Viaggio al centro della Terra/XXX

Da Wikisource.
XXX

../XXIX ../XXXI IncludiIntestazione 16 novembre 2022 75% Da definire

XXIX XXXI
[p. 124 modifica]

XXX.

Da principio non vidi nulla; gli occhi disavvezzi alla luce si chiusero bruscamente. Quando potei riaprirli rimasi più stupefatto che meravigliato.

«Il mare! esclamai.

— Sì, rispose mio zio, il mare Lidenbrock, ed io credo che nessun navigatore mi disputerà l’onore d’averlo scoperto e il diritto di battezzarlo col mio nome!»

Un’ampia distesa d’acqua, il principio d’un lago o d’un [p. 125 modifica]oceano, si spingeva oltre i limiti della vista. La riva intagliata largamente offriva alle ultime ondulazioni dei flutti una sabbia fina, dorata, cosparsa di quelle piccole conchiglie in cui vissero i primi esseri della creazione. Quel mare vi si frangeva col lungo mormorio proprio ai luoghi chiusi ed immensi. Una lieve schiuma fuggiva al soffio d’un vento moderato, e alcuni vapori mi battevano sul viso. Sulla spiaggia lievemente inclinata, a cento tese circa dal lembo delle onde, morivano i contrafforti di roccie enormi che salivano allargandosi ad incommensurabile altura. Taluni, fendendo la spiaggia colle loro punte acute, formavano capi o promontori rosi dal dente del risucchio. Più lungi l’occhio seguiva la loro massa che si disegnava nettamente sul fondo brumoso dell’orizzonte.

Era un vero oceano col contorno capriccioso delle rive terrestri, ma deserto e d’aspetto spaventevolmente selvaggio.

Se i miei sguardi potevano portarsi lontani sopra quel mare gli è che una luce speciale ne rischiarava i menomi particolari. Non già la luce del sole cogli sprazzi abbaglianti e la splendida irradiazione de’ suoi raggi, nè la luce pallida e vaga dell’astro delle notti che non è se non una riflessione senza calore: no; l’intensità di quella luce, la sua tremula diffusione, la sua bianchezza limpida e secca, la sua temperatura poco elevata, e il suo splendore più vivo di quello della luna, segnalavano evidentemente una origine elettrica. Era una specie di aurora boreale, un fenomeno cosmico continuo che riempiva la caverna capace di contenere un oceano.

La vôlta sospesa sopra il mio capo, il cielo, se così si vuole, sembrava fatto di gran nuvole, vapori mobili e mutevoli che condensandosi dovevano qualche volta risolversi in pioggie torrenziali. Avrei creduto che sotto una pressione atmosferica così forte non potesse avvenire l’evaporazione dell’acqua, e nondimeno per una ragione fisica che m’era ignota, larghe nubi si stendevano nell’aria. Pure allora il cielo era sereno; l’elettricità produceva meravigliosi giuochi di luce sulle volute inferiori. Soventi volte, fra due strati disgiunti, un raggio giungeva fino a noi con notevole intensità. Ma infine non era il sole poichè la sua luce era priva di calore. Lo spettacolo era triste, sovranamente melanconico. Invece d’un firmamento scintillante di stelle, io sentiva al [p. 126 modifica]disopra di quelle nuvole una vôlta di granito che mi schiacciava con tutto il suo peso; e questo spazio, per quanto fosse immenso, non sarebbe bastato alla passeggiata del meno ambizioso dei satelliti.

Mi sovvenni allora di quella teorica di un capitano inglese, il quale assomigliava la Terra ad una vasta sfera vuota, nell’interno della quale l’aria si manteneva luminosa per la sua pressione, mentre due astri, Plutone e Proserpina, vi percorrevano le loro orbite misteriose. Avrebb’egli detto il vero?

Noi eravamo realmente imprigionati in un cavo enorme di cui non potevamo misurare la larghezza, poichè la riva andava allargandosi fino a sottrarsi alla nostra vista, nè la sua lunghezza, poichè lo sguardo era ben presto arrestato da una linea d’orizzonte alquanto indeterminata. Quanto alla sua altezza, essa doveva essere di molte leghe. L’occhio non poteva vedere dove la vôlta si appoggiasse sui contrafforti di granito; ma vi aveva tal nuvola sospesa nell’atmosfera la cui elevazione doveva essere stimata di duemila tese, altezza maggiore di quella dei vapori terrestri, e dovuta senza dubbio alla densità considerevole dell’aria.

La parola caverna non riproduce il mio pensiero per dipingere l’immenso spazio; ma le parole del linguaggio umano non bastano a chi si avventura negli abissi del globo.

Io non sapeva, d’altra parte, con qual fatto geologico spiegare l’esistenza di un simile cavo. Poteva il raffreddamento del globo averlo prodotto? M’erano note dai racconti de’ viaggiatori certe caverne celebri, ma nessuna era di cotali dimensioni.

Se la grotta di Guacharo nella Colombia, visitata da Humboldt, non aveva rivelato il segreto della sua profondità al dotto che la scandagliò-per uno spazio di duemila cinquecento piedi, verisimilmente non si estendeva molto al di là. L’immensa caverna del Mammouth nel Kentucky aveva certo proporzioni gigantesche, poichè la sua vôlta si elevava ben cinquecento piedi sopra un lago inscandagliabile e alcuni viaggiatori la percorsero per oltre dieci leghe senza incontrare la fine. Ma che cosa erano codeste cavità appetto a quella ch’io mirava allora, col suo cielo di vapori, colle sue irradiazioni elettriche e un vasto mare chiuso nei suoi fianchi. La mia immaginazione si sentiva impotente innanzi a tale immensità. [p. 127 modifica]

Tutte quelle meraviglie, io le contemplavo in silenzio. Le parole mi venivano meno per esprimere le mie sensazioni. Parevami di assistere in qualche lontano pianeta, Urano o Nettuno, a fenomeni di cui la mia natura terrestre non avesse coscienza. A sensazioni nuove occorrevano parole nuove, e l’immaginazione non me le forniva. Guardavo, pensavo, ammiravo con uno stupore misto di spavento.

Quello spettacolo impreveduto aveva richiamato sul mio volto i colori della salute; io stava per far cura dello sbalordimento e per operare la mia guarigione col mezzo di questa nuova terapeutica; d’altra parte la vivacità dell’aria densissima mi rianimava, fornendo maggior quantità d’ossigeno ai miei polmoni.

Si comprenderà senza fatica come, dopo un imprigionamento di quarantasette giorni in una stretta galleria, fosse godimento senza fine quello di aspirare la brezza carica di umide emanazioni saline.

Però non ebbi a pentirmi di aver lasciato la mia grotta oscura. Mio zio, già avvezzo a quelle meraviglie, non stupiva più.

«Ti senti forza di passeggiare un poco? mi dimandò.

— Sì, certo, risposi, e nulla mi parrà più piacevole.

— Ebbene, dammi il braccio, Axel, e seguiremo le sinuosità della spiaggia.»

Accettai con premura e cominciammo a costeggiare quel nuovo oceano. Alla sinistra, roccie scoscese, sovrapposte le une alle altre, formavano una massa titanica di effetto prodigioso. Sui loro fianchi scorrevano cascate innumerevoli che se ne andavano in corpi limpidi e sonori. Lievi vapori rimbalzanti da una roccia all’altra segnavano sorgenti calde, ed alcuni ruscelli scorrevano lentamente verso il bacino comune, cercando nei pendii occasione di mormorare più piacevolmente.

Fra quei rigagnoli riconobbi il nostro fedele compagno di viaggio, l’’Hans-Bach, che veniva a perdersi tranquillamente nel mare come se non avesse mai fatto altro sin dal principio del mondo.

«Quind’innanzi esso ci mancherà, diss’io con un sospiro.

— Oibò! disse il professore; esso o un altro che monta?»

Trovai la risposta un po’ ingrata.

Ma in quel momento la mia attenzione fu fermata da [p. 128 modifica]uno spettacolo inatteso. A cinquecento passi, allo svolto d’un alto promontorio, apparve ai nostri occhi una foresta fitta di alberi di mezzana grandezza tagliati in forma di ombrelli regolari, a contorni netti e geometrici; le correnti atmosferiche non mi parevano poter nulla sul loro fogliame, poichè in mezzo ai soffi si rimanevano immobili e come pietrificati.

Affrettai il passo. Io non sapeva dare un nome a quegli esseri singolari; non facevano essi parte delle dugentomila specie vegetali conosciute fino allora, o mi bisognava classificarli a parte nella flora delle vegetazioni lacustri? No. Quando arrivammo sotto la loro ombra la mia meraviglia si mutò in ammirazione.

Infatti io aveva innanzi agli occhi prodotti della terra, ma tagliati secondo un modello gigantesco. Mio zio li chiamò immediatamente col loro nome.

«Non è che una foresta di funghi» diss’egli.

E non s’ingannava. Si giudichi lo sviluppo acquistato dalle piante proprie dei luoghi caldi ed umidi. Io sapeva che il Lycoperdon giganteum raggiunge, al dire di Bulliard, da otto a nove piedi di circonferenza; ma si trattava qui di funghi bianchi alti da trenta a quaranta piedi con una calotta d’un diametro eguale. Si contavano a migliaia. La luce non riusciva a vincere la loro fitta ombra, ed una oscurità perfetta regnava sotto quelle cupole sovrapposte come i tetti rotondi d’una città africana.

Nondimeno volli addentrarmi. Un freddo mortale scendeva dallo volte carnose.

Errammo in quell’umido tenebrore durante una mezz’ora, e fu con un vero sentimento di benessere che rivenni alla spiaggia del mare.

Ma la vegetazione della sotterranea regione non si arrestava a quelle specie di funghi. Più lungi sorgevano gran numero di altri alberi dalle foglie scolorite. Era facile riconoscere che non erano se non gli umili arbusti della terra con dimensioni fenomenali, licopodi alti cento piedi, sigillarie gigantesche, felci arborescenti grandi come i pini delle alte latitudini, lepidodendri a rami cilindrici biforcati, terminati da lunghe foglie e irti di ruvidi peli a mo’ di mostruose piante grasse.

«Meraviglioso, magnifico, splendido! esclamò mio zio. Ecco la flora della seconda epoca del mondo, dell’epoca di transizione. Ecco le umili piante dei nostri giardini [p. 129 modifica]che erano alberi nei primi secoli de globo! Osserva, Axel; ammira, giammai botanico si trovò a tal festa!

— Avete ragione, zio. La provvidenza sembra aver voluto conservare entro questa serra immensa le piante antidiluviane che la pazienza sagace degli scienziati ha ricostruito con tanta fortuna.

— Tu dici benissimo, giovinotto mio; è una serra; ma diresti meglio aggiungendo che è forse anche un serraglio.

— Un serraglio!

— Sì, senza dubbio; vedi la polvere che noi calpestiamo, queste ossa sparse sul suolo.

— Delle ossa, esclamai; sì, delle ossa di animali antidiluviani.»

Io m’era precipitato su tali reliquie secolari, fatte d’una sostanza indistruttibile1, e dava senza esitare un nome a quelle ossa gigantesche che rassomigliavano a tronchi d’alberi disseccati.

«Ecco la mascella inferiore del mastodonte, diceva, ecco i molari del dinoterio, ecco un femore che non può esser stato se non del più grande di cotesti animali, del megaterio. Sì, certo, è proprio un serraglio, poichè queste ossa non sono state di certo trasportate fin qui de un cataclisma. Gli animali a cui esse appartengono vissero certamente sulle rive di questo mare sotterraneo, all’ombra di queste piante arborescenti. Ecco, io vedo scheletri intieri e tuttavia...

— Tuttavia? disse mio zio.

— Non so comprendere la presenza di simili quadrupedi in questa caverna di granito.

— Perchè?

— Perchè la vita animale non ha esistito sulla terra se non nei periodi secondarii, quando il terreno sedimentario fu formato dalle alluvioni e sostituì le roccie incandescenti dell’epoca primitiva.

— Ebbene, Axel, vi ha una risposta semplicissima alla tua obbiezione, ed è che questo terreno è un terreno sedimentario.

— Come! a tanta profondità sotto la superficie della terra?

— Senza dubbio, ed il fatto può essere spiegato geologicamente. A una cert’epoca la terra non era formata [p. 130 modifica]che da una scorza elastica soggetta a movimenti alternativi dall’alto e dal basso, in virtù delle leggi dell’attrazione; è probabile che sia avvenuto un crollamento di suolo e che una parte di terreno sedimentario sia stata trascinata in fondo agli abissi spalancati d’un subito.

— Così dev’essere. Ma se animali antidiluviani hanno vissuto in tali regioni sotterranee, chi ne dice che taluno di quei mostri non erri ancora in mezzo alle tetre foreste o dietro le roccie a picco?»

A quest’idea guardai non senza spavento nei vari punti dell’orizzonte, ma sulle roccie deserte non apparve creatura viva.

Ero un po’ stanco, ed andai a sedermi all’estremità di un promontorio ai piedi del quale i flutti si frangevano con rumore.

Di là il mio sguardo abbracciava tutta la baia, formata da una tacca della costa. In fondo, una specie di porto era scavato fra le roccie piramidali; le sue acque tranquille dormivano al riparo del vento; un brick e due o tre golette avrebbero potuto gettarvi le ancore comodamente.

Per poco io non m’aspettava di vedere qualche naviglio uscirne fuori a vele spiegate e prendere il largo spinto dalla brezza del sud. Ma siffatta illusione sparve ben presto. Noi eravamo pure le sole creature di quel mondo sotterraneo.

Quando il vento s’acquetava, un silenzio più profondo dei silenzi del deserto scendeva su quelle roccie aride, e pesava sulla superficie dell’oceano. Allora io spingeva l’occhio entro le brume lontane, tentando di stracciare il velo gettato sul fondo dell’orizzonte, e mille domande mi venivano alle labbra: dove finiva quel mare? dove conduceva? potremmo noi mai conoscerne le rive opposte?

Quanto a mio zio egli non ne dubitava punto. Io lo desiderava e lo temevo insieme.

Dopo un’ora passata a contemplare il meraviglioso spettacolo, riprendemmo il cammino della spiaggia per riguadagnare la grotta ove mi addormentai d’un profondo sonno popolato dai più bizzarri fantasmi.


Note

  1. Fosfato di calce.