

Oltre il Corio, [p. 37 modifica]che minutamente descrive la desolazione di que’ tempi, e la miseria di quel governo, anche il Decembrio ce ne dà un’idea colle parole [p. 38 modifica]seguenti: - Mediolanensium res in deterius labi caepere. Nam duce destituti, dissidentibus inter se civibus, deteriora prioribus in dies pullulabant. Non pubblica numera a populo rite gubernari; non divites onera conferre; non jussa quisquam exsequi poterat; sed veluti tempestate disjecta classis, inundante pelago, hinc inde ferebatur. Si qua in residuis militibus spes affulserat, Caroli Gonzagae ambitione turbabatur, qui ad populi dominatum improbe aspirans, longa suspicione cuncta detinebat. Qua ex causa desperatione et pavore squallebant omnia. Conjurationes ad haec a quibusdam perpetratae majorem adhuc sollicitudinem singulis injecerant. Capti siquidem plerique nobilissimi Cives, et supplicio affecti sunt: Sed nec ullorum caede mali atrocitas leniri poterat... Boni praeterea, officiis exuti, nec sibi aut aliis prodesse utiles, silentio languebant; plebs vero, inter spem metumque conjecta, onus tolerabat, dominatus dumtaxat nomine exsultans. Questo veramente è uno de’ tratti più compassionevoli e umilianti della nostra storia: vorrei poterla nobilitare esponendola; ma lo storico consecrato all’augusta verità, benchè contro sua voglia, la scrive. Qual differenza mai fra Milano assediata dall’imperator Federico, e Milano bloccata da Francesco Sforza! Contro l’imperatore e contro tutt’i principi della Germania Milano si difende. Escono con valore i Milanesi dalle loro mura; si cimentano; piegano alfine traditi, soverchiati; e terminano con gloria, assicurando lo Stato della loro limitata libertà. Contro lo Sforza non v’è un tratto solo di vigore, non un lampo di civile prudenza. [p. 39 modifica]Uno spirito, ora cenobitico, ora insidiosamente timido e atroce, detta le leggi, dirige le azioni. Erano i nostri, tre secoli prima, agresti, rozzi, ma generosi, guerrieri e affezionati alla patria. I loro discendenti, degradati nella servitù di cattivi principi, sembrano un’altra nazione; e perciò il Secretario Fiorentino ebbe a dire: - Pertanto dico che nessuno accidente (benchè grave e violento) potrebbe ridurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti, che volendosi ridurre Milano alla libertà non potette e non seppe mantenerla. La città, colla mediazione di Gaspare da Vimercato, si rese a Francesco Sforza dopo trenta mesi e mezzo di anarchia, ossia d’un atroce disordine chiamato Repubblica. Le monete d’oro e d’argento battute in Milano in que’ tempi hanno da una parte sant’Ambrogio, e dall’altra la Croce e la lettera M., colla leggenda Comunitas Mediolani, e lo stemma della città. Francesco Sforza entrò in Milano il giorno 26 di febbraio del 1450. Coloro che si lagnano de’ tempi presenti, ed esaltano la felicità de’ maggiori, torno a dirlo e lo ridirò pure altra volta, non sanno la storia.