Tempesta e bonaccia/XXXVIII

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XXXVIII

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XXXVII XXXIX
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XXXVIII.

Il piego delle memorie di Fulvia mi era giunto la mattina del 20 agosto. Ero nel mio studio. Lo apersi; ma appena mi accorsi che era cosa estranea agli affari, malgrado la viva curiosità che m’inspirava, lo misi da parte. Ero sovraccarico di lavoro; da otto giorni avevo molto trascurato il mio studio, per occuparmi quasi esclusivamente della mia camera nuziale, dove, dopo nove mesi e qualche giorno di matrimonio, un bel bambino faceva echeggiare in suono di pianto la sua voce robusta.

Era la prima gioia viva che avessi provata dopo il mio matrimonio. Quel vagito potente aveva rimosso qualche cosa in fondo al mio cuore. Avevo abbracciato mia moglie con un senso di profonda riconoscenza.

Poi era venuto il battesimo, poi le congratulazio[p. 205 modifica]ni, la ricerca della nutrice, il suo arrivo in casa, le disposizioni da prendere, le raccomandazioni, e finalmente la partenza del bimbo colla nutrice, avvenuta quella mattina stessa di buon’ora.

Mia moglie aveva superata felicemente quella prima crisi materna.

Tutto era ritornato in calma nella mia casa, ed io ero tornato allo studio, ansioso di riguadagnare il tempo perduto.

Ero contento, di quella contentezza senza trasporto, che si riscontra nei matrimonii dove non manca nè l’agiatezza, nè la salute, nè la gioventù, nè la pace. Se l’amore vi avesse posta la sua scintilla ardente e luminosa, sarei stato felice; così non ero che contento. Ma ero contento e lavoravo; lavoravo già per mio figlio. Uscendo dallo studio alle cinque, passai a salutare mia moglie che stava ancora in camera, poi andai a pranzo, e quand’ebbi preso il caffè e licenziata la cameriera, mi adagiai comodamente in una poltrona presso il balcone, ed apersi il manoscritto di Fulvia, di cui avevo riconosciuto la scrittura fin dalla busta, dicendo tra me:

«— Se avessi sposato Fulvia, questi giorni avrei pranzato nella sua camera, sopra un tavolino piccolo piccolo, accanto al suo letto.

Quella lettura mi trasportava, mi commoveva, m’irritava volta a volta, m’interessava sempre. — Molte volte rilessi un periodo che mi riguardava, e [p. 206 modifica]rimasi assorto cogli occhi fissi alle finestre della casa di contro, pensando con un misto di gioia e di rimpianto, quanto ero stato amato.

L’incontro inavvertito di Fulvia a Genova durante il mio viaggio di nozze, mi vendicò un momento di tutti i sarcasmi ch’ella aveva lanciati alla mia povera metafora della spinite.

Ma la sua poca curiosità riguardo al mio matrimonio e quelle parole: M’ero accorto che eravate un marito ed una moglie, le quali, senza parere, avevano un fondo di canzonatura, mi irritarono al sommo grado.

Così quella lettura procedette lenta; avevo acceso il lume da un pezzo, ed il mio orologio sonava le dieci e mezzo, quando giunsi all’ultima pagina a cui era incollata la lettera, fredda, amara, disillusa come il pensiero del suicidio.

Benchè fossi da otto giorni, quello che Fulvia soleva chiamare derisoriamente, un buon uomo ammogliato con prole, tutto il mio sangue ribollì al leggere quella lettera, come il sangue di un giovinotto.

Mi alzai, presi il cappello in furia come se dovessi andare di quel passo sul Monte Bianco a trattenere Fulvia sull’orlo d’un precipizio.

Al momento d’uscire m’accorsi che ignoravo completamente dove andassi. Allora pensai a confrontare le date. Ma tra la mia grande agitazione, tra l’abi[p. 207 modifica]tudine di Fulvia di non precisarle, non mi riuscì di comprendere perfettamente da quanti giorni quella lettera fosse scritta.

Una cosa però era sicura. Che Fulvia non voleva impostarla che al momento d’imprendere la salita; e però, se il piego era giunto a me, Fulvia era partita al tempo stesso per la sua triste destinazione; ed a quell’ora..... Un brivido mi corse nelle vene.

Questa volta uscii di corsa sapendo perfettamente dove andare. Al mio club si ricevevano moltissimi giornali, e c’erano degli alpinisti appassionati che raccoglievano tutte le notizie di ascensioni pericolose.

Ma nulla di notevole, e sopratutto nessuna disgrazia aveva accompagnato le ultime gite al Monte Bianco.

Questo non mi calmò. Conoscevo il carattere di Fulvia. Profondamente onesta, era incapace di avermi scritto una cosa che doveva addolorarmi, senza essere ben decisa a quanto annunciava.

D’altra parte la lentezza e la calma con cui aveva presa quella risoluzione, la freddezza con cui ne parlava, provavano la sua profonda delusione, lo sconforto che le era entrato nel cuore.

Fulvia, malgrado le angoscie del dubbio, che sono l’eterno tormento dell’umano pensiero, era profondamente religiosa. Il materialismo, — che per lei era la mortalità dell’anima, il nulla, — le faceva orrore. [p. 208 modifica]

Tuttavia la sua religione non poteva averla trattenuta dal passo fatale che mi annunciava. Altre volte avevamo parlato del suicidio. Ella non lo credeva una colpa, in una persona che non è utile a nessuno sulla terra.

«— È un atto di coraggio, mi diceva. Quelli che chiamano il suicidio una viltà non possono esserne convinti. Mi sembrano certe mamme che dicono ai loro bimbi: «Badate a non far capricci, perchè codesto fa diventar brutti.» — Essi dicono alle masse: «Se qualcuno di voi si uccide, il mondo lo chiama vile.» Ma è un inganno pietoso che gettano dall’alto della loro sapienza a noi ignoranti, per impedirci di ucciderci. L’attaccamento alla vita e il terrore dell’ignoto sono due istinti possenti in noi. Anche i più entusiasti credenti provano un senso di ribrezzo istintivo al momento di rinunciare al loro modo di essere attuale, sebbene credano con certezza che continueranno ad esistere sotto forme migliori. Ci vuol dunque del coraggio per superare tutte codeste ripugnanze e rinunciare volontariamente alla vita.»

Questi brani di discorsi sconnessi, queste opinioni avventate, mi tornavano in mente orlati a nero come tanti documenti funebri, comprovanti la morte di Fulvia.

Ed intanto andavo come un matto per Milano. Entravo nei teatri senza pensarci, arrivavo in platea [p. 209 modifica]coll’occhio fisso e i capelli ritti, ed a mezzo d’un pezzo musicale, o d’una scena drammatica che teneva l’uditorio affascinato, urtavo dieci persone per raggiungere un conoscente, a cui domandavo con affanno:

— Non sai che sia avvenuta qualche disgrazia sul Monte Bianco?

Il pubblico mi zittiva; e l’interrogato mi tastava il polso fingendo di prendermi la mano, e mi offriva di accompagnarmi a casa, con quella voce carezzevole, che teniamo tutti in serbo per parlare ai malati ed ai matti.

Non so quante volte mi ricondussero così, ed io tornai sempre ad uscire, con quell’idea insistente come una mania, finchè trovai tutto chiuso, caffè, teatri, clubs, e neppur l’ombra d’un individuo nelle strade a cui domandare le ultime notizie del Monte Bianco.

Suonavano le quattro del mattino, quando traversando, forse per la decima volta, la galleria, mi trovai ad un tratto possessore di quest’idea:

Andare a Chamounix!

Di là Fulvia aveva scritto pochi giorni innanzi. Di là era partita per la sua ascensione funesta. Là potrei immancabilmente sapere le circostanze dolorose della sua fine.

Corsi a casa per prendere del denaro. [p. 210 modifica]

La cameriera era alzata.

«— La signora è inquieta, mi disse. S’è coricata, ma non volle dormire finchè ella fosse tornato.

In quel momento ero col pensiero a centomila leghe da mia moglie. Non mi sentivo in istato di sopportarne la presenza, che non mancherebbe di essere accompagnata da un importuno interrogatorio. Risposi alla cameriera:

«— Dille che un affare urgentissimo m’ha trattenuto fuori finora, e che debbo uscir subito ancora, perchè sono aspettato da un mio cliente. Che vado in campagna con lui per esaminare dei documenti, e resterò fuori alcuni giorni.

Ed entrai nel mio studio, presi del denaro in fretta, e senza portar meco neppur un goletto, uscii di nuovo.

«— Max! mi gridò mia moglie dal suo letto udendomi passare nel corridoio.

Nel lampo d’un pensiero comparai la Fulvia passionata ed entusiasta a quella comoda moglie che si limitava a chiamarmi dalle sue tepide lenzuola, senza che l’annuncio della mia partenza le desse la forza d’infilare le pianelle. Ed il cadavere gelato fra i crepacci del Monte Bianco mi parve meno freddo di mia moglie. Tuttavia entrai, la baciai in fretta e le dissi:

«— Mi tocca partire; non moverti, potresti infreddarti, addio.

E via a precipizio. [p. 211 modifica]

Partii col primo treno. Mi cacciai in un angolo del convoglio e rilessi tutto il manoscritto di Fulvia, senza risentire più il menomo senso di amarezza o di risentimento.

Ora che sapevo a che fine l’aveva condotta il mio amore, sentivo la sua superiorità ed i miei torti.

Povera Fulvia! quanto mi amava! e come nobilmente m’amava! Perchè non avevo saputo renderle quell’amore passionato ch’ella sognava e che meritava tanto. Contenderla al suo fidanzato, al suo dovere, a lei stessa? Povera Fulvia! Come sarei stato felice con lei! E sospiravo sul mio stato presente; e quei sospiri la vendicavano.

Non tenni conto del tempo, dei cambiamenti di treno, delle fermate, di nulla.

Non avevo che un pensiero: «Fulvia.» E lo elaborai per tutto il viaggio. Non attendevo che una parola: «Chamounix.»

Finalmente, quando Dio volle, senza saper come, mi trovai arrivato.

Scesi all’albergo, e per prima cosa m’informai se non erano accadute disgrazie nelle ultime salite al Monte Bianco.

— No, nessuna disgrazia.

Là almeno non mi credevano pazzo. La domanda era naturale. Potevo avere un fratello, un babbo, un figlio alpinista, di cui mi mancassero notizie. [p. 212 modifica]

— Ma dal principio del mese non c’erano state ascensioni?

— Sì, parecchie.

— Non avevano veduta una signora?

— Una signora? Sì, più d’una.

— E... non era perita quella signora sul Monte Bianco?

— No. L’albergatore non lo credeva. Non s’era parlato di una disgrazia.

— Le guide! Volli vedere le guide.

Ne furono chiamate parecchie. Due avevano accompagnata una carovana in cui erano delle signore. Ma nessuna era rimasta vittima.

Volli dare i connotati di Fulvia; ma non si ricordavano. Mi risposero dei sì e dei no contradditorii.

Ma forse Fulvia s’era vestita da uomo. Non l’aveva scritto; ma poteva averlo fatto. Rilessi il brano della lettera dove accennava di volo al suo equipaggio da alpinista.

Non mi diceva nulla. Quegli oggetti potevano servire con entrambi i costumi.

Il tempo era delizioso per una salita, e le guide, che s’erano credute chiamate per una buona giornata, s’annoiarono di trovare soltanto un importuno interrogatore. Mi risposero di mala voglia, e con un’aria di canzonatura male dissimulata.

Una cosa era certa; che non si contava nessuna vittima nelle ascensioni di tutto il mese. [p. 213 modifica]

Fulvia ha cangiato progetto, pensai. Trovandosi in paesi sconosciuti, tra i villaggi, dove il giornalismo non è là a raccogliere i fatti di ogni giorno per alimentare la sua cronaca indiscreta, avrà trovato modo di finire la sua vita senza esporsi ad essere salvata dalla generosità de’ suoi compagni di viaggio.

Questo pensiero mi scoraggiò. Dove, come scoprirla?

Partii per Torino. Appena arrivato mi feci condurre in via Roma al n. 10. Ma dal novembre antecedente quell’alloggio era stato licenziato da Fulvia, che aveva venduto il mobiglio, ed era partita per l’America.

Nei pochi giorni che era stata a Torino al suo ritorno, era stata ad un albergo. Ma quale? E che cosa avrei potuto saperne? Non era supponibile che avesse fatte delle confidenze all’albergatore.

Inoltre aveva scritto a me da Chamounix. Il suo nuovo progetto adunque non poteva essere nato che là. La mia gita a Torino era stata perfettamente insensata. Un istante mi venne l’idea di ricorrere agli uffici di questura. Ma mi parve di oltraggiare la memoria di Fulvia, che aveva voluto circondare di tanto mistero la sua morte.

Qualunque sia l’impeto che ci spinge ad una corsa precipitosa, qualunque sia l’esito ed i sentimenti che ne riportiamo, si finisce sempre per tornare a casa. [p. 214 modifica]

Tra andare, venire, interrogare, almanaccare, piangere in segreto, disperarmi, ero stato fuori sette giorni.

La mattina dell’ottavo, triste, irritato, disgustato del mio passato e del mio presente, con un profondo tedio nell’anima, ripresi alla stazione di Porta Nuova il treno per Milano.