Vae Victis/Parte seconda/XVI
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XVI.
La mattina seguente Chérie si svegliò presto. Non le riuscì di capire che cosa l’avesse strappata d’improvviso al sonno. Certo ella si trovò desta a un tratto cogli occhi sbarrati, con ogni nervo teso e vibrante in una specie d’aspettazione intensa. Che cosa aspettava? Ella stessa non l’avrebbe saputo dire. Era accaduto qualche cosa che l’aveva svegliata, ed alla ora stava aspettando che questa cosa si rivelasse, si ripetesse; aspettava di riudire o di riprovare ciò che l’aveva così di soprassalto destata. Ma la misteriosa causa del suo improvviso risveglio, fosse suono o sensazione, non si ripetè.
Chérie si alzò rapida, infilò i piedini nelle babbuccie e andò alla finestra; appoggiò i gomiti nudi sul davanzale e guardò nel giardino. Il suo sguardo azzurro vagò sul prato luccicante di pioggia, sugli alberi spogli che si disegnavano neri e nitidi contro il cielo mattinale. Era un’alba grigio-rosata, d’una luminosità così soave che si sarebbe detta di primavera e non d’autunno. Vi era nell’aria pallida e radiosa come una promessa di giornate serene.
D’un tratto Chérie si sentì invasa da quell’onda di stordimento e vertigine che ormai era solita provare. Il pavimento ondeggiò sotto ai suoi piedi, e la mortale nausea che conosceva e temeva le serrò la gola.
Poi questi fenomeni svanirono e Chérie si sentì perfettamente bene; le parve anzi di provare uno strano e lieto senso di benessere che le era nuovo. Era una sensazione indefinita di gioia — di gioia morale e fisica, era... che cosa era? Era come una pulsazione lieve, un fremito d’una dolcezza impossibile a definire. Ma non appena questo strano senso la scosse, che già era svanito. Allora Chérie si rammentò: ecco ciò che l’aveva svegliata! Sì, era quello stesso palpito strano ch’ella aveva sentito nel sonno — quel lieve tremolio somigliante a un batter d’ali, quasi che un altro cuore pulsasse entro al suo.
Così strano, così nuovo, così profondo era questo brivido di gioia ch’ella pensò per un momento di correre in camera di Luisa a chiederle che cosa potesse significare. Ma già la sensazione era cessata, lo stranissimo senso di gioia fisica era svanito e a Chérie parve quasi impossibile rammentare a sè stessa, tanto meno descrivere ad altri ciò che aveva provato.
Chérie, certa di non poter più dormire, si vestì, rapida e silenziosa per non destare Luisa, avvolse le gracili spalle in uno scialletto e scese nel giardino.
Quel mattino anche Giorgio Whitaker si era svegliato di buon’ora. Erano questi i suoi ultimi giorni di licenza prima di partire per il fronte, ed egli aveva nell’animo una febbrile irrequietezza. Sua sorella Eva doveva tornare da Hastings quella mattina stessa; passerebbero insieme questi ultimi due giorni felici prima della sua partenza per quella meravigliosa e spaventosa avventura ch’è la guerra.
Aveva obbedito al desiderio di sua madre e non aveva più cercato di trovarsi o di discorrere colle loro ospiti belghe. Invero era facile — troppo facile! pensò Giorgio con un sospiro — evitare ogni incontro con loro, poichè sembravano farsi ogni giorno più timide e ritrose. Giorgio appena le scorgeva, apparizioni fugaci, dietro le loro finestre chiuse; tal’altra volta gli era concessa una visione del capo lucente di Chérie, chino sopra un lavoro o un libro presso il balcone dello studio.
Quel mattino mentre egli stava vigorosamente spazzolandosi i folti capelli il suo sguardo distratto errò sul giardino; allora scorse Chérie collo scialletto bianco intorno alle spalle e un libro in mano che se ne andava lenta pel viale verso il pergolato. Giorgio buttò giù le spazzole e finì di vestirsi in fretta e furia.
Dopo tutto — riflettè — erano queste le sue ultime quarantott’ore in Inghilterra. Poi sarebbe partito, partito per andare chissà dove, per ritornare chissà quando! Forse non avrebbe più avuto un’occasione come questa per vedere e salutare la fanciulla belga. A dir vero, era un po’ presto per dirle addio; l’avrebbe poi incontrata ad ogni istante nei giorni seguenti, poichè Eva, tornando, soleva sempre tenersi d’accanto la sua piccola amica straniera. Già; Eva aveva un certo modo di passare il suo braccio sotto quello di Chérie e di portarsela via, dicendo: «Allons, Chérie!» che Giorgio, ripensandovi, trovava molto simpatico. Non sarebbe spiaciuto neppure a lui di prendere per il braccio bianco e delicato la soave creatura e dirle: «Allons, Chérie!...»
E si figurava lo stupore nei grandi occhi azzurri e il rossor vivo sulle guancia delicate — forse un corrugar sdegnato delle ciglia.... oppure, chissà? le sarebbe brillato nel volto soave la fuggevole meraviglia del sorriso.
Corse giù per le scale e in giardino; in un attimo fu sotto al pergolato, ma Chérie non c’era più. La trovò che passeggiava lungo il laghetto artificiale nel bosco; era immersa nella lettura d’un libro.
«Buon giorno,» disse Giorgio in tono di eccessiva naturalezza, quasi fosse cosa abituale l’incontrarsi in giardino a quell’ora.
Ella, assai sorpresa, alzò il viso.
«Oh! buon giorno, Monsieur Georges!» e la morbidezza francese dei «g» nel suo nome suonò assai dolce al signor Giorgio.
«Che cosa fate levata così presto?»
«Et vous?» ribattè lei con quel suo breve, vivido sorriso.
«Io... io... sono venuto a dirvi addio!»
«Addio? Ma come mai? Credevo non partiste che domani sera?» esclamò Chérie.
«Perfettamente,» rispose Giorgio. «Ma io amo fare le cose senza fretta. Perciò comincio a salutare gli amici due giorni prima del tempo.»
E di nuovo gli piacque il rapido sorgere e sparire del sorriso che le arcuava la bocca e le metteva delle fossette nelle guancie.
«Allora — addio,» fece lei guardandolo per un attimo e presentendo che quella partenza l’avrebbe lasciata più triste.
Egli le prese di mano il libro, e poi le stese la mano destra.
«Addio!»
Chérie pose in quella di lui la sua mano piccola e fredda. E Giorgio, poichè non trovava altro da dire, ripetè: «Addio!»
«Addio,» rispose lei ridendo. «Ma adesso bisogna che ve n’andiate. Non potete continuare a dirmi addio, e restar qui.»
«Già;» ammise Giorgio. «Adesso me ne vado.» Poi tossì per darsi un contegno, e soggiunse con aria che voleva essere indifferente: «Sarete ancora qui, quando ritorno dal fronte? Ho idea che non vi piacerebbe vivere sempre in Inghilterra.»
«Non lo so,» rispose Chérie, incerta. «A dir vero non ci ho mai pensato.»
«Capisco,» ribattè Giorgio con qualche insistenza. «Ma vi piace l’Inghilterra? O non vi piace?»
«S’il vous plaît Londres?» citò essa alzando a lui gli occhi ridenti.
Ah! certo, pensò Giorgio, non vi erano nel mondo altri occhi colle ciglia così lunghe, altre pupille così stellanti e raggianti!
«È vero che per certe cose l’Inghilterra non mi piace,» ella osservò pensosa. «Per esempio, le donne inglesi — non è che non mi piacciano... ma non le capisco. Sembrano — come dire? — così rigide, così aride d’anima....» Aveva staccato un ramoscello di bacche invernali e con esso giocherellava distratta camminando accanto a lui. «Pare sempre che abbiano paura di essere troppo espansive o troppo cortesi.»
«È forse vero,» riflettè Giorgio.
«Appena arrivate qui, vostra sorella ce ne parlò per metterci sull’avvisato. — Guardatevi bene — disse — dal far vedere ad una donna inglese che avete della simpatia per lei. Qui non si usa; e sareste fraintese.»
«Perfettamente,» osservò Giorgio. «A noi non piacciono le effusioni esagerate. Se siete molto amabile si pensa subito che avete bisogno di qualche cosa; che state per chiedere denari o qualche altro favore.»
«Che strana idea!» esclamò Chérie.
«Eppure è così. Dovreste vedere mia madre com’è squisitamente villana colla gente che incontra per la prima volta! È questo il segreto dei suoi grandi successi in società.»
Chérie rise. Giorgio, dopo un momento di silenzio, parlò esitante:
«E.... e gli uomini di questo paese? Vi piacciono poco anche quelli?»
«A dir vero non li conosco,» disse lei. «A guardarli» — e volse lo schietto sguardo azzurro in pieno su di lui — «a guardarli sono belli.»
Un vivido rossore tinse la fronte abbronzata di Giorgio.
«E... e non vi verrebbe mai in mente, vero? l’idea di.... di sposare un inglese?»
Chérie scosse il capo, e le lunghe ciglia batterono sulle iridi stellanti. «Sono fidanzata,» disse piano. E con una stretta al cuore, soggiunse: «ad un soldato belga.»
«Ah. Già. Sicuro. Naturale,» disse Giorgio in fretta.
Proseguirono a fianco l’uno dell’altro in silenzio. Finalmente egli, non sapendo che cosa dire, aprì il libro che ancora teneva tra le mani.
«Che cosa leggevate?... Poesia?»
Diede un’occhiata al frontispizio e vide scritto le parole: «Florian Audet à Chérie.» Voltò subito il foglio.
«Sì,» disse Chérie.
«Già... poesia...» ripetè Giorgio, «di Victor Hugo. — Ma ecco un verso che pare scritto per voi:
- «Elle était pâle et pourtant rose...»
Si volse a guardarla: «Voi siete proprio così.»
Ella non rispose. Ancora, ancora quel batter d’ali nel cuore? Cominciava ad impaurirsi. Che fosse «angina pectoris» o qualche altra strana e terribile malattia? Non le dava dolore, ma la faceva vibrare da capo a piedi.
«Siete proprio pâle et pourtant rose, in questo momento,» ripetè Giorgio guardandola. Poi soggiunse con un po’ d’amarezza nella voce e rendendole il libro: «State pensando al giorno in cui sposerete il vostro soldato belga?»
«Forse non vivrò fino a quel giorno,» mormorò Chérie a voce spenta. Il fremito non cessava, non cessava!
«Che idea!» esclamò Giorgio.
«E quanto a lui,» continuò Chérie con un singhiozzo, «forse a quest’ora me l’avranno già ucciso.»
«Ma no!» esclamò Giorgio. «Non dite questo. Vive, vive certo. E voi vivrete. E sarete tanto felici. — Quanto a me,» soggiunse rapido, «io vado a divertirmi un mondo. Ho idea che mi manderanno ai Dardanelli... I Dardanelli! Che bel nome allegro! Pare uno scampanellìo a festa.» E rise cacciandosi all’indietro i capelli dalla fronte chiara ed aperta. «Mi piace l’idea di andare ai Dardanelli.»
«Vi auguro fortuna,» disse Chérie guardandolo con un improvviso senso di tenerezza e di rimpianto.
Avevano fatto il giro del lago ed ora tornavano indietro sotto al pergolato in piena vista delle finestre della villa. Sul balconcino dello studio s’era affacciata Luisa. Chérie vide che le faceva cenno colla mano, e corse sotto al balcone alzando gli occhi.
«Mi chiamavi?»
«Ah, Chérie! Non sapevo dov’eri,» disse Luisa, china sovra il parapetto, «e mi sentivo in pena. Non vuoi venir su, cara? Ho da parlarti.»
«Ah, è vero! è vero!» esclamò Chérie, e i suoi occhi lampeggiarono rammentando la promessa fattale dalla cognata la sera precedente. «Ora mi dirai...» Si volse a Giorgio. «Devo entrare,» disse. «Dunque è venuto davvero il momento di dirci addio!» E rise.
«Addio!» disse Giorgio, grave e un po’ pallido.
«E perchè non diremmo arrivederci?» fece Chérie colla mano in quella di lui.
«Ah, sì!» disse Giorgio guardandola intensamente. «Diciamo arrivederci!»
«Arrivederci, signor Giorgio!... Arrivederci!»
E Chérie entrò in casa.
La sera seguente il giovane ufficiale partì.
Partì. E lo mandarono ai Dardanelli.
Nè vi fu mai su questa terra un «arrivederci» per il signor Giorgio.