Uomini e paraventi/Preambolo del traduttore
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Prefazione dell'autore | ► |
PREAMBOLO DEL TRADUTTORE.
Mi occorre prima di tutto dichiarare che questo lavoro letterario di Tane Hico, venuto in luce al Giappone nel 1821, fu tradotto in tedesco e pubblicato col testo a fronte dal Dr Augusto Pfizmaier l’anno 1847 in Vienna. I libri di sussidio che in quel tempo si avevano per intendere il giapponese erano tali, che una traduzione da questa lingua era impossibile. Il dotto orientalista alemanno volle nondimeno tentarla, e sperò che gli fosse riuscita bastantemente scevra di errori (so ziemlich fehlerfreie). Fu vana speranza, perchè la verità è che la sua versione formicola di errori. Il traduttore tedesco ha inteso bene in generale tutta la parte narrativa; ma la parte dialogica, che naturalmente è la più bella, la più importante, e quella che forma i tre quarti almeno di tutta l’opera, è divenuta sotto la penna del Dr Pfizmaier uno zibaldone di pensieri sconnessi e di stranissime idee, che non passarono mai per la testa del povero Autore.
Con queste parole io non voglio minimamente detrarre ai grandi meriti del Dr Pfizmaier: pochi forse, al pari di me, possono intendere quali fatiche egli dovesse durare per vincere quelle gravi difficoltà che pur vinse, e quanto, a ogni poco, fosse per lui vicino all’impossibile il caso di evitare l’errore, non ostante l’ingegno e la somma dottrina, di cui egli è dotato. Ma se oggi, che i libri di sussidio poco sopra accennati sono assai meno scarsi, è appena permesso di promettere al pubblico una traduzione dal giapponese bastantemente scevra di errori, come poteva dire il Dr Pfizmaier nel 1847, che gli restava solamente qualche dubbio sulla retta interpretazione di alcune poche locuzioni? Beato lui! A me nel 1871, con tutto l’ajuto di una nuova edizione giapponese, ricca di simboli dichiarativi, restano forti dubbi di aver còlto nel segno, rispetto a molte di queste locuzioni: alcune, ho la certezza di averle tradotte o per via di congettura o alla cieca. Due o tre punti per fortuna assai brevi e apparentemente di niuna importanza, mi sono riusciti così poco intelligibili, che ho creduto bene di ometterli.
Il mio volgarizzamento è molto meno letterale di quello del Pfizmaier: spero tuttavia che gli orientalisti lo giudicheranno assai più fedele. E nondimeno mi preme dichiarare che questo volgarizzamento non è fatto per loro. Per loro io sto preparando uno studio critico sopra la mia versione, confrontata con quella del Dr Pfizmaier. In questo lavoro moltissimi brani saranno novamente tradotti ad uso degli studiosi; tutti i dubbi che ancora mi restano, esposti; molte questioni di sintassi, proposte a risolvere; nuovi significati di voci e di locuzioni, additati: ma sopra tutto si tratterà di problemi filologici, a sciogliere i quali domanderò il concorso degli orientalisti. E spero d’averlo pronto ed efficace dallo stesso Dr Pfizmaier, a cui le recenti opere di filologia nipponica non possono non aver fatto aprir gli occhi sul conto della sua traduzione; dal signor Léon de Rosny, professore di giapponese in Parigi, e già mio maestro; dal signor Léon Pagès, che parimente m’avviò in tali studi, e dal mio dottissimo amico l’avvocato Carlo Valenziani. Aggiungerei a questi nomi quello del signor François Turrettini, gentiluomo svizzero di origine italiana: ma poichè egli scrive e stampa che ha imparato qualche cosa da me, io raccoglierei biasimo di affettata modestia, se dicessi che spero d’imparare da lui. Ma se per questo capo il signor Turrettini non mi permetterà di attestargli la mia gratitudine (come non oso sperare che me lo vorranno concedere i signori Hoffmann, Gochkevich, Aston, Mitford ed altri jamatologhi1 illustri), egli non mi potrà negare che io me gli professi gratissimo, per avermi offerto di pubblicare questo ed ogni altro mio lavoro jamatologico nel suo bellissimo Atsume gusa.2
Il romanzetto di Tane Hico è stato fatto conoscere in Francia dal sig. Filarete Chasles, in America da un anonimo, in Inghilterra dal Rev. Malan. I due primi dichiarano di averlo compendiato dalla versione del Dr Pfizmaier, l’ultimo ha ritradotto per intero la traduzione tedesca, senza neppur degnarsi di nominarla.
Ora poche parole sull’Operetta del nostro Autore.
Il titolo originale suona così:
Sei paraventi proposti a regola della fugace vita.
I sei paraventi sono i sei fascicoli, in cui si divide l’opera originale: così detti, perchè ciascuno di essi è formato di una sola striscia di carta assai lunga che poi si ripiega in facce eguali, e si spiega a guisa di paravento. Nel Giappone a molti libri si dà tal forma, per comodo forse di adattarvi illustrazioni di minore o maggiore lunghezza.
Secondo i Giapponesi il paravento, con le sue tortuosità, per effetto delle quali sta ritto, è immagine di quella non retta norma di vita che tengono alcuni per potersi ben reggere in piedi, cioè prosperare. Di qui ebbe origine fra loro un dettato, il quale insegna, che in questo mondo, per chi batte il retto sentiero, tanto è possibile il non cadere, quanto è possibile che, senza sostegno, si regga in piedi un paravento spiegato per intero fino a fargli descrivere una linea diritta.
L’Autore col suo romanzo mette in rilievo tutta l’immoralità di questa massima, e però dice che si vuol servire di questi sei paraventi, o fascicoli della sua opera, come di nuovi modelli e di nuova regola della vita, mostrando che i suoi personaggi, benchè da principio fossero quasi costretti di piegare al vizio, ripresero finalmente la retta via e conseguirono stato ricco e felice, perchè in cuor loro disapprovavano questa massima.
Non entrerò qui a dare un giudizio di questo lavoro letterario. Solo mi piace di pregare i lettori che non vogliano essi giudicarlo con le idee nostre, nè paragonarlo agli odierni romanzi d’Europa; bensì forse a quelli del secolo passato, ed anco ai pochi dell’antica Grecia e di Roma. In alcune parti, e singolarmente nella catastrofe, questo racconto è quasi puerile: ma si consideri che Cinesi e Giapponesi sono in arte realisti. Poichè negli avvenimenti umani ha gran parte il caso, ed anche, secondo loro, la predestinazione, essi nel comporre e narrare vicende immaginarie, tengono grandissimo conto di questi elementi.
Segue una brevissima prefazione dell’Autore, divisa in due parti. Nella prima egli morde indirettamente un certo genere di letteratura fantastica, e direi quasi paurosa, che doveva essere molto in voga nel Giappone, quando fu pubblicato questo racconto. Nella seconda parte l’Autore dichiara il fine che si è proposto; ma ciò fa con tal parsimonia di parole, che sarebbe stato malagevole intenderlo, senza le poche notizie che abbiamo fatte precedere.
Devo per ultimo dare ai lettori una buona notizia. Si troveranno verso la fine del libro alcuni versi, disgraziatamente assai pochi, scritti da Andrea Maffei, che ha seguìto una traduzione letterale da me fornitagli.
Dove i tortuosi paraventi si propongono a norma di rettitudine, non è meraviglia che il dolce si trovi in cauda, e che lo scrittore del preambolo ardisca dire: Benigno lettore, in questo volumetto qualche cosa di buono vi è certo.
A. Severini.