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Storia di Torino (vol 2)/Libro I/Capo V

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Libro I - Capo V

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Capo Quinto


Agro Torinese. — Il Parco, antica delizia de’ principi di Savoia. — Campo Santo. — Mirafiori. — Carlo Emmanuele i, suoi versi. — Giambattista Truchi, celebre ministro delle finanze nel secolo xvii. — Sua villa e suo palazzo. — Chiesa della Crocetta — Di S. Saivario. Serviti. Come fossero chiamati a Torino. Uomini illustri vissuti nel convento di S. Salvarlo. — Santuario della Madonna del Pilone. — Opera Manzolina alla Generala, poi ricovero di donne mondane. In ultimo Casa di correzione e Instituto agrario pei giovani discoli. — L’Ergastolo; prima stabilito pe’ giovani discoli, ora Casa di correzione e Ospedal sifilitico per le donne traviate. — Instituti della signora marchesa di Barolo. Il Rifugio ed il Rifugino. Il monastero di S.ta Maria Maddalena. La casa di Sant’Anna. — Piccola Casa della Divina Provvidenza. — Il monastero di Nostra Signora di carità del Buon Pastore.


A settentrione del giardino del Re si stende una vasta campagna compresa tra i fiumi Dora, Stura e Po.

Emmanuele Filiberto la destinò a luogo di ricreamento e di delizia, ed insieme a podere modello. E però ivi si videro grotte, fontane, uccelliere, peschiere, pergolati, viali, labirinti, boschi, monti e valli, torrenti spumanti, tranquilli canali, rocce [p. 71 modifica]e ponti alla foggia di que’ giardini che più tardi si chiamarono inglesi, e sono pure italiani d’origine e di trovato e d’esecuzione.

Chiamavasi quel luogo il Parco; e là pure stendeansi prati, campi e vigneti. La piantavansi migliaia di gelsi, seminavasi il miglior grano di Sicilia, educavansi le razze migliori di buoi, di vacche, di bufali.1

Più tardi vi si teneano anche tigri e cinghiali, daini, cervi e camozze. Vi s’alzava un magnifico palazzo chiamato Viboccone, e vi s’edificava una chiesa nel 1605. Il fresco pennello del Moncalvo2 ornava di bei dipinti il soffitto di quel casamento, posto all’estremità del parco. Questa fabbrica coperta di una graziosa cupola, con portici e colonne, e immense scalee esteriori, era, a giudicarne dai disegni, splendidissima cosa; ma Carlo Emmanuele, impedito dalle guerre, non potè condurla a termine.

Ma già dai primi anni del regno di lui le delizie di quell’ampio sito erano famose: eran frequenti le feste che vi si davano, convegno d’una delle corti più fiorite e più spiritose che fossero al mondo; ne altrove attinse Torquato Tasso la sua idea del giardino d’Armida siccome lo dichiarava per sua lettera egli stesso.

Favole pastorali recitavansi nel parco al 1601.

Ad una festa era colà invitato il maresciallo di Crequy in luglio del 1629.3 Accenna a queste delizie del Parco monsignor Giovanni Boterò nel suo poema [p. 72 modifica]della primavera là dove, parlando di Carlo Emmanuele i, scrive:


Intanto Carlo tra le spesse fronde
Di faggi e d’olmi, e tra l’erbette e i fiori
Temprando va le cure sue profonde
Dietro al concerto degli alati cori;
E parte in queste, parte in quelle prode,
Di primavera il dolce aspetto gode.

Ma via miglior stagion che primavera
Al Parco suo qualor voglia egli adduce.
Questo è il drappello e l’onorata schiera
De’ figli e figlie, onde ogni grazia eluce.
Quindi favor l’afflitta Europa spera;
Quivi i disegni suoi tutti riduce;
Quindi salute Italia attende e pace,

E frutto di vittoria non fugace.


Scesero poi i Francesi nel 1706 a’ danni d’Italia e ai nostri, ed i giocondi riposi del Parco furono il primo campo in cui s’attelarono apparecchiando l’assedio di Torino. A quel tempo il Parco, il Valentino, Mirafìori ebbero tali guasti che il primo non potè ristorarsene e tornò a far corpo colle campagne circostanti da cui la mano di Emmanuele Filiberto l’avea dispiccato. Il Valentino e Mirafìori non mostrano che una pallida ombra dell’antica magnificenza.

Ora, strana vicenda delle umane cose, dove Torquato rinveniva l’idea archetipa degli orti d’Armida [p. 73 modifica]si stende il campo dell’eterno riposo benedetto nel 1829 e surrogato ai due antichi cenotafìi.

Un ombroso viale, fiancheggiato da un largo fosso, per cui corre veloce come il tempo ampio volume di torbid’acque, emblema di queste mondane miserie, fa capo ad una piazzetta, su cui sorge una chiesuola del Santo Sepolcro, rialzata su varii gradini, ed accostata da due case. La chiesuola è tonda e riceve poco lume dall’alto, oscurità conveniente a luogo sepolcrale, e propizia al raccoglimento. In un andito laterale è il busto del marchese Tancredi Falletti di Barolo, con iscrizione che narra come fosse autore del consiglio di formare questo Campo Santo, e aiutatore dell’opera coll’usata sua liberalità.

Fra la chiesuola e le case, due cancellate danno l’accesso al campo del riposo, in mezzo al quale, sopra un calvario che si fa centro a quattro viali di cipressi, torreggia un’alta croce di pietra, simbolo di redenzione e di misericordia, scudo e speranza de’ peccatori.

Il vasto campo è cinto da un muro elevato, e foggiato a nicchie d’uno stile che ritrae dell’egiziano. In faccia a queste nicchie, interrotte a quando a quando da cappellette, si stendono altrettante aiuole, divise tra loro da scompartimenti d’ardesia; sono sepolcri di proprietà privata. Tutta la parte centrale della funebre campagna è occupata dai sepolcri comuni. [p. 74 modifica]

Entro alle nicchie allogano lapidi e monumenti quelli che non amano meglio di contrassegnarne la fossa medesima che racchiude il caro estinto. I bei monumenti ancor vi scarseggiano, ma sono da citarsi quelli d’Anna, marchesa di Monforte, del Bruneri, e quello della madre della rara attrice Carlotta Marehionni, del Bogliani.

Questo Campo Santo era stato dall’architetto Lombardi disegnato, secondo il pensiero del marchese di Barolo, col fine principalmente che ogni cadavero giacesse in fossa separata, e più non fossero come prima i corpi de’ non facoltosi accatastati nei pozzi comuni. Questo pietoso scopo è stato raggiunto.

Ma provveder si doveva anche alle classi agiate; non nell’interesse d’un’ambizione che affatto insana dee riputarsi, se non s’arresta almeno alla tomba, e sotto alla falce che piccoli e grandi miete insieme ed agguaglia; ma per servire all’affetto de’ superstiti ed alla gloria dell’arti, che poche altre occasioni avrebbero di spiegar il volo, se questa mancasse. A questo bisogno provvedeva la vigile cura della città di Torino, la quale nell’agosto del 1841 ordinava che, in ampliazione del Campo Santo, un’altr’area gli si aggiungesse, in cui le sepolture private fossero coperte, sicchè i monumenti da allogarvisi nulla avessero a temere dall’inclemenza d’un cielo che spesso obblia di essere italiano; e die commissione a Carlo Sada, architetto della Real Casa, di formarne [p. 75 modifica]il disegno, ed all’avvocato Carlo Pinehia, suo decurione, di sopraintendere all’opera. Ora questa giunta è in molta parte eseguita; e già sorge un ampio e nobil giro di portici, sicchè si può congetturare che il nostro Campo Santo poco avrà da invidiare alle più celebri necropoli italiane.

La nuova parte del Campo Santo ha la forma d’un parallelogramma basalo sul lato nord dell’antica. Sul lato parallelo a questa, di fronte all’entrata, spiegasi un’area semicircolare, in cui si è progettato di elevare un monumento alla memoria degli uomini celebri nazionali; i due laterali del parallelogramma servono di diametro a due altri semicircoli, i quali vengono a formare le estremità di una croce.

Su tulle le sopra descritte linee ergesi un porticato, che ne divide l’area in tre parti: il parallelogramma di mezzo, col suo grande spazio semicircolare ne forma una parte, e le due altre sono formate dai semicircoli laterali, chiuse dal porticato che forma i lati minori del suddetto parallelogramma.

Si ha l’accesso a questa ampliazione dall’antico Campo Santo per mezzo di un atrio aperto sulla linea centrale, e per mezzo di due archi, in fronte ai due porticati laterali.

I portici levansi su di una gradinata di tre scalini, e sono divisi in 269 arcate, che formano ciascuna una cella, i cui pilastri ed archivolti ne sostengono la volta a calotta. Questi portici, formanti il perimetro [p. 76 modifica]dell’ingrandimento, sono divisi in varii scompartimenti per mezzo di ventuna edicole, o cappelle mortuarie, le quali, simmetricamente disposte, elevansi con risalto al disopra del porticato ed interrompono gradevolmente la lunga linea orizzontale.

La fronte degli archi e delle edicole è decorata da 342 colonne di granito, doriche, colla loro tra beazione; sotto al portico, e per tutta la sua estensione, corrono le catacombe, divise in altrettanti scompartimenti, con celle corrispondenti a quelle superiori: e lateralmente, in nicchie aperte nel muro, si seppelliscono i cadaveri in casse murate, in maniera che su ciascun tumulo si possa scrivere il nome del defunto.

L’area che lasciano i portici e le strade, si è divisa in scompartimenti per sepolture private e monumenti isolati.

Fra i monumenti che già campeggiano nel nuovo Campo Santo, è da notarsi quello eretto alla memoria di due vaghe e dolci sorelle, Elisabetta e Maria di Stackelberg, rapite anzi tempo, l’una agli amplessi dello sposo (marchese della Rovere), l’altra all’amore del fidanzato. Conviene lo stile gotico che vi fu leggiadramente dal già lodato signor Sada adoperato, ed al pensiero di racchiudere due monumenti in uno, ed alla patria da cui moveano le due bionde, e bianche, e virtuose fanciulle.

Tutto italiano invece, e dei tempi che chiamansi [p. 77 modifica]del rinascimento, è il sepolcro del conte Giuseppe Barbaroux, di venerala memoria. Fu disegnato secondo i migliori esempli dal professore Tecco. Il busto del defunto e il bassorilievo rappresentante la Madonna degli Angioli furono lavorate con isquisito sentimento del vero e del bello dal valente scultore Carlo Canigia.4 Il lavoro di quadro e gli intagli vennero eseguiti con molta diligenza da Francesco Gussoni. Ed io mi sono trattenuto con amore su questo monumento, non solo per l’onor di chi vi giace, e per la maestria con cui ne furono riprodotti i sembianti, ma anche perchè è uno dei rari esempi che fra noi si vedano di quella schietta eleganza, che consla non del numero, ma della qualità, e della sobria ed armoniosa distribuzione degli ornati.

Fra pochi mesi vi sarà pure allogato il mausoleo che la materna pietà consacra alla memoria d’un raro e caro giovane, mio amico e collega, rapito anzi tempo alla patria, alle lettere, il marchese Felice di S. Tommaso, nobile ingegno e nobil cuore. Il monumento, opera egregia del professore Gaggini, rappresenta l’angelo della morte che al giovane tutto intento a’ suoi studi, pone una mano sulla spalla in atto di dir: vieni; e di mostrargli un’altra non marcescibii corona.

Fra gli alti intelletti, le cui spoglie già dormono nel Campo Santo, sono da citare il botanico Balbis, il naturalista Franco Andrea Bonelli, Giuseppe Grassi [p. 78 modifica]filologo, l’anatomico Ludovico Rolando; Bagelti pittor di paesi; Carlo Boucheron, principe della latina eloquenza; Giovanni Giorgio Bidone, matematico; Michele Buniva, introduttore del vaccino nel Piemonte; Lorenzo Martini, fisiologo e letterato; ed Agostino Biagini, filosofo giureconsulto: grande ingegno che per morte immatura non lasciò ai posteri orma adeguata del valor suo; ma che bene apprezza chi lo conobbe, com’io, in confidente domestichezza d’amico.

Più in la, a settentrione del Campo Santo, e dove alzavasi il palazzo di Viboccone, è la fabbrica dei tabacchi, chiamata del Parco, innalzata nel 1768 secondo i disegni dell’architetto Ferroggio.

Un altro luogo di delizia aveano i principi di Savoia all’austro di Torino, ed è Miraflores o Mirafiori. Era dapprincipio un piccolo podere chiamato la Spinetta, dove il referendario Filiberto Pingon e sua moglie avevano edificato un casamento. Nel 1581 Giacomo di Savoia, duca di Nemours, ne fece acquisto e v’edificò una villa che fu poi venduta, quattr’anni dopo, da Carlo Emmanuele suo figliuolo, al duca Carlo Emmanuele i per scudi trentamila d’oro.5

Questo principe, nella cui mente nonnasceano che grandi concetti, intese a far di Mirafiori una delizia che non avesse la pari. Racchiusa fra graziosi e larghi canali per cui andavan le barche, l’isola di Flora rendea piena ragione del nome dato alla villa; la quale delincata a forma di stella vodea partire dal suo centro [p. 79 modifica]altrettanti ombrosi viali, per entro ai quali spaziava per lungo tratto e si ricreava lo sguardo. Inestimabile era poi e per mole e per magnificenza il palazzo; ma, sia per le continue guerre, sia per una superstizione di Catterina d’Austria moglie del duca, la fabbrica mai non fu condotta a compimento, e morto Carlo Emmanuele i, Mirafiori fu poco frequentato dai principi di Savoia.


Non ullus ager tam dignus amari

Negligitur nullus tam indigne.


Così cantava l’Audifredi nell’elegante sua opera intitolata Regiæ Villæ, rammentando a Vittorio Amedeo ii che l’oro e i marmi ornai consumava il tempo; e che senza omaggio di compassione alcuna da ogni lato s’aprivan ruine:


O nemora, o fontes, o gloria nobilis horti

Nata beare oculos regum accubitusque superbos

Versicolore ducum cetras ornare paratu,

Est modo cum rudibus tua gloria tota bubulcis!


Di questo canto poetico s’onorava la caduta di Mirafìori che più non risorse. Invece Carlo Emmanuele iii in edificò poi la villa di Stupinigi sui disegni dell’Juvara, e l’orno di pitture del Vanloo e del Vehrlin; [p. 80 modifica]superando anche in questa parte la memoria de’suoi predecessori che molte gran fabbriche con animo piii che regio cominciarono, ma niuna quasi ne finirono. Ed egli questa cominciò e finì, e con tanto splendore che Napoleone la scelse poi ad una delle sue residenze imperiali.

Il Parco e Mirafìori erano i luoghi in cui, dopo le fatiche dell’armi, solea ritrarsi Carlo Emmanuele i a udire e a scrivere versi e prose. Divisava di versi francesi col sire di Porcier, di versi italiani con Ludovico San Martino d’Agliè (autore ei medesimo d’un gentil poema intitolato l’Autunno), di storie con monsig. Giovanni Boterò, precettore de’ suoi figliuoli, e primo che desse moto a quella nuova scienza chiamata più modernamente statistica. E Carlo Emmanuele scrisse egli stesso versi italiani non cattivi, ed anche francesi e spagnuoli; e favole boschereccie, fra le quali La selva incantata e Le trasformazioni di mille fonti: cominciò una commedia francese ed un romanzo italiano ed un poema in ottava rima sopra le Stagioni. Boterò aveva cantato la Primavera: San Martino l’Autunno, Carlo Emmanuele i cantava dell’Inverno così:


Segue a questa stagion l’orrido verno,
Qual a più bella età mesta vecchiezza,
A contento dolor aspro ed interno,

Notte a giorno ripieno di chiarezza.

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Vediamo che levandone quel dolor interno, i versi dello scettrato poeta sono di buonissimo conio: ma abbiamo scelto i migliori. Ora vediamo un sonetto statogli indirizzato per esortarlo alla pace, e la sua risposta sulle medesime rime:


Sire, udite urail voce, è fatto il mondo
Del suon de le vostr’armi eco guerriera;
Crescer non può di vostra gloria il pondo,
D’appressar sì bei segni altri non spera.

Soffrirete mirar di sangue immondo
D’Italia il seno? E che in sì bella sfera
Risplenda infausto altrui quel che giocondo
Sparger lume potria vostr’alma altera?

Deponete l’invitte arme lucenti,
Che ’l cor però non fia che si disarmi
De’ nativi magnanimi ardimenti.

Quinci vedrem scolpito in bronzi e in marmi:
Volle Carlo abbagliar gli occhi e le menti

Co’ lampi della gloria e non dell’armi.


Risposta


Italia, ah non temer! Non creda il mondo
Ch’io mova a’ danni tuoi l’hoste guerriera;
Chi desia di sottrarti a grave pondo

Contro te non congiura. Ardisci e spera.

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Sete di regno, al eui desire immondo
Sembra P ampio universo angusta sfera,
Turba lo stato tuo lieto e giocondo
Di mie ragioni usurpatrice altera.

Ma non vedran del ciel gli occhi lucenti
Ch’io giammai per timor la man disarmi,
O che deponga i soliti ardimenti.

Se deggio alto soggetto a bronzi e marmi,
Con rai di gloria abbarbagliar le genti,

Non fia già senza gloria il trattar l’armi.


V’è a questa terzina una variante di man del duca:


E meglio è che si scriva in bronzi e in marmi:
Carlo per abbagliar gli occhi e le menti

Degli ingiusti, non vuol mai depor l’armi.6


Sono da notarsi nella risposta i colpi che mena Carlo Emmanuele all’ambizione spagnolesca da cui avrebbe voluto liberar l’Italia; e v’ha un altro sonetto vie più pungente, tutto di sua mano, in cui annovera i tentativi ne’ quali in Irlanda, in Africa, in Francia, fallì all’armi spagnuole il successo. Intanto, da quel che abbiamo detto, possiamo congetturare che felicissima corte fosse allora quella di Savoia dove fiorivano Carlo Emmanuele gran capitano, grand’uom di stato, letterato e protettor delle [p. 83 modifica]lettere; quattro sue figliuole di santa vita, e forse due di esse destinate all’onor degli altari; due figliuoli, uno Francesco Tommaso capitano illustre, l’altro il cardinale Maurizio, maestro e fautore di cavalleresche, scientifiche e letterarie discipline, fondatore nel proprio palazzo di dotte accademie.

Udiamo il Marini (il ritratto del serenissimo Carlo Emmanuello di Savoia):

O dove ombroso infra selvaggi orrori
Presso l’alta città bosco verdeggia,
O dove Mirafior pompe di fiori
Nel bel grembo d’aprii mira e vagheggia,
Ad ogni grave ed importuna cura
Pien di vaghi pensier spesso si fura.

E quivi suol, volte le trombe e l’armi
In cetre e in plettri, in stil dolce e sublime,
Fabbricando di Marte alteri carmi,
O tessendo d’amor leggiadre rime,
Fra l’ombre, l’aure e le spelonche e i rivi
Ingannar dolcemente i soli estivi.

Or i fogli di Lesbo ed or di Roma
Volge, or d’Iberia va note dettando;
Or del Ronsardo in gallico idioma
Va col dotto Porcier l’orme tracciando;
Or col mio buono Agliè spendendo stassi
Dietro al Tosco maggior gli accenti e i passi.

Tal già lungo le chiare acque tranquille

Alle corde accordar musica voce
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La sua fiamma solca cantando Achille,

E dal canto acquistar spirto feroce;
Tanto virtute esercitata e stanca

Dopo gli ozii s’avanza e si rinfranca.

Prende in privata e solitaria parte,
Col gran Boterò a divisar talvolta,
E de l’antiche e ben vergate carte
Le chiare istorie attentamente ascolta,
E quanto scrisse il vecchio di Stagira

Da sì faconda lingua esposto ammira.

Vicino a Mirafiori aveva murato una magnifica villa Giambatista Truchi, barone della Generala, principal ministro delle finanze di Carlo Emmanuele ii. Dall’ufficio di semplice procuratore in Savigliano era salito per gradi a sì rilevata condizione; dimostrandosi sperto de’ maneggi politici, ricco d’espedienti, pronto a trovar le vie di levar d’imbarazzo il principe; mai non essendo nè la sua bocca senza risposta, nè le risposte senza ripieghi, nè la cassa senza danari. Durante la reggenza di Maria Giovanna Battista gli fu dato un successore nel generalato delle finanze. Ma visse ancora molti anni. Ebbe questo ministro, come tutti gli uomini di gran mente, in molta stima le lettere e le arti. Ne queste furono ingrate. Pietro Arnaldo gli dedicò il suo Teatro del valore, ricco di molte stampe squisitamente intagliate da Giorgio Tasniere, e fra le altre del ritratto del Truchi, dal quale [p. 85 modifica]si vede com’egli era uomo di sembiante bello e maestoso; altro aiuto ai felici successi. Appiè del ritratto leggesi un’epigrafe che dovea suscitargli molti nemici:


Vere oculus regni cor regis Truchius hic est.
    Nestor ut ingenio, utinam sit Nestor et annis.


Dall’altro lato vedesi un Atlante incurvato sotto al peso del mondo. Ma il globo terracqueo è contrassegnato della croce sabauda. Appiè di pagina sta scritto:

Quod tergis gestaris Atlas jam sydera parum est;
    Sola mente gerit Sabaudum Truchius orbem.


Allude il poeta all’antica oscurità del Truchi con questi versi che ritraggono delle ardite fantasie di quel secolo:

Era perla nascosta il tuo valore,
Ma il sovran gioiellier di mezzo all’acque
Alzolla, e fe’ che più gentil rinacque,
La legò in oro, e se la strinse al cuore.


Finisce il sonetto così:


Per te, Truchi, il destino è teco innato:
Il tuo cor, la tua fe’ son tua fortuna;

È merto in te quel che negli altri è fato.


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Il qual ultimo e bellissimo verso ha trovato allora e poi sempre molte altre applicazioni per mercè dei nostri principi che tolsero ad onorar il merito in qualunque grado lo rinvenissero, come vera nobiltà, e nobiltà che procede direttamente da Dio.

In quanto al Truchi, dopo la fortuna della fè e del core che rammenta l’Arnaldo, un’altra seppe ammassarne in iscudi d’oro fiammanti, perchè, oltre alla villa di cui abbiamo parlato, e della quale sono da vedersi nell’opera di Audiberti il prospetto e le lodi, innalzò pure lo stupendo palazzo in via di S. Carlo che rimase fino ai nostri giorni ne’ suoi discendenti conti di Levaldigi, ed ora appartiene alla maestà di Marianna Carolina di Savoia, Imperatrice d’Austria. La prima pietra d’esso palazzo fu posta il 13 di giugno 1673.7 Distinguesi il medesimo per la singolarità dello aprirsi l’entrata principale nell’angolo reciso del nord-ovest che serve di facciata, e per gli stupendi e troppo ingiustamente negletti intagli in legno della porta. Ne fu architetto il conte Amedeo di Castellamonte, figliuolo del conte Carlo, che fu anche egli architetto dei duchi di Savoia; ma vinse la fama del padre colle stupende fabbriche architettate, e massime colle delizie della Veneria, che poi descrisse in un libro mandato alle stampe e che di rado trovasi, com’io lo posseggo, col compiuto corredo di tutte le incisioni che vi si riferiscono.

Abbiam già detto che il nome di Valentino ai [p. 87 modifica]casamenti situati sulle rive del Po in faccia a San Vito, è antico molto. Nel secolo xvi, v’avea casa e podere il presidente Renato Birago, da cui lo comprava Emmanuele Filiberto nel 1564.8 Dimesso l’anno seguente a Giovanni de Brosses, tesoriere della duchessa, lo riscattava dodici anni dopo.9 Ma il castello che ora si vede è frutto della munificenza di Madama Reale, Maria Cristina. Fin dal 1633 ne fu cominciata la fabbrica, e così regnando Vittorio Amedeo i, marito di lei.10 Sopra intendeva ai lavori con titolo di governatore Antonio Bobba. Vi lavoravano operai parte francesi, parte delle valli di Lanzo. Non trovo chi sia stato l’autor del disegno, e forse, essendo costruzione di stile affatto oltramontano, massime nell’acuto culminar dei tetti, Maria Cristina l’ebbe di Francia: seppure l’architetto Conte Carlo di Castellamonte, che vedo aver diretta l’opera, non seppe piegare il proprio ingegno alle inclinazioni di quella principessa.

Nel 1638 già vi dimorava la corte, la quale vi si era trasferita per festeggiare la nascita del delfino, quando un male di pochi giorni estinse il picciolo duca Francesco Giacinto; morì di febbre continua il 3 d’ottobre a ore dieci di notte.

Secondo le superstizioni di quell’età, non isvanitc del tutto all’età nostra, quella morte si disse pronunziata dalla caduta d’una saliera a tavola e dall’apparire d’una cometa caudata. Il fatto è che [p. 88 modifica]da lungo tempo era travagliato da una labe polmonare, per cui sempre era stato pallidissimo e debolissimo, asmatico e melanconico. Avea sei anni, e come accade ne’ fanciulli di tempera più debole nel fisico, l’intelletto era svolto più assai che non comportasse l’età; lord Fielding, ambasciador d’Ingilterra, si compiaceva infinitamente della sua tenera affabilità. Preso dal male, disse a Carlo Emmanuele suo minor fratello: Pigliati pur la corona, che io ho finito di regnare.

Moribondo si fece dare il crocifisso: dopo d’averlo baciato finì la vita in queste parole: ora sono contento di morire. Durante la malattia fu cresimato dal nunzio Caffarelli, e gli fu recata a baciare l’insigne reliquia della SS. Sindone dall’abate Scoto, primo elemosiniere, accompagnato dal nunzio e dall’arcivescovo.11

I lavori del Valentino, interrotti dalla guerra civile, furono ripigliati e continuati molti anni.

Dal 1646 al 1649, Alessandro Casella stuccò la camera dei gigli e delle rose; il soffitto della stanza della caccia, e di quella del negocio (del commercio) eia stanza della munificenza.12 Oltre alle camere summentovate trovo memoria d’una camera de’ pianeti, di un teatro, d’un gioco del maglio, e d’un infernetto cavato dal sergente Lorenzo Manuel coll’aiuto d’altri suoi compagni minatori. Le ardesie che coprono il tetto si fecero venir di Moriana. [p. 89 modifica]In quel castello, come in quello di Rivoli, e nel palazzo vecchio ducale, molto lavorò di pittura e di scoltura Isidoro Bianchi di Campione sul lago di Lugano, uno dei più distinti allievi del Morazzone, il quale, venuto ai servigi della corte di Savoia nel 1618, fatte le prove di nobiltà, fu ricevuto cavaliere di giustizia dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro; comprò casa nella città nuova, e vi si stabilì co’ suoi tre figliuoli Pompeo, Francesco e Carlo. I due primi seguitarono la professione del padre, e lavorarono pure nei castelli e ne’ palazzi dei duchi di Savoia.13

Molte volte ai tempi di quella bella e vivace reggente fu il cortile del castello del Valentino teatro d’armeggerie, di giostre, di quintane, di corse e di altri spettacoli. Quando nacque, in maggio del 1699, il primogenito de’ maschi a Vittorio Amedeo ii, Madama Reale Maria Giovanna Battista, avola del neonato, fe’ radunare nel cortile del Valentino sedicimila poveri, e die a tutti limosina per mano del suo primo elemosiniere abate Pallavicini.14

Il dì 26 d’aprile 1812, partiva dal castello del Valentino nella sua ascensione aereostatica madama Blanchard, dando il primo esempio in Piemonte di viaggio sì pericoloso. Ora, scaduto quel real castello dai primi onori, non serve ad altra pompa, salvo alle esposizioni periodiche dell’industria fondate dal re Carlo Felice, e ordinate per la prima volta nel [p. 90 modifica]1829 dal marchese Agostino Lascaris di Venlimiglia, vice presidente della Camera d’Agricoltura e di Commercio.

Nel teatro degli Stati del duca di Savoia, come nell’opera dell’Audiberti già citala (Regiae Villae), il Valentino compare con due corpi laterali, assai più lunghi di quel di mezzo che solo ora si vede, terminati da due padiglioni. Un muro elegante a pilastri e balaustre regge la sponda del Po: si ha l’accesso per due scale eleganti, in mezzo alle quali s’apre una grotta, in cui si vede la statua di un fiume che gitta acqua. Ai due lati sono nicchie con statue. Di tutto ciò non appar più reliquia, e solo nel sito designato per la grotta e una fontana d’acqua eccellente; non so se le due ali del castello e gli edifizi accessorii siensi mai eseguiti; ma trovo che il 14 d’aprile del 1714 un vento fierissimo e freddissimo abbattè un padiglione del Valentino, e precisamente quello che era verso il parco, o giardino nobile.15

Nel sito che dovea occupar l’ala sinistra del castello v’è il bello e copioso orto botanico. Dal lato opposto è il luogo in cui si esercita l’antichissima in Torino, e teste rinnovata società del Tiro.

Passando ora a parlar delle chiese edificate nella pianura torinese, dopo Emmanuele Filiberto, accennerò in primo luogo la Crocetta posta a breve distanza da Torino tra ponente e mezzodì. Maddalena [p. 91 modifica]Gropella da Soncino, essendo slata da Maria Santissima favorita d’una grazia particolare, costrusse nel 1588, con limosine da lei raccolte, una cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, e a’ 17 agosto 1592 la consegnò ai Carmelitani di Sta Maria di Piazza.

Nel 1621 era stata ceduta ai Trinitarii calzati, ossia ai Frati del riscatto; nel 1617, in ottobre, Maurizio cardinal di Savoia pose la prima pietra della chiesa, con questa iscrizione:


DEIPARAE VIRGINIS DE CRVCE
CAROLO EMMANVELE SARAVDIAE DVCE
PATRE REGNANTE
MAVRITIVS CARDINALIS FILIVS
PRIMVM LAPIDEM POSVIT
ANNO MDCXVII.


Nel 1648 non era terminata la fabbrica.

Nel 1679 numeravasi nel convento sei frali e due laici.

Nel 1738 la chiesa era già eretta in parrocchia, ed i Trinitarii chiedevano ed otteneano un sito incolto, nel quale, a’ tempi dell’assedio, s’erano sepolti soldati, onde convertirlo in cimitero. Fu soppresso quel convento poco prima della rivoluzione Francese. Ora è parrocchia suburbana. La tavola dell’altar maggiore è attribuita al Tintoretto. Attiguo alla [p. 92 modifica]chiesa della Crocetta è Torto sperimentale della R. Accademia d’Agricoltura affidato da molti anni alle dotte cure del celebre agronomo, cav. Matteo Bonafous, autore della Storia naturale del mais o gran turco.

La chiesuola di S. Salvatore, quale ora si vede (poichè abbiam già detto, che un’altra dell’ordine Benedillino esisteva a’ tempi antichi), fu edificata da Maria Cristina, nel 1646, sul disegno del conte Amedeo di Castellamonte.

Di lì a qualche tempo venne a predicar la quaresima nel nostro duomo il padre Callisto Puccinelli, famoso oratore dell’ordine de’ Servi, il quale promovendo con ogni efficacia il culto di Maria Addolorata, a cui hanno que’ religiosi particolar divozione, mosse l’animo della Real Cristina per modo, che nelle feste di Pasqua se stessa ed il duca suo figliuolo vestì del nero scapolare, propria divisa della compagnia, che s’intitola dalla Vergine dei Dolori; e deliberò poscia di donare ai Servi di Maria la chiesa di fresco edificata di prospetto al Real castello del Valentino, e come una sua dipendenza. Il dono si fece per patenti del 28 di maggio 1653.16

Intanto, mentre tratlavasi d’edificar il convento, incontrò la duchessa non poche difficoltà; perchè papa Innocenzo x, trovando più che sufficiente ai bisogni de’ popoli il numero de’ conventi che esistevano, non voleva lasciarne stabilire de’ nuovi. [p. 93 modifica]Nondimeno queste difficoltà furono superate, onde in novembre dell’anno medesimo entrarono i Serviti in possesso della chiesa, e, non essendovi convento, albergavano come potevano negli anditi laterali. Sul finir dell’inverno giunse a Torino il padre Puricelli, generale dell’ordine, recando il capo di S. Mario, e denari per cominciar la fabbrica. Frattanto venne a morte il controller generale Chirolo, che avea due fratelli Serviti, e professava particolar divozione a quell’ordine, e lasciò ogni suo avere alla fabbrica del convento.

Già fin dai tempi d’Emmanuele Filiberto l’ordine dei Servi era stato introdotto in Torino, in persona di frate Giambattista Migliavacca d’Asti, che fu lettore di metafìsica nelle università di Mondovì e di Torino, ed a cui si era data ad uffiziare la chiesa di S. Benigno, attigua al palazzo di città, col titolo di priorato. Ma non vi fu mai convento; ed in termine di pochi anni quella chiesa fu aggregata alla casa del comune, e ridotta ad usi profani.

L’epoca pertanto del vero stabilimento de’ Serviti a Torino è il 1653.

Nella chiesa di S. Salvano la tavola dell’altar maggiore di S. Salvatore, S. Valentino e Sta Cristina è del cavaliere Francesco Cayro.

Il quadro dell’altare di S. Pellegrino si crede del Bassano.

La statua della Madonna Addolorata è del priore [p. 94 modifica]D. Salvator Guarnerio, de’ canonici regolari di S. Pietro ad vincula di Roma,17 e fu esposta alla pubblica venerazione l’8 settembre 1660.

Abolite le comunità religiose, rimase pur sempre qualche Servita ad ufficiar S. Salvano. Nel 1825 vi fu ripristinata la congregazione de’ Servi; la quale s’onora particolarmente in questa città del padre Carlo Barberis, decano del collegio di teologia dell’università, e teologo del duca di Savoia; del padre Viani, segretario e confessore di monsignor Mezzabarba, che succedette al cardinale Tournon nella legazione della Cina.

Il Viani, tornato in Europa, stampò una relazione di quelle missioni che è molto rara.

Apparteneva pure a questo convento de’ Servi fra Filippo Filiberto Rossi, teologo e confessore di Carlo Emmanuele iii e cappellano maggiore de’ Reali eserciti. E recentemente vi lasciò preziosa memoria di rare virtii il padre Luigi Ghersi, morto nel 1842. Poco prima di quest’epoca i Serviti eransi trasferiti in città, nel convento di S. Carlo, che fu degli Agostiniani scalzi. S. Salvano fu dato alle Suore di carità, che vi hanno il loro seminario e noviziato; e servono due piccioli spedali di recente instituiti, uno pe’ cronici, cominciato dal conte Montegrandi; l’altro pei convalescenti, fondalo dalla confraternita della SS. Trinità.

Nel 1644, vedovasi sulla riva destra del Po, [p. 95 modifica]lungo la collina al nord-est di Torino, alla distanza d’un miglio, un molino chiamato delle catene. Presso al medesimo rizzavasi un pilone o tabernacolo sul quale era dipinta la Vergine SS. annunziata dall’angelo. Nel dì 29 d’aprile di quell’anno moveasi a quella volta con un sacco di grano da macinare, una Margarita Molar, moglie d’Alessandro, calzolaio, e con una sua figliastra d’undici anni, e dello stesso nome. Giunta la madre innanzi al pilone, salutò con un’ardente giaculatoria la diva imagine. Entrata poi nel molino, e posto il gran nella macina, si fermò appoggiata col gomito al recipiente della farina, mentre la figlia, spinta da pueril vaghezza, spinse una porlicella, che s’apriva accanto alia ruota, e s’inoltrò sul ponte che d’una breve tavola si componeva, senza nissun parapetto. Ma sdrucciolando sull’umido legno cadde nel sottoposto vortice. Alzarono lamentevoli grida la madre e il mugnaio chiamando soccorso. Ma erasi l’infelice ragazza impegnata nella ruota, che tre volte l’alzò ed altrettante la rituffò nell’onde, in guisa che tutti la giudicarono stritolala e perduta. Non disperò la madre, e nel fallire d’ogni umano soccorso, si confidò del divino, e alla Vergine del Pilone prostrandosi le chiedette, con quel fervoroso entusiasmo che spira la fede, le restituisse la figlia. Frattanto v’era calca di gente, e chi cercava da un lato e chi dall’altro, e niuno trovava l’infelice sommersa nel fiume rapido e vorticoso, e per la stagione notevolmente [p. 96 modifica]ingrossato. In queste ricerche erasi già consumato un’ora, e niuno più s’aspettava di rinvenir altro clic un cadavero lacerato e deforme, quando alla madre parve di vedere una matrona di celesti sembianze, che, dispiccatasi dal pilone, e camminando sulle acque fino a mezzo del fiume, si chinasse in atto di stender la mano a persona che là naufragasse. Ed ecco in quell’istante alzarsi dal mezzo del fiume, a vista di tutti, la fortunata fanciulla, e starsi ferma come una statua in mezzo all’impeto dell’acque, che le fremean d’intorno, gridando le centinaia di spettatori raccolti sopra le sponde: miracolo, miracolo! Le giunse intanto vicino una barchetta che la raccolse, e viva e sana la ricondusse alla riva.

Questo prodigioso successo, così pubblico, così evidente crebbe sì fattamente la divozione verso l’imagine dipinta su quel pilone, che subito colle offerte de’ fedeli si costrusse una cappella, in cui fu racchiuso, e poco dopo si cambiò la cappella in chiesa, abbondando singolarmente in doni Madama Reale Cristina di Francia, che fe’ l’altar maggiore di fini marmi, ed arricchì di preziose suppellettili la chiesa; il principe Maurizio di Savoia, Madama Reale Maria Giovanna Battista, e la regina Anna d’Orleans, la quale una o più volte la settimana solea recarsi a piedi, nel 1697 e 1698, al Santuario, implorando dal cielo, per intercession della Vergine, conforto di prole mascolina, che poi le nacque in maggio del 1699. [p. 97 modifica]

Fervente nella divozione a questo Santuario, era anche il celebre principe Tommaso, e più ancora Emmanuele Filiberto figliuolo di lui, che per molti anni, sino al fine della sua innocentissima vita, non lasciò quasi passar giorno, che solo od accompagnato dalla principessa Maria Catterina d’Este sua consorte, non andasse a prostrarsi a pie della Vergine propiziatrice.18

Prima che nel 1829, per le cure e per la liberalità del fu marchese Tancredi Falletti di Barolo, di chiara memoria, si aprisse il Campo Santo, due cimiteri, uno al nord, l’altro al levante della città presso al Po, accoglieano le spoglie mortali de’ Torinesi. Già fin dal 1736, si trattava ne’ consigli del re Carlo Emmanuele iii, di vietare l’inumazion nelle chiese, e di fondar cimiteri suburbani, ma per gli impedimenti, che sempre incontrano i pensieri più salutari, l’esecuzione ne fu ritardata sino al 1777, nel qual anno, sui disegni del conte Francesco Dellala di Beinasco, si cominciarono il cimitero di S. Pietro in vincoli presso al borgo di Dora, e quello di S. Lazzaro, o della Rocca, presso al Po: ambedue erano della medesima forma, quadrati, con portici da tre lati, in fondo la chiesa, e in mezzo un cortile, co’ pozzi de’ sepolcri comuni, in cui si accalcavano bare e cadaveri l’uno addosso all’altro, laddove i sepolcri particolari trovavansi nel sotterraneo che girava sotto al portico. [p. 98 modifica]

Nel cimitero di Dora è sepolto, in luogo dato dalla città, il dotto barone Giuseppe Vernazza, morto nel 1822.

Presso al medesimo cimitero è un sito chiuso da mura, dove si seppellivano e si seppelliscono i giustiziati insieme colla famiglia di giustizia.

Il portico anteriore del cimitero, che serve come di vestibolo, ha ai due lati due camerette quadre. In quella al meriggio del cimitero della Rocca, vedevasi il sepolcro della principessa Barbara Beloselski, moglie d’un ministro di Russia, ed era il solo monumento di qualche splendore che decorasse i nuovi campi del riposo.

Barbara Beloselski morì addì 25 di marzo del 1792, in età d’anni ventotto.

La statua della religione, il basso rilievo che raffigura il ritratto della principessa e le altre scolture, sono dovute allo scalpello d’Innocenzo Spinacci scultore del granduca di Toscana.19

Ora quel cimitero si è trasformato in convento succursale de’ frati di S. Francesco, della stretta osservanza riformati; e quel sepolcro che s’apre sul giardino, è veduto da pochi.

Nel cimitero della Rocca sono sepolti l’architetto conte Dellala di Beinasco, ed il cavaliere Clemente Damiano di Priocca, ministro dell’agonizzante monarchia di Carlo Emmanuele iv, uomo di raro giudicio, di specchiata fede e di molte lettere, morto nel 1815. [p. 99 modifica]

Hannovi ne’ dintorni di Torino due case di ritiramenlo per gli esercizi spirituali; V una edificata fuori di porta Nuova a tre quarti di miglio dalla città nel 1779, sui disegni dell’architetto Riccati dalla benemerita Compagnia di S. Paolo. L’altra vicino a Pozzo di Strada de’ padri Gesuiti.

Vi sono inoltre due case di correzione.

La Generala, dove in gennaio del 1779, Pietro Manzolino, impresario generale del vestiario de’ regii eserciti, ricoverò 122 e poi fino a 220 figlie povere, adoperandole in lavori adattati al suo commercio, e dotandole quando venivano a collocarsi in matrimonio. Chiamavasi allora l’opera Manzolina. In seguito fu riservala per casa di correzione delle donne di cattiva vita.

Nel 1840 si adattò a casa di correzione de’ giovani discoli, i quali vi sono impiegati in lavori d’agricoltura nei poderi racchiusi entro al vasto attiguo recinto, ad imitazione di ciò che si pratica ad Hackneywich, e nell’isola di Wight, in Inghilterra, a Horn, presso Amburgo, nell’isola di Thompson e in altri luoghi degli Stali Uniti d’America.20

L’Ergastolo pe’ giovani oziosi e discoli fu costrutto da Vittorio Amedeo in nel 1779 sui disegni dell’architetto Riccati.

Ma nel 1838 vi furono invece trasferite le donne dipartito, evi venne eziandio stabilito il Sifilicomio, prima allogato nelle case sdrucite e malsane del Martinetto. [p. 100 modifica]

L’edilìzio dell’Ergastolo restauralo, fornito di tutti que’ comodi che la carità suggerisce, che la religione prescrive, e soprattutto di pulitissimi bagni, ammette tre classi distinte, e l’una dall’altra separate di persona: Meretrìci condottevi dalla forza — Meretrici venute volontariamente — Donne infette, recatevisi per farsi curare gratuitamente. Hannovi ancora alcune stanze appartate, destinate a dimora di donne di civil condizione, i cui errori parvero tali da meritar la repressione della pubblica podestà.

Quest’opera, riformata con prudentissimi ordinamenti, è affidala alle pietose Suore di carità, e tutto cospira al fisico e morale miglioramento delle infelici che vi sono albergate.21

Nella regione di Valdocco, presso al borgo di Dora, fu stabilita nel 1822 per beneficenza della piissima signora marchesa di Barolo, l’opera del Rifugio, per le donne o zitelle colpevoli, che avendo scontata la pena de’ loro falli, o volendo da se lasciare la strada del vizio, danno prove di vero ravvedimento e si mostrano disposte a perseverare nel bene. E governata dalle Suore di S. Giuseppe. Più tardi vi si è aggiunto il piccolo Rifugio o Rifugino, il quale contiene numerose infelici giovanette, che nella prima adolescenza furono già da abbominevoli persone conlaminate, o da mali esempi domestici corrotte. Tutte ricevono educazione cristiana, imparano a leggere e scrivere e diversi lavori donneschi.

La stessa piissima dama aprì, allato al Rifugio, il [p. 101 modifica]monastero di Sta Maria Maddalena, composto d’alcune fra quelle che, dopo d’essere state migliorate nel Rifugio, bramano di consecrarsi a Dio. Devono fare lunghissima prova, ed in capo a sei anni di perseveranza s’ammettono a far i voti. Queste religiose penitenti sono le institutrici delle giovanette.

Presso ai suddetti edifizi, la stessa mano pietosa fabbricò uno spedale per fanciulle inferme, che è stato aperto pur ora. In altro luogo, cioè nella scesa della via della Consolata sul viale del nord, la marchesa di Barolo ha costrutto la casa religiosa di Sant’Anna, ove dalle Suore di Sant’Anna da lei fondate, si da educazione a circa 80 fanciulle oneste, le cui famiglie possano pagare la tenue pensione di lire quindici al mese.

Queste medesime Suore si distribuiscono a far da maestre: 1° in due sale d’asilo in casa Barolo, una pe’ maschi e l’altra per le femmine; 2° in due altre simili sale d’asilo stabilite dal Re presso le torri; 3° in due altre fondate da Sua Maestà la Regina nel borgo di Dora; 4° in una scuola di fanciulle fondata dalla stessa marchesa in Altessano; 5° in una scuola di fanciulle da essa fondata a Viù; 6° in una scuola fondata a Santena dai marchesi di Cavour.

Ed è appunto instituto di queste Suore spargersi ne’ villaggi dove fosser chiamate.

Recentemente nuove abitazioni si sono aggiunte ni monastero di Sant’Anna, col disegno di fondarvi [p. 102 modifica]un ricovero per povere orfanelle, che pure verranno educate dalle Suore.

Presso ai luoghi, in cui sorgeva nel medio evo lo spedale di S. Biagio de’ Crociferi sono varii casamenti, che servono alla Piccola Casa della Divina Provvidenza fondata dal canonico don Giuseppe Cottolengo, di venerabil memoria, il quale è sepolto nell’attigua chiesuola. È noto come quest’uomo apostolico, tratto in profondo sentimento di compassione e di dolore dallo sgraziato caso d’una povera donna francese, che, mentre era portata qua e là a diversi spedali, niuno aprendosi per lei, si moriva senza soccorsi, risolvesse di tener apparecchiati alcuni letti, in cui potessero adagiarsi gli infermi respinti dai regolamenti degli altri spedali. Cominciava nel 1829 il suo pietoso ospizio nella casa della Volta Rossa. Obbligato poco stante dal Governo per la paura del cholera a cercar altro sito, si trasferì fuori di porta Palazzo, osservando con quel suo sorriso, pieno, se così è lecito d’esprimersi, d’una bonarietà maliziosetta che i cavoli trapiantati riescono meglio. Sprovveduto di mezzi pecuniarii, senza aiuti, senza consiglieri, confidò nella Provvidenza e non indarno. In pochi anni la sua Piccola Casa fu abbastanza grande per accogliere ogni maniera d’infermi, ed anche ciechi, e sordo-muti, e fatui, ed invalidi, ed epilettici; v’ebbe orfanotrofio, e sala di asilo, e rifugio di traviate, e ricovero per fanciulli e fanciulle povere; [p. 103 modifica]gli uni sotto nome di Fratelli di S. Vincenzo e di Fratini destinati a diventar maestri popolari; o sotto quello di Tommasini a percorrere la carriera ecclesiastica; le altre sotto il nome d’Orsoline e Genoveffa educate nella religione, nella morale, ne’ lavori donneschi, istrutte nel modo d’assistere gli infermi, vere Suore di carila. Hannovi poi case appartate, che formano altrettanti monasteri d’osservanza più o men rigorosa: come il monastero del Suffragio, le Suore della pietà, le Carmelitane scalze che governano il ritiro delle Taidine, i Romiti. Le due prime congregazioni vivono in case attigue allo spedale; le Carmelitane, sul colle presso a Cavoretto; i Romiti, presso Gassino.

È insomma questo spedale un picciol mondo.

Maravigliosa instituzione, in cui la carità cristiana stende le braccia ad ogni sorta di bisognosi, senza che la Piccola Casa abbia rendita certa, ne ordini d’amministrazione regolati secondo le norme usate, tutto essendo tra le mani del direttore. Mancato immaturamente di vita il canonico Cottolengo, il dì 30 aprile del 1842, gli sottentrò nel grave incarico il canonico Anglesio, il quale, dopo aver dato alla Piccola Casa tutta la sua sostanza, le fece il più prezioso de’ doni dandole se medesimo. — La Piccola Casa fu approvata dal Re il 27 di agosto del 1833. Il fondatore fu rimuneralo colle insegne dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro, che [p. 104 modifica]vie maggior pregio acquistarono riposando su quel nobilissimo cuore. E la società Monthion e Franklin gli aggiudicò, come a benefattore dell’umanità, la medaglia d’oro, la quale gli fu recata per mano di S. A. R. il duca di Savoia, principe ereditario.

Nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, e presso l’amico suo canonico Cottolengo riparavasi sul finir d’agosto 1835 l’avvocato collegiato Lodovico Costa, colpito da infermità, che il 7 del mese successivo lo condusse al sepolcro. Eletto ingegno, elegante scrittore, ottimo cuore, di maggior aiuto sarebbe stato alle lettere, e più lieta avrebbe trascorsa la vita, se più amico fosse stato dell’ordine e della pazienza.

Sul viale, che dall’angolo nord-ovest della città corre a porta Susina, chiamato del principe Eugenio, incontrasi un casamento, che già apparteneva al conte Frichignono di Pietrafuoco, ed ora è monastero di Nostra Signora di carità del Buon Pastore. È questo uno dei ricoveri, che l’operosa carità cristiana ha aperti ad emendazione delle donne traviate, a preservazione di quelle che sono vicine a cadere. Non sono più che due anni, che la pietosa cura di S. E. il conte Solaro della Margherita chiamò da Angers a Torino le monache di quest’istituto, e già vi si contano trentatrò penitenti, e da cinquanta fanciulle della classe di preservazione. Per le prime si corrisponde la modica pensione di lire 10 al mese; [p. 105 modifica]quella di lire 12 per le seconde. Stanno le due classi Tuna dall’altra appartate, e si differenziano eziandio per l’abito; nero per le prime, azzurro per le seconde. Dodici monache della carità del Buon Pastore governano questo insti tuto, a cui presiede suor Maria di S. Raffaele Robinaut.

Il padre Eudes di Mezeray fondava nel secolo xvii a Caen una nuova congregazione, che da lui si chiamò degli Eudisti, e propriamente s’intitola di Gesù e di Maria. Affaticandosi nelle missioni a guadagnar anime a Dio, commosse colla santa e fervorosa sua parola molli cuori, o già dati, o grandemente inclinati al vizio. Sicchè a lui raccomandaronsi parecchie donne e fanciulle, onde avere un luogo, in cui ripararsi, sia per far penitenza de’ falli trascorsi, sia per conservare la purità de’ costumi. Il P. Eudes instituì allora (1642) le Suore di Nostra Signora di carità sotto la regola di Sant’Agostino, affinchè pigliassero la santa impresa di guidare ai pascoli salutari queste pecorelle erranti. Le Monache della carità vestono di bianco con velo nero. Soppresse dalla rivoluzione Francese ripigliarono da qualche anno novella e più rigogliosa esistenza, favorita dalla special protezione del Supremo Pastor della Chiesa, il quale diede al monastero d’Angers il titolo di Casa Madre; deputò una superiora generale, aggiunse al nome di Monache di N. S. di carità quello del Buon Pastore. Queste monache, così benemerite dell’ordine e della quiete [p. 106 modifica]pubblica, e dell’onore delle famiglie, sommano ora a circa un migliaio, ed hanno molle case in Francia, in Italia, nel Belgio, in Germania, una a Londra, due in America, una al Cairo, un’altra in Algeri. Negli Stati del Re hanno casa a Nizza, Ciamberì, Genova e Torino. La casa di Torino, priva ancora di cappella di sufficiente ampiezza, e di fabbrica corrispondente a’ suoi bisogni, si confida in quella provvidenza, che mai non fallisce alle imprese pie e sante, massime in mezzo ad un popolo di sensi così pietosi e cristiani.


Note

  1. [p. 111 modifica]Conto di messer Donato Familia, 1568. Arch. camerale.
  2. [p. 111 modifica]Più di fiorini 690 furono pagati al pittor Guglielmo Caccia di Moncalvo, a conto delle pitture che fa per la soffitta del palazzo di Viboccone. — Conto del tesoriere Alessandro Valla, 1605.
  3. [p. 111 modifica]Conto della fabbrica del Parco di Giovanni Michele Bechis.
  4. [p. 111 modifica]Il Canigia è autore della statua del Bacco giovane, che orna il Real castello di Racconigi, e del monumento sepolcrale di Maria Valperga di Masino, fanciulla eletta e compianta, nel quale il maestro scalpello seppe rendere non solo le nobili e giovanili sembianze, ma la trasparenza della pelle, e la chioma morbidamente ondeggiante e sfilata.
  5. [p. 111 modifica]Arch. di corte.
  6. [p. 111 modifica]Id.
  7. [p. 111 modifica]Arnaldo, Teatro del valore, pag. iii.
  8. [p. 111 modifica]Con instrom. del 3 giugno. Arch. camerali.
  9. [p. 111 modifica]Quitanza 28 settembre 1577.
  10. [p. 111 modifica]Dai conti camerali.
  11. [p. 111 modifica]Castiglioni, Storie, ms. nell’Arch. di corte.
  12. [p. 111 modifica]Conto della fabbrica del Valentino di Baldassarre Pansoia.
  13. [p. 111 modifica]Conti camerali. Patenti d’immunità dai carichi a favore del cavaliere Isidoro Bianchi, e de’ suoi figliuoli del 20 novembre 1635.
  14. [p. 111 modifica]Mémoires de la régence de Madame R. Marie Jeanne Baptiste.
  15. [p. 111 modifica]Barberis, Discorsi spirituali. Idem, L’insegna divina o sia la croce piantata da Madama Reale [p. 112 modifica]di Savoia nella fondazione di nuovo convento fatta dalla medesima R. A. alla Religione de’ Servi di Maria Vergine, in capo allo stradone del regio suo palazzo del Valentino.
  16. [p. 112 modifica]Soleri, Diario de’ fatti successi in Torino dal 1682 al 1720. MS. della biblioteca di Sua Maestà.
  17. [p. 112 modifica]V. Garbio, continuato dal Bonfrizzeri, Annales ordinis Servorum Beatae Mariae, tom. iii, fol. 222.
  18. [p. 112 modifica]Sacco, Origine miracolosa della Vergine Santissima del Pilone.
  19. [p. 112 modifica]Questo sepolcro è stato disegnato ed inciso in rame.
  20. [p. 112 modifica]Vegezzi, Cenni intorno al correzionale della Generala.
  21. [p. 112 modifica]Vegezzi, Cenni intorno al correzionale delle prostitute, ed all’ospizio celtico eretti con R. brevetto del 28 maggio 1836 nell’edifizio dell’Ergastolo, presso a Torino.