Timoleone (Alfieri, 1946)/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Demarista, Timoleone.

Timol. Del tuo senno a raccorre io vengo il frutto.

Da ch’io piú non ti vidi, Archida solo
svenato cadde: il tuo garrir gran freno
posto ha finora al tuo superbo figlio:
or, certamente, rammollito, e affatto
cangiato il cor tu gli hai: ciò che non fero
gl’inefficaci detti miei fraterni,
le universali grida, il comun pianto,
le rampogne amichevoli, e i rimorsi
cocenti interni, al fin di madre il fanno
i virtuosi ed assoluti preghi.
Demar. ... Figlio, sa il ciel, s’io caldamente all’opra
mi accingessi; ma scoglio havvi sí fermo
quanto il cor di Timofane? Del regno
gustato egli ha; né preghi omai, né pianti,
né ragion, né possanza havvi, che il cangi.
Io teco ancor quí favellando stava,
ch’ei, lasciatine appena, a cruda morte
Archida por facea. Che valser detti,
dopo tali opre? Invan parlai; persiste
Timofane vie piú... Deh! tu, che umano
e saggio sei, cedi per or tu dunque

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a impetuosa irresistibil piena:

forse poi...
Timol.   Donna, a me favelli?
Demar.   Ahi lassa!...
E se non cedi, or che fia mai?... Deh! m’odi.
Vuoi tu vederlo ucciso? o vuoi, che a forza
feroce insana ambizíon lo tragga
a piú orribil misfatto? Or dal tuo stato
troppo è diverso il suo: sangue giá troppo
versato egli ha, perché securo starsi
possa, s’ei si fa inerme: alla perduta
fama è mestier ch’ei del poter soccorra:
ma te, che usbergo hai la innocenza tua,
parmi ragion ch’io preghi; e tu, piú lieve,
prestarmi orecchio puoi. S’ei ne s’arrende,
tutto ei perde, possanza, e onore, e vita
fors’anco: tu, se a me ti arrendi, nulla
perdi...
Timol.   Quai sensi infami! E nulla nomi
la patria? nulla l’onor mio? — Tu sei
madre a me, tu? — Se da tiranno ei cessa,
temi pel viver suo? — ma dimmi; e credi
ch’ei viver possa, ove tiranno ei resti?
Demar. Oh ciel!... Vendetta ogni tuo detto spira.
Crudo al fratel tu sei, mentr’egli è tutto
amor per te: mentr’egli vuol pur viva
la patria in te, nel senno tuo, nel giusto
alto tuo core; e lo splendor ch’ei dielle
in guerra, or vuol che in pace anco maggiore
l’abbia da te. Ciò mi giurava...
Timol.   E pieghi
tu l’alma a detti (o sien fallaci, o veri)
pur sempre rei? Saper dovresti, parmi,
che un cittadin, non la cittá son io.
La patria viva, è nelle sacre leggi;
negli incorrotti magistrati, ad esse

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sottoposti; nel popolo; nei grandi;

nella union de’ non mai compri voti;
nella incessante, universal, secura
libertá vera, che ogni buon fa pari:
e, piú che tutto, è della patria vita
l’abborrir sempre d’un sol uomo il freno.
Ciò non sai tu? — Rimane ultimo oltraggio
a farsi a me da voi; l’osar tenermi,
o il fingere di credermi sostegno
alla vostra tirannide. — Tu, donna,
del figlio al par, d’ambizíone iniqua
rea sei convinta, a manifesti segni.
Piú che a me cittadino, a lui tiranno
esser madre ti giova: assai m’è chiaro.
Demar. È chiaro a ognun, che al par di te spogliarmi
l’amor non so del sangue mio; che madre
pur sempre io son... Fratel cosí tu fossi!
Timol. Oh! qual madre se’ tu? Spartane donne,
t’insegnin esse in libera cittade
ciò ch’esser den le madri. Il tuo, che chiami
materno amore, effeminato senso
di cieca donna egli è, che l’onor vero
ti fa pospor del figlio alla ostinata
vile superbia sua. Le madri in Sparta
mira, dei figli per la patria morti
allegrarsi; contarne esse le piaghe;
e lavarle, baciandole, di liete,
non di dolenti lagrime; e fastosa
andarne piú, qual di piú figli è priva:
donne son quelle, e cittadine, e madri.
Tu, del tuo figlio alla inflessibil voglia,
che pur conosci rea, ti arrendi; ed osi
dirmi e sperar, ch’io mi v’arrenda? Al mio
piú inflessibil voler, ch’esser sai figlio
di virtú, di’, perché non cedi? Il nome
per lui fai solo risuonar di madre;

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per me, tu il taci?

Demar.   Acquetati; m’ascolta...
E che non feci? e che non dissi?... Il sento,
sta per te la ragion; ma, il sai, per esso
milita forza, che ragion non ode...
Timol. No, madre, no; poco dicesti, e meno,
e nulla festi. In cor, di nobil foco
non ardi tu; di quell’amor bollente
della patria, che ardir presta ai men forti;
che a te facondia alta, viril, feroce
avria spirato pure. Assai, mel credi,
nel tuo volere e disvoler si affida
or l’accorto Timofane: ei ben scerne
quanto è lusinga al femminil tuo petto
il desio di regnare. In suon di sdegno
minacciosa tuonar t’udia fors’egli?
Ti udia?...
Demar.   Fin dove cimentarsi ardisce
debil madre, l’osai; ma...
Timol.   Greca madre,
debil fu mai, né inerme? Armi possenti,
piú che non merti, hai tu; se non le adopri,
colpa è di te. Quand’egli ai preghi, al pianto,
e alle ragioni resistea; tu stessa
quinci sbandir (ch’ella è tua stanza questa)
dovevi, tu, lo scellerato infame
tirannesco corteggio; al figlio torre
i mezzi tutti di corromper; torgli,
pria d’ogni cosa, arme peggior del ferro,
esca primiera ad ogni eccesso, l’oro.
Sacro estremo voler del tuo consorte,
e di Corinto legge, arbitra donna
d’ogni aver nostro or non ti fanno?
Demar.   Io dirlo,
è ver, potea;... ma, s’ei...
Timol.   Farlo, non dirlo:

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e s’ei cotanto era giá fatto iniquo

da contender con te; strappato il crine,
tu lagrimosa, in vedovile ammanto,
lacera il volto e il sen, che non uscivi
di questo ostel contaminato e tristo?
I tuoi nipoti teneri, e non rei
del tirannico padre, al fianco trarti
per man dovevi al tuo partirne; e teco
lor madre trarne addolorata; ai buoni
spettacol grato di virtude antiqua:
ed appo me, presso il tuo vero figlio,
te ricovrar con essi; e fra suoi sgherri
abbandonare a se stesso il tiranno:
dell’usurpato suo poter non rea
altamente gridarti; e orribil taccia
torti cosí d’esserne entrata a parte. —
Ciò fatto hai tu? Retto avrebb’egli a tanto?...
Certo ei sprezzò, che dispregiar dovea,
lagrime imbelli, e femminil lamento.
Demar. Figlio,... temei... Deh! m’odi...
Timol.   Udirti ei debbe..
Demar. Io paventai farlo piú crudo, all’ira
spingendolo: mi volsi, e ancor mi volgo
a te, cui danno può maggior tornarne;
a te...
Timol.   Tu temi? Or, se il timor t’è guida,
se il loco in te del patrio amor tien egli;
sappi, che danno, irreparabil danno,
a lui sovrasta, e non a me; che solo,
sol questo dí, se il vuoi salvar, ti avanza.
Demar. Che sento?... Oimè!...
Timol.   Sí; questo dí, cadente
giá ver la notte... Amo il fratel; ma l’amo
d’amor dal tuo diverso: in cor ne piango,
bench’io non pianga teco. A te feroce
io parlo, perché v’amo... Omai non tremo

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piú per Corinto;... per voi soli io tremo.

Mal ne’ soldati suoi si affida incauto
Timofane... Deh! madre, ultimi preghi
io ti porgo. Se cara hai la sua vita,
per la sua vita ti prego. Sospesa
io solo in alto sul suo capo or tengo
dei cittadin l’ultrice spada: io solo
or del tiranno ai giorni un giorno aggiungo:
io, che nel sangue del tiranno il primo
dovrei bagnarmi, ahi ria vergogna! io ’l serbo.
Tu del mio dir dunque fa senno; e credi
che irati tanto ancor non ha i suoi Numi
Corinto, no, che annichilar si deggia
al cospetto d’un solo. — Ecco il tiranno.
Seco non parlo io piú; tutto a lui dissi. —
Se mal ne avvien, di te poi sola duolti.


SCENA SECONDA

Demarista, Timofane.

Timof. Timoleon mi sfugge?

Demar.   Ah figlio!...
Timof.   E tanto
ei ti turbò? Tu nol cangiasti dunque?
Demar. Oh cielo! al cor suoi detti m’eran morte...
Trema; un sol dí, questo sol dí, ti avanza...
Timof. Ch’io tremi? è tardi; or ch’io l’impresa ho tratta
a fine omai.
Demar.   Quanto t’inganni!... Ah! forse,
senza il fratello tuo, piú non saresti...
Timof. Mi hai tu sí a vil, che quant’io nego ai preghi,
speri ottenere or dal terrore? Io parlo
piú aperto ch’egli, assai: non lieve prova
ti sia il mio dir, che nulla io temo. — Tutte
so le lor trame; io so, che all’arte indarno

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si appiglian or, nemici imbelli. Anch’essi

hanno i lor traditori: invan risposta
aspettan da Micéne; invan corrotto
hanno alcuni de’ miei: m’è noto il tutto:
lor passi, opre, pensier, so tutto appieno.
A lor non credo io soggiacer; ma, dove
ciò accada pur, mai non mi arretro io, mai.
Men biasmo a loro era il mostrarmi aperta
rabbia; ma volto hanno alla fraude il core?
Della lor fraude vittime cadranno.
Demar. Oimè!... sei tu sí snaturato forse,
che il fratel tuo?... Crudele!...
Timof.   Ei mi dá taccia
di tiranno; ma pur, figlio, e fratello,
piú ch’ei non è, son io. Madre, tuttora
darei mia vita, per salvar la sua:
se lui dagli altri miei nemici io scerna,
pensar puoi quindi. Echilo ed egli, or soli
salvi ne andranno dalla intera strage,
che sta per farsi...
Demar.   Oh ciel! di nuove stragi
parli tu ancora? Oimè! che fai? T’arresta;
io tel comando. Ah, che in tuo danno io troppo
tacqui finora! il condiscender molle
rea pur mi fa; meco a ragion si accende
Timoleon di giusto sdegno...
Timof.   È fisso
irrevocabilmente il mio destino:
o regno, o morte. — Invan t’adiri; invano
preghi, piangi, minacci. Uscí il comando
di morte giá; pel sol fratello io stommi,
tremante omai; che il militar furore
mal può frenarsi. A te, d’entrambi madre,
si aspetta il far ch’ogni consesso ei sfugga:
deh! tutto in opra poni, perch’ei venga
a ricovrar fra noi. Da lui non seppi

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io le sue trame: a lui le mie tu narra,

sol quanto è d’uopo a porlo in salvo. Io tremo,
ch’ei non si ostini a voler irne al loco
convenuto con Echilo: securi
saran quí solo appieno...
Demar.   E s’anco io valgo
a trarlo quí, misera me! quand’egli
la strage udrá,... forse,... oh terribil giorno!...
ei di vendetta allora...
Timof.   Ei può cangiarsi,
quando vedrá ch’io risparmiar lo volli:
ma svenarmi anco puote: e il faccia; ei solo
il può: questa mia vita ei si ripigli,
poiché a me la salvava: — ma il mio regno,
ch’io m’acquistai, ritormi? né il può il cielo,
s’arso ei non hammi e incenerito pria.


SCENA TERZA

Echilo, Demarista, Timofane.

Echilo Non ti stupir, se ancor mi vedi: il volto

di generosa nimistade or vedi:
e il primo stral ch’io ti saetto, è il dirti
liberamente, che a momenti piomba
un mortal colpo entro al tuo seno.
Demar.   Ah! figlio,
io non ti lascio... Al fianco tuo... T’arrendi?...
Deh! credi a quest’uom prode... Oh ciel!... che fai?...
Timof. Tutto ho d’acciar contra ogni strale il petto.
Intrepido vi attendo.
Echilo   — Odimi: teco
non fui piú schietto io mai: di cor ti parlo;
né, per esserti avverso, ho il cor cangiato,
se non in meglio: ascoltami. — Per quanto
sii valente, non sei pur altro ch’uno;

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mal ti affidi, se in altri: in mille forme

cinto di morte stai: di quante spade
ti vedi intorno in tua difesa ignude,
ciascuna è quella, che repente puossi
al tuo petto ritorcere. Deh! credi,
a me sol credi. O cangia, o uccidi, o trema.
Timof. Al mio destin lasciatemi. Trascorso
non fia ’l dí, che voi tanto a me tremendo
ite annunziando, che convinti avrovvi
io meglio assai: né a voi discaro fia
la pietá, di cui sete a me sí larghi,
ritrovar piú efficace in altri forse.


SCENA QUARTA

Echilo, Demarista.

Echilo Tu il vuoi cosí? teco ogni ufficio mio

oltre il dover compiei. —
Demar.   Deh! corri, vola;
Timoleon quí traggi: a lui gran cose
deggio narrar io stessa. Ogni adunanza,
deh! fa ch’ei sfugga intanto: ei sta in periglio...
Veglia sovr’esso... Io palpito... Quí il traggi,
ad ogni costo, deh! pria che la notte
scenda; securo ei non sarebbe altrove.
Va; d’una madre abbi pietade; un figlio
salvami; a far l’altro piú mite io corro.


SCENA QUINTA

Echilo.

Qual turbamento! Oh! quale orrendo arcano

ne’ suoi detti s’ammanta?... Oh cielo!... E donde
nel rio tiranno securtá pur tanta?

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Fors’egli sa nostri disegni? siamo

traditi or noi dai traditor suoi stessi? —
Le inique trame di costui sa tutte
la madre; e piú trema per l’altro? Or dunque
fermato ha in cor di fare ultima strage
l’empio tiranno!... Ah! se ciò mai!... Si voli;
salvisi il grande, in cui la patria è salva:
o in un con lui, periam per essa tutti.