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Vecchie storie d'amore/I/Il leardo

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Il leardo

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I - Il valletto ostinato I - Liberalità di messer Bertramo d’Aquino
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IL LEARDO

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I.

Nella notte, tra ’l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in lieve suono di parole, come di sospiri.

Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l’avaro signore del Farneto, non consentiva l’amore della figlia con quel povero cavaliere che era Raimondo di Santelmo; e all’albeggiare Raimondo inforcava il suo fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti finché egli spariva per il bosco.

La boscaglia in quell’ora si svegliava e l’indefinita letizia della vita universale al far del giorno invadeva l’animo del cavaliere co ’l canto degli uccelli, l’odore delle erbe e degli alberi, la frescura [p. 24 modifica] dell’aria: sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere, chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti; voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie della natura universa al sole ed all’amore.

Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell’amata, mal certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s’avvivavano nell’imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la letizia dell’ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano, ne sognava l’intero possesso con ingannevole gaudio. — Oh le morbide guance di rosa e le carni gigliate e fresche!

Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un’ambascia grave gli pesava su l’animo, e quanto più disperava di un lieto fine al suo amore tanto più ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire Giovanna cosí, di furto, la notte. E mentre cercava tra le fronde spesse la vista delle stelle, scorgeva delle ombre [p. 25 modifica] nere che passavano tra i rami dei cerri e delle querce: delle streghe, che l’accompagnavano con mala intenzione, male augurando, sommessamente, al suo povero amore; sommessamente.

Egli rideva forte, e gli avessero pure additato, le streghe, la chiocciola d’oro dai pulcini tutti d’oro, la quale, al dire della gente, si trovava dentro il bosco, ch’egli avrebbe ben saputo rapirgliela, al demonio!

Poi con desiderio intenso e disperato di Giovanna affrettava il leardo per un sentiero che era segnato dalle sole orme del leardo e che lo guidava

al suo amore piú presto e di nascosto. [p. 26 modifica]

II.

Giovanna del Farneto tanto desiderava per marito Raimondo di Santelmo quanto questi desiderava lei per moglie; e se Raimondo si doleva della sua sorte e minacciava di penetrare nel castello, essa, per gran paura che le fosse ucciso (giorno e notte vigilavano le guardie a custodia del ponte: fonda e larga era la fossa, alta la cinta e ferrate le finestre) gli si prometteva ancora e gli si raccomandava di fidare in lei. Poi una notte lo consigliò cosí:

— Mio padre non vuol maritarmi a voi perché non siete ricco; vorrebbe se quel vostro zio di Monveglio vi donasse delle sue terre: andate dunque dallo zio a pregarlo che finga donarvi delle sue terre, e noi, sposati che saremo, gliele renderemo secondo patto giurato e stipulato. — Piacque il consiglio al cavaliere, il quale, il di appresso, cavalcò alla volta di Monveglio.

Vi giunse che era tardi, e trovò lo zio molto lieto, come uno che ha cenato bene e cenando [p. 27 modifica] ha bevuto vino buono, di quello che rischiara la mente, ravviva lo spirito e intenerisce il core.

— Che volete, mio bel nipote? — domandò. E intesa la richiesta, rispose súbito: — Sí sí, faremo questo patto; e parlerò io a ser Lapo del Farneto, che m’è vecchio amico. — Poi strizzando gli occhi: — Ma di’ — chiese —, è molto bella la figliola di ser Lapo?

Raimondo rispose: — Innamorai di lei per udita, e quando la vidi non me ne pentii. Voi la

vedrete. [p. 28 modifica]

III.

Mentre ser Lapo del Farneto numerava delle monete lucenti, che sembravano esser state battute allora allora, e accarezzandole cogli occhi le ammucchiava su la tavola, uno scudiero avvertí la scolta che il signore di Monveglio veniva a trovare il castellano. All’annuncio messer Lapo si alzò puntando le mani sui bracciali del seggiolone, e con quanta fretta gli era consentita dalle deboli forze e dai malanni che gli intorpidivano le membra ripose il tesoro nella cassapanca e diede l’ordine: — Ben venga il vecchio amico!

I due, in rivedersi dopo tanti anni, dissimularono entrambi la sorpresa di un sentimento maligno: d’invidia il signore di Farneto perché egli, scarno, smorto e male in gambe, scorse rubesto, rubizzo e grasso quello di Monveglio; di gioia questi per confronto del suo stato con quello dell’amico. Ma Lapo chiamò la figliola, bramoso che l’altro gli invidiasse almeno un bene ch’egli non aveva; e il signore di Monveglio, vedendo la bella [p. 29 modifica] giovane, con gli occhi gaudenti ne scoprì le carni gigliate e fresche; senti di essa una súbita concupiscenza; dimenticò il nipote e quindi lo ricordò, ma per tradirlo.

— Voi avete una fortuna, che non ho io — disse a ser Lapo quando Giovanna fu uscita. — Che mi valgono i quattrini a me? — Indi chiese: — La maritate?

Arcigno in viso, con tonò aspro, ser Lapo rispose: — Essa è bella, savia e d’alto lignaggio: a chi volete che la dia? — E si dolse del tempo presente, quando non era piú cavaliere degno di sua figlia. — Ma io — aggiunse l’avaro — , non voglio dotarla prima di morire.

Allora parlò il signore di Monveglio, e parlò in guisa che l’altro lo comprese disposto a prendere una moglie senza dote. — Ma non sono piú giovane — lamentava il signore di Monveglio.

— Mia figlia è savia — ribatté ser Lapo. E fu conchiuso il parentado.

Durante la cena i vecchi amici discorsero della loro giovinezza, ilare e rubicondo l’uno, l’altro sempre scuro e sempre astioso. Neppure a [p. 30 modifica] ripensare la letizia della sua giovinezza ser Lapo poteva ridere, quasi una colpa o sciagura della virilità amareggiandogli la vecchiaia piena d’acciacchi lo rimordesse fino d’essere stato giovane. Pure dimandava anch’egli — Vi ricordate? —, e narrava bei fatti anch’egli: i due vecchi narravano fatti di liberalità e di cortesia e biasimavano il tempo presente. Ma di quei due uno era traditore e l’avaro, l’altro, era di tale coscienza che non rideva mai.

Questi, dopo la cena, chiamò la figliola e — Sei sposa — le disse; e accennando all’amico: — Messere è il tuo sposo —; e quegli stringendo la mano della giovane timida e confusa non sentí

quant’era fredda. [p. 31 modifica]

IV.

Corse la fama che la bella Giovanna del Farneto andava in moglie al vecchio sire di Monveglio; e la gente compiangendo la donzella ne ignorava tutta la sventura, ignorava che il suo dolore era quale il segreto dolore di Raimondo di Santelmo.

Le nozze s’annunciavano magnifiche. A un’abbazia a mezza strada tra Monveglio ed il Farneto, alla quale d’ogni parte dovevano convenire i parentadi degli sposi, si sarebbe celebrato il matrimonio una mattina presto; e messer Lapo, che non poteva girare e cavalcare, avrebbe attesi gli sposi nel castello al convito delle nozze.

Magnifiche le nozze; ma neppure la solenne circostanza fece liberale messer Lapo, e per non spendere nei cavalli che recassero le parenti e i servi di scorta alla figliuola, egli mandò attorno qua e là a domandarne in prestito. Di che avuta notizia Raimondo di Santelmo desiderò che il suo buon leardo, già ignaro testimone del suo amore [p. 32 modifica] lungo e sfortunato, fosse testimone a Giovanna anche del dolore e della fede sua richiamandole il ricordo di lui per ogni passo del cammino doloroso; e inviò un valletto a chiedere di grazia a messer Lapo che disponesse a palafreno della sposa il suo cavallo. — È quieto — disse il valletto — e la porterà soavemente.

Messer Lapo acconsentì. E la mattina delle nozze, quando avanti giorno le fantesche vestivano la povera Giovanna e gli scudieri allestivano li altri cavalli per la compagnia, e in tutto il castello era un affaccendarsi rumoroso e gaio, il leardo fu condotto da Santelmo. Al lume dei torchi, per la finestra della sua stanza, messer Lapo vide partire la compagnia, e guardò a lungo la figliola, la quale gli parve bella e bene adorna; ma non porse attenzione a come fosse bello e bene adorno anche il leardo che la portava ambiante, dolcemente.

La cavalcata procedeva triste. I primi raggi del sole si spegnevano in una nuvolaglia biancastra e nell’aria plumbea non si moveva una foglia di tutto quel bosco entro cui la strada penetrava [p. 33 modifica] perdendosi nel fondo fitto; non un uccello cantava allegro; e la sposa sentiva così enorme il peso della sua sventura che non aveva forza di piangere e le mancava il respiro. La cavalcata procedeva triste. Nel cielo, sopra, la nuvolaglia si addensava a poco a poco e dinanzi l’aria si rabbuiava sempre piú, quasi annottasse: però alcuno della scorta, interrogato il tempo, proponeva di tornare indietro.

— Siamo a mezzo viaggio: avanti! — dissero gli altri. E la sposa, smarrita nel suo dolore enorme la considerazione delle cose, non vedeva e non udiva; non udiva che ripercuotersi nel cuore il passo uguale del leardo: Raimondo! Raimondo! Raimondo!

Già un rombo sordo passava per le nuvole imminenti: cavalieri e dame incitarono destrieri e palafreni e con paura tentavano di ridere. — Povera sposa! L’acquazzone la coglieva per la strada! — Infatti l’intemperie cominciò a risolversi in gocce grosse e rade e poi in un’acqua dirotta, crosciante, fragorosa. Nel fondo livido i lampi guizzavano e s’inseguivano tra gli alberi [p. 34 modifica] che al bagliore parevano mostri sbigottiti, e il tuono, dentro quel cielo e dentro quel bosco era il rotolare d’un traino infernale.

Finalmente con strepito di schianto repentino un fulmine stridette e scoppiò da presso ed il leardo spaventato prese la corsa d’una furia: corse cosí, non piú veduto, un lungo tratto della strada; poi, non piú veduto, balzò dalla strada oltre un rio e dietro un sentieruolo obbliquo; e la sposa, avvinghiata alla criniera, cieca di terrore sembrava tendesse lo sguardo ad un abisso nel quale s’aspettasse di precipitare.

Quanto camminò il leardo traverso la boscaglia? D’improvviso Giovanna riacquistando la vista delle cose si scorse fuori del bosco, sotto il cielo terso e luminoso e davanti a un piccolo castello bianco e solatio. Il leardo nitrí. Dal castello uno scudiero guardò e riconobbe il leardo; guardò il sire del luogo, Raimondo di Santelmo, e riconobbe Giovanna; e poiché fu abbassato il ponte lestamente, Giovanna cadde dal cavallo nelle braccia di Raimondo.

Ma lo scudiero aveva a pena dato da mangiare [p. 35 modifica] al cavallo madido di pioggia e di sudore che il sire venne nella stalla e comandò: — Salta in groppa e corri dal proposto di Sestale: che per nessuna cosa al mondo manchi di essere qua prima di notte.

Né era ancora notte quando, mentre le genti del Farneto e di Monveglio ricercavano tuttavia pe ’l bosco la donzella, il signore del Farneto e il signore di Monveglio appresero che madonna Giovanna, in cospetto di Dio e del prete di Sestale, era divenuta moglie a Raimondo di Santelmo.

“ Mi sta bene „ disse quel di Monveglio: ma l’altro bestemmiò Iddio e la sorte e la figliola. E piú tardi, imparando il fatto del leardo, “ Maledetto quel cavallo! — gridò con rabbia — . Per lui ho rinnegata la figliola e lascierò al diavolo la mia roba. „

Ser Lapo, la notte, nei sogni torbidi osservava un cavallo furioso con sopravi la figlia traverso il bosco, e la visione e l’impressione dei sogni perdurandogli nella mente turbata e affievolita, egli ripeteva spesso anche di giorno: — Ah quel

cavallo! quel cavallo! [p. 36 modifica]

V.

Un giorno d’autunno, in tanto che madonna Giovanna e una fantesca distendevano il bucato al sole, arrivò di corsa a Santelmo uno scudiero del Farneto. — Madonna — disse —, messer Lapo sta male e vuol vedervi. — Ciò udito madonna Giovanna affollò lo scudiero d’inchieste e Raimondo fece sellare il leardo.

Presero per via piú breve il sentiero occulto che l’amore di Raimondo aveva tracciato dentro il bosco. E andando, con l’anima in pena, la donna si raffigurava il padre morente nella camera ove egli era rimasto lieto un mattino ad attenderla sposa e poi in un tormentoso abbandono era rimasto dei mesi ad aspettare la morte; lo rivedeva quale l’aveva veduto un giorno fanciulla portare di peso dai servi entro la stessa camera, il volto contraffatto e gli occhi gonfi e sanguigni, brutto, pauroso; e a secondare così con la fantasia commossa il ricordo lontano, sentiva quasi un conforto risalendo piú addietro nelle memorie della puerizia, [p. 37 modifica] quando per virtù della sua gaja innocenza quetava le ire del padre, ne raddolciva le asprezze e ne dissipava forse i truci disegni: su ’l castello gradavano leggende di misteri foschi. Essa, con la visione precisa dalle cose infantili, ricorreva ora per le camere ampie fredde e sonore; nella corte chiusa da muraglie umide; nell’orto incolto; sotto il porticato conventuale; attorno la cinta tutta screpolata e macchiata di licheni e di muschi, e chiamava il padre con strilli di terrore e di gioia; ed egli con un pallido sorriso l’accoglieva nelle sue braccia.

Ma ora egli moriva e forse era già morto senza averla riveduta, dopo averla invocata e attesa invano: forse era già morto! Ella guardò il marito che le veniva appresso pensoso e silenzioso.

Sotto i piedi del leardo crepitavano le foglie secche. Nel bosco era una tristezza lugubre.


Giunti che furono al castello madonna Giovanna corse dove ser Lapo, adagiato sopra un seggiolone e sorretto da guanciali, traeva a stento il [p. 38 modifica]respiro presso un’ampia finestra. Il suo aspetto non era piú quello di un tempo e non era quello che la figliola s’era raffigurato: nel viso esangue traspariva la sofferenza di un micidiale dolore per gran tempo raccolto e protratto, ma l’anima, che aveva conteso il corpo alla morte e per brev’ora aveva vinto, quasi purificata dalla contesa e dalla vittoria gli effondeva nel viso esangue una luce nuova di bontà e di pietà. Gli occhi non piú irosi e torvi guardarono con dolcezza placida, a lungo; poi dalle labbra raggricciate e livide uscirono finalmente parole miti e generose. E messer Lapo, che aveva perdonato a’ suoi figli, volle vedere Raimondo, e riconoscendolo disse: — Muoio.

Seguí un silenzio d’alcuni minuti, eterno, e rotto soltanto dai singhiozzi della figliola e dal gorgoglioso respiro del padre. Poi questi, quasi vaneggiasse o afferrasse in una riflessione estrema un’estrema ricordanza, balbettò ancora: — Quel cavallo.... quello....

O era l’ultima volontà di ser Lapo? Ordinando di condurre nella corte, sotto la finestra, il leardo, madonna Giovanna indovinava essa l’ultima [p. 39 modifica] volontà di ser Lapo? — Poco dopo il leardo raspava giú nella corte, e la figlia china su ’l padre — E là — disse tendendo la mano verso il cavallo.

Il vecchio alzò le palpebre ed abbassò uno sguardo dalla finestra; lo vide e parve che sorridesse: ma le palpebre non ricaddero sopra le pupille spente.

— Padre! — gridò la donna.

Il sire di Farneto, morto, pareva che sorridesse.