Tragedia non finita/Atto secondo/Scena seconda
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SCENA SECONDA
FILENA, ROSMONDA
Ch’oggi arrivar qui deve il Re de’ Goti.
Rosmon. Anzi pur sollo.
Filena Ma saper nol vuoi.
Rosmon. E chi ciò dice?
Filena Tu medesma il dici.
Rosmon. Fatto motto non ho.
Filena Nè fatto hai cosa
Per la qual mostri di voler saperlo.
Rosmon. Che debbo far? non so ch’a me s’aspetti
Alcuna cura.
Filena Or non sai dunque, figlia,
Che tu con tua cognata esser insieme
Devi a raccorlo? e ch’egli è quel cortese
Principe e Cavalier, ch’il grido suona?
Visiterà la sposa, e forse prima,
Ch’il sudor, e la polve abbia deposta.
Rosmon. Così certo mi credo.
Filena Or come dunque
Così gran Rege in sì solenne giorno
Raccor tu vuoi così negletta, e inculta?
Perchè non orni le leggiadre membra
Di preziose vesti, e non accresci
Coll’arte femminil quella bellezza,
Onde natura a te fu sì cortese?
Beltà negletta, e in umil manto avvolta,
quasi rozza, e mal pulita gemma,
Ch’avvolta in piombo vil poco riluce.
Rosmon. Questa nostra bellezza, onde cotanto
Il volgo femminil sen va superbo,
Di natura stim’io dannoso dono,
Il qual vergine saggia anzi dovrebbe
Celar, che farne ambiziosa mostra.
Filena La bellezza, figliuola, è proprio bene,
E propria dote del femmineo stuolo,
Com’è proprio degli uomini il valore.
Questa, in vece d’ardire , e di eloqueuza,
E di sagace ingegno, a noi natura
Diede, più liberale in un sol dono,
Ch’in mill’altri, ch’a’ maschi ella dispensa.
Con questa superiamo i valorosi,
I facondi, e gl’industri: e son le nostre
Vittorie più mirabili, che quelle,
Onde va glorioso il viril sesso;
Perchè i vinti da lor son lor nemici,
Ch’odiano la vittoria, e i vincitori:
Onde i vinti da noi son nostri amanti,
Ch’aman le vincitrici, e lieti sono
Delle nostre vittorie. Or s’uomo è folle,
S’egli ricusa di fortezza il pregio;
Folle stimar devi colei non meno,
La qual rifiuti il titolo di bella.
Rosmon. Io piuttosto credea, che doti nostre
Fossero la modestia, e la vergogna,
La pudicizia, e la pietà divota:
E micredea, ch’un bel silenzio in donna
Agguagliasse le lodi de’ facondi.
Ma se pur la bellezza è così cara,
Come tu dici, ella è sol cara in quanto
Di queste altre virtù donnesche è fregio.
Filena Se fregio è, dunque esser non dee negletto.
Rosmon. Se d’altri è fregio, adorna è per se stessa:
E benchè tale a mio parer non sono,
Come giudichi tu, che mi rimiri
Collo sguardo di madre, ornar mi debbo,
Per esser se non bella, almen ornata:
E lo farò non per piacer ad uomo,
Ma per piacer a te, delle cui voglie
ragion, ch’a me stessa io faccia legge.
Filena Saviamente ragioni: ed a me giova
Sperar, che tale al peregrino Eroe
Parrai, quale a me sembri; ond’ei sovente
Dirà fra se medesmo sospirando:
Le figliuole de’ Principi de’ Goti.
Rosmon. Tolga Iddio, che per me sospiri alcuno.
Filena Vaneggi? or dunque a te saria discaro,
Che sì forte guerrier, Re sì possente
Sospirasse per te di casto amore,
In guisa tal, che farti egli bramasse
De’ bellicosi suoi Goti Regina?
Rosmon. Madre, io nol negherò: nell’alta mente
Questo pensiero è in me riposto, e fitto,
Di viver vita solitaria, e sciolta
Da’ maritali lacci: e conservarmi
Della verginitade il caro pregio,
Stimo più, ch’acquistar scettri, e corone.
Filena E’ si par ben, che giovinetta ancora,
Quanto sia grave, e faticoso il pondo
Della vita mortal, tu non conosci,
Poichè portar sì agevolmente il credi.
La nostra umanitade è quasi un giogo
Gravoso, che natura, e ’l Ciel n’impone,
Il qual ben sostentato esser non puote
Dall’uom, s’egli è disgiunto, o dalla donna.
Ma quando avvien, ch’in matrimonio uniti
Di conforme voler marito e moglie
Compartano fra lor gli ufficj, e l’opre,
Scambievolmente allor l’uno dall’altro
Riceve vita, e fanno sì ch’il peso
Lieve lor sembra, e dilettoso il giogo.
Deh chi mai vide scompagnato bue
Segnare i solchi? o, cosa anco più strana,
Che sola donna sterilmente segni
I fruttiferi campi della vita?
Questo, ch’io ti dico or, figlia, l’insegna
L’esperienza, mastra de’ mortali;
Perocchè quel Signore, a cui mi scelse
Compagna il Cielo, e ’l suo volere, e ’l mio,
In guisa m’ajutò, mentre egli visse,
A sopportar ciò, che natura, e ’l caso
Suole apportar di grave e di nojoso,
Ch’alleggiata ne fui, nè sentii mai
Cosa, che di soverchio il cor premesse.
Ma poichè morte ci disgiunse ( ahi morte
Memorabil per me sempre, ed acerba!
Pavento spesso di cader tra via,
Oppressa dagli affanni: ed a gran pena
Per l’estreme giornate di mia vita
Trar posso il fianco debole, ed antico.
Lassa! nè torno a ricalcar giammai
Lo sconsolato mio vedovo letto,
Ch’io nol bagni di lagrime notturne;
Rimembrando fra me, ch’io già solea
Vederlo impresso de’ vestigj cari
Del mio Signor; e ch’ei solea ricetto
Dar a’ nostri riposi, ed agli onesti
Piaceri, ed esser secretario fido
De celati consigli, e delle cure.
Ma dove mi trasporta il mio dolore?
Or, ritornando a quello jonge si parla:
S’a me d’alleggiamento, e di diletto
Fu il ben amato mio Signor, ed io
A lui sovente agevolai gli affanni:
E quant’ei co’ consigli in me operava,
Tant’io co’ dolci miei conforti in lui:
E col soppormi a’ suoi travagli stessi,
E col piangerne seco: e mentre ei volto
Era a’ civili officj, ed alle guerre,
Sovra me tutto ei riposava il peso
De’ domestici affari: in cotal guisa
Questa vita mortal, se non felice
( Che felice non è stato mortale )
Contenta almeno, e fortunata i’ vissi:
E sventurata sol, perchè quel giorno,
Che chiuse a lui le luci, anco non chiuse
Queste mie stanche membra in quella tomba,
Ov’egli i nostri amori, e i miei diletti
Sen portò seco, e se li tien sepolti.
Oh! piaccia al Ciel, ch’a te vita, e consorte
Simíl sia destinato: e tal sarebbe
Per quel, ch’io di lui stimo, il Re de’ Goti.
Tu, s’avvien, ch’egli a te l’animo pieghi,
Schiva non ti mostrar di tale amante.
Rosmonda Sebben di noi, che giovinette siamo,
Quella è più saggia, che saper men crede;
E che le cose col canuto senno
Della madre misura, e non co’ suoi
Oserò dir quel, che ragion mi detta,
Che scompagnata ancora da esperienza,
Suol molte volte non dettar il falso.
Non nego io già, ch’alleggerir non possa
La compagnia dell’uom fa noja in parte,
Onde la vita femminile è grave:
Ma parmi ben, che s’in alcune cose
Ci alleggia, in alcune altre ella ci preme,
E che di peso più, che non ci toglie,
Ci aggiunge. Io lascio, che difficil soma
Stimar si può l’imperio de’ mariti,
Qualunque egli si sia, severo, o dolce.
Or non è ella assai gravosa cura
La cura de’ figliuoli? e non son gravi
Le morti, ei morbi loro? e, s’il ver odo,
La gravidanza ancora è grave pondo,
E del parto gravissimi i dolori;
Sicchè il figliuol, ch’il frutto è delle nozze,
Al padre è frutto, ed alla madre è peso:
Peso anzi il nascer grave, e più nascendo,
Nè poi nato leggiero. E pur di questo,
Di cui la vita verginale è scarca,
Il matrimonio solo è, che ci aggrava.
Che dirò, s’egli avvien che fian discordi
Il marito, e la moglie? o se la donna
S’incontra in uom superbo, o crudo, o stolto?
Misera servitude, e ferreo giogo
Puote allor dirsi il suo. Ma sian concordi
D’animi, e di consigli: e viva l’uno
Nella vita dell’altro; or che ne segue?
Forse questa non è gravosa vita?
Allor, quanto ama più, quanto conosce
D’esser amata più, tanto la donna
A mille passioni è più soggetta,
Ed agli affetti proprj aggiunge quelli
Del caro sposo suo, che proprj fassi.
Teme co’ suoi timor, duolsi col duolo,
Piange colle sue lagrime, e co’ suoi
Gemiti geme: e benchè stia sicura
In chiusa stanza, o in ben guardata rocca,
Esposta è seco nondimeno a’ casi
Delle battaglie incerte, ed a’ perigli.
Ch’abbondo de’ domestici, e li prendo
Da te medesma: e tu stessa ragioni
Contra le tue ragioni a me ministri.
Ma sel marito muor, sente la moglie
Tutto ciò, che di grave è nella morte.
E seco muore, e in un medesmo tempo
Vive, e sostenta della vita i pesi,
. 1 . . . . onde conchiudo,
Che sia nojoso ’l maritale stato,
In cui l’essere sterile, o feconda,
L’essere amata, od odiosa, apporta
Solleciti pensier, fastidj, e pene
Quasi egualmente. Io non però le nozze
Schivo, per ischivar gli affanni umani,
Ma più nobil desio, più santo zelo
Me della vita verginale invoglia.
E somigliar vorrei, sciolta vivendo,
Libera cerva in solitaria chiostra,
Non bue disgiunto in mal arato campo.
Filena Non è stato mortal così tranquillo,
Qual ei si sia, del quale accorta lingua
Molte miserie annoverar non possa.
Però, lasciando il paragon da parte
Delle due varietadi, io sol dirotti,
Che a te stessa tu sol non ci nascesti:
A me, che ti produssi, ed al fratello,
Ch’uscì del ventre stesso, a questa egregia
Cittade ancor nascesti. Or, perchè dunque
In guisa vuoi di scompagnevol fera
Viver sola, e selvaggia, a te medesma?
Chiede l’utilità forse del Regno,
E del caro fratel, che ti mariti.
Dunque al pro della patria, e del germano
Fia il tuo piacer preposto? Ah non ti stringe
La materna pietà? non vedi ch’io
Del mortal corso omai tocco la meta?
Perchè m’invidj quel piacer compito,
Ch’avrò, s’io veggio, anzi ch’a morte giunga,
Rinascer la mia vita, e rinnovarsi
Nell’immagine mia, ne’ miei nipoti,
Rosmon. Già non resti per me, che de’ nipoti
Tu felice non sia, ch’egli è ben dritto,
Ch’alla sua genitrice, ed al germano
Obbedisca la figlia, la sorella.
Filena Ben è degna di te questa risposta.
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