Viaggio al centro della Terra/XXXVIII

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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
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XXXVIII.

Per intendere questa evocazione di mio zio agli illustri scienziati francesi giova sapere che, poco tempo prima la nostra partenza, era avvenuto un fatto di somma importanza in paleontologia. [p. 163 modifica]

Il 28 marzo 1863, alcuni operai sterrando sotto la direzione di Perthes le cave di Moulin-Quignon, presso Albeville, nel dipartimento della Somma, in Francia, trovarono una mascella umana a quattordici piedi sotto la superficie del suolo. Era il primo fossile di siffatta specie ricondotto alla luce del giorno. Accanto ad esso si trovarono accette di pietra e di silice, colorate e rivestite dal tempo d’una patina uniforme.

Il rumore di questa scoperta fu grande, non solo in Francia. ma anche in Inghilterra ed in Germania. Parecchi scienziati dell’Istituto francese, in ispecie i signori Milne Edwards e de Quatrefages, presero la cosa a cuore e dimostrarono l’incontrastabile autenticità dell’osso in quistione e si fecero ardentissimi patrocinatori della causa della mascella, secondo l’espressione inglese.

Ai geologi del Regno Unito che ebbero il fatto come certo, Falconer, Busk, Carpenter, ecc., si aggiunsero scienziati tedeschi, fra i quali in prima fila, ardente ed entusiasta più di tutti, mio zio Lidenbrock.

L’autenticità d’un fossile umano dell’epoca quaternaria sembrava adunque dimostrata ed ammessa.

Siffatto sistema, peraltro, aveva avuto un avversario accanito nel signor Elia de Beaumont. Questo scienziato autorevolissimo affermava che il terreno di Moulin-Quignon non apparteneva già al diluvio, ma ad uno strato meno antico, e d’accordo in ciò con Cuvier, non ammetteva che la specie umana fosse stata contemporanea degli animali dell’epoca quaternaria. Mio zio Lidenbrock, colla maggioranza dei geologi, aveva tenuto duro, disputato, discusso, ed il signor Elia de Beaumont era rimasto quasi solo dalla sua parte.

Ci erano noti tutti questi particolari della faccenda, ma ignoravamo che dopo la nostra partenza la questione aveva fatto nuovi progressi, e che altre mascelle identiche, benchè appartenenti ad individui di tipo diverso e di nazioni differenti, furono trovate nelle terre leggiere e grigie di certe grotte; in Francia, in Isvizzera, nel Belgio, oltre ad armi, utensili, strumenti, ossami di fanciulli di adolescenti, di uomini e di vecchi. L’esistenza dell’uomo quaternario s’affermava dunque ogni giorno più.

E non era tutto. Altri frammenti esumati dal terreno terziario pliocenico avevano permesso a scienziati ancor più audaci di assegnare alla razza umana un’antichità [p. 164 modifica]maggiore. Questi frammenti non erano a dir vero ossa umane, ma solo oggetti della sua industria, tibie, fémori d’animali fossili, striati regolarmente, per così dire scolpiti e che portavano l’impronta d’un lavoro umano.

Così, d’un balzo, l’uomo risaliva la scala del tempo di gran numero di secoli; esso precedeva il mastodonte; diveniva contemporaneo dell’elephas meridionalis; aveva centomila anni d’esistenza, che tal’è l’età attribuita dai più rinomati geologi al terreno pliocenico.

Tale era allora lo stato della scienza paleontologica, e ciò che noi ne conoscevamo bastava a spiegare la nostra attitudine innanzi all’ossario del mare Lidenbrock. Si comprenderà lo stupore e la gioia di mio zio, sopratutto quando venti passi più oltre, si trovò al cospetto, faccia a faccia per così dire, con un campione dell’uomo quaternario.

Era un corpo umano assolutamente riconoscibile. Forse un terreno di natura speciale, al par di quello del cimitero San Michele a Bordeaux, l’aveva così conservato per secoli? Non saprei dirlo. Ma questo cadavere, dalla pelle tesa e ridotta allo stato di cartapecora, dalle membra tuttavia morbide, – almeno a giudicarne dall’aspetto, – dai denti intatti, dalla capigliatura abbondante, dalle unghie delle mani e dei piedi spaventevolmente lunghe, appariva ai nostri occhi quale aveva vissuto, Io era muto in faccia a quella apparizione d’un’altra età; mio zio, di solito così loquace e parlatore così impetuoso, taceva anch’esso. Avevamo sollevato quel corpo, lo avevamo raddrizzato, ed esso ci guardava colle vuote occhiaie. Palpavamo il suo torso sonoro.

Dopo alcuni istanti di silenzio, lo zio fu vinto dal professore, e Otto Lidenbrock, trasportato dal suo temperamento, dimentico delle peripezie del nostro viaggio, del luogo in cui eravamo, dell’immensa caverna che ci circondava, credendosi senza dubbio allo Johanneaum, per far scuola ai suoi allievi, parlò con accento dottorale, volgendosi ad un uditorio immaginario, così:

«Signori, diss’egli, ho l’onore di presentarvi un uomo dell’epoca quaternaria. Grandi scienziati hanno negato la sua esistenza, altri non meno grandi l’hanno affermata. Se i San Tomasi della paleontologia fossero qui lo toccherebbero con mano e sarebbero pur costretti a riconoscere il loro errore. So bene che la scienza deve diffidare delle scoperte di siffatta natura, e non ignoro [p. 165 modifica]qual traffico di uomini fossili abbiano fatto i Barnum ed altri ciarlatani della stessa farina. Mi è nota la storia della rotella di Ajace, del preteso corpo d’Oreste ritrovato dagli Spartani, e del corpo di Asterius lungo dieci cubiti, di cui parla Pausania. Ho letto i rapporti sullo scheletro di Trapani scoperto nel secolo XIV e in cui si voleva riconoscere Polifemo, e la storia del gigante disseppellito durante il secolo XVI nei dintorni di Palermo. Voi non ignorate al pari di me, signori, l’analisi fatta presso Lucerna nel 1577 dei grandi ossami che il celebre medico Felice Plater dichiarò appartenere a un gigante di diciannove piedi. Ho letto avidamente i trattati di Cassanione e tutte le memorie, gli opuscoli, i discorsi e i contro-discorsi pubblicati in proposito dello scheletro del re dei Cimbri, Teutobochus, re della Gallia, disseppellito da una cava di sabbia nel Delfinato, nel 1613. Nel XVIII secolo io avrei combattuto con Pietro Campet l’esistenza dei preadamiti di Scheuchzer. Ebbi tra le mani lo scritto intitolato Gigans...»

Qui riapparve l’infermità naturale di mio zio il quale in pubblico non poteva pronunciare le parole difficili, «Lo scritto intitolato Gigans...» riprese a dire.

Egli non poteva andar oltre.

«Giganteo...»

Impossibile! La parola. malcapitata non voleva venirgli fuori. Si avrebbe riso di gran cuore allo Johannaeum.

«Gigantosteologia!» finì di dire il professore Lidenbrock fra due imprecazioni.

Poi continuando con nuova lena e infervorandosi:

«Sì, o signori, io so tutte queste cose, e so pure che Cuvier e Blumembach hanno riconosciuto in questi ossami semplici ossa di mammuth e d’altri animali dell’epoca quaternaria. Ma qui il dubbio sarebbe ingiuria alla scienza! Il cadavere è là; voi potete vederlo e toccarlo, e non e già una scheletro ma un corpo intatto conservato per un fine unicamente antropologico.»

Io non ebbi certo il pensiero di contraddire questa asserzione.

«S’io potessi lavarlo in una soluzione d’acido solforico, disse altresì mio zio, ne farei sparire tutte le parti terrose e le conchiglie splendenti che sono incrostate sopra di lui, ma non ho il prezioso dissolvente; pure così com’è questo corpo ci racconterà la sua propria storia.» [p. 166 modifica]

A questo punto il professore prese il cadavere fossile e lo maneggiò colla destrezza d’uno spiegatore di curiosità.

«Lo vedete, ripresa a dire, non ha sei piedi di lunghezza e siamo lontani dai pretesi giganti. Quanto alla razza a cui appartiene è incontrastabilmente caucasica; è la razza bianca, è la nostra.

«Il cranio di questo fossile è regolarmente ovoide, senza sviluppo di zigomi, senza projezione delle mascelle, e non presenta carattere di prognatismo che modifichi l’angolo facciale1. Misurate quest’angolo; esso è quasi di 90°. Ma io andrò più lungi nella via delle deduzioni ed oserò dire che appartiene alla famiglia giapetica sparsa dalle Indie fino ai confini dell’Europa occidentale. Non sorridete, signori!»

Nessuno sorrideva, ma il professore aveva l’abitudine di vedere i volti rischiarati dal sorriso durante le sue dotte dissertazioni.

«Sì, proseguì egli con nuova animazione, gli è codesto un uomo fossile contemporaneo dei mastodonti i cui ossami ingombrano questo anfiteatro. Dirvi per qual via sia giunto qui e come gli strati in cui era nascosto siano scivolati fino in questa enorme cavità del globo, questo io non farò. Certo nell’epoca quaternaria commozioni straordinarie si manifestavano ancora nella scorza terrestre; il continuo raffreddamento del globo produceva delle fratture, dei crepacci in cui si sprofondava assai probabilmente una parte del terreno superiore. Io non affermo nulla, ma infine eccovi l’uomo circondato dalle opere della sua mano, accette, selci tagliate che hanno formato l’età della pietra, e se pure egli non è venuto qui, al pari di me, da torista e da operaio della scienza, io non posso più dubitare della autenticità della sua antica origine.»

Il professore tacque ed io uscii in applausi unanimi. D’altra parte mio zio aveva ragione, e scienziati assai più dotti di suo nipote sarebbero stati imbarazzati a combatterlo. [p. 167 modifica]

Altro indizio; il corpo fossilizzato non era il solo dell’immenso ossario. Ad ogni passo che facevamo in quella polvere incontravamo nuovi corpi e mio zio poteva scegliere i campioni più meravigliosi per convincere gli increduli.

Davvero, era pure un meraviglioso spettacolo questo di tante generazioni d’uomini e d’animali confuse in quel cimitero. Rimaneva una sola quistione e non osavamo risolverla. Codesti esseri sventurati eran essi per una convulsione del suolo scivolati verso le rive del mare Lidenbrock, in un tempo ch’erano già ridotti in polvere? Oppure vissero essi in questo mondo sotterraneo, sotto questo cielo fittizio, nascendo e morendo come gli abitanti della terra? Finora mostri marini, pesci soltanto c’erano apparsi viventi. Ma chi sa se qualche uomo dell’abisso non errava ancora lungo le spiagge deserte?



Note

  1. L’angolo facciale è formato da due piani, l’uno più o meno verticale tangente alla fronte ed agli incisivi, l’altro orizzontale e passa per l’apertura dei condotti auditivi e la spina nasale inferiore. Si chiama prognatismo in linguaggio antropologico la projezione della mascella che modifica l’angolo facciale.