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Storia d'Italia/Libro XVI/Capitolo VIII

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Libro sedicesimo
Capitolo ottavo

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Libro XVI - Capitolo VII Libro XVI - Capitolo IX

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VIII

Diverse ragioni di malcontento, pel trasferimento del re di Francia in Ispagna, dei veneziani del pontefice del Borbone e del marchese di Pescara. Condizione di soggezione a Cesare del duca di Milano; malcontento dei sudditi; occulte proposte del Morone contro Cesare al marchese di Pescara, al pontefice ed ai veneziani. Contegno del marchese di Pescara: sua rivelazione della congiura a Cesare. Promesse della reggente di Francia. Cesare invia la patente di capitanato al marchese di Pescara. Investitura del ducato a Francesco Sforza. Infermitá del duca; raccolta di nuove milizie da parte del marchese di Pescara.

Ma l’andata del re di Francia in Spagna aveva dato grandissima molestia al pontefice e a’ viniziani. Perché, poi che lo esercito cesareo era assai diminuito, pareva loro che, in qualunque luogo di Italia si fermasse la persona del re, che la necessitá di guardarlo bene tenesse molto implicati i cesarei, in modo che o facilmente si potesse presentare qualche occasione di liberarlo o almanco che la difficoltá di condurlo in Spagna e la poca sicurtá di tenerlo in Italia costrignesse Cesare a dare alle cose universali onesta forma. Ma vedutolo andare in Spagna, e che egli medesimo, ingannato da vane speranze, aveva dato agli inimici facoltá di condurlo in sicura prigione, si accorsono che tutto quello che si trattava era assolutamente in mano di Cesare, e che nelle pratiche e offerte de’ franzesi non si poteva fare alcuno fondamento; donde, augumentandosi ogni dí la riputazione di Cesare, si cominciò ad aspettare da quella corte le leggi di tutte le cose. Né so se e’ fusse minore il dispiacere che ebbono, benché per diverse cagioni, il duca di Borbone e il marchese di Pescara, che il viceré senza saputa loro avesse condotto il re cristianissimo in Spagna: Borbone, perché trovandosi per l’amicizia fatta con l’imperadore scacciato di Francia aveva piú interesse che nissuno altro di intervenire a tutte le pratiche dello accordo, e però si dispose a passare ancora egli in Spagna (benché, essendo necessitato aspettare il ritorno delle galee che erano andate col viceré, tardò a partirsi piú che non arebbe desiderato); [p. 307 modifica]e il marchese era sdegnato per la poca estimazione che aveva fatta di lui il viceré, ma ancora male contento di Cesare, dal quale gli pareva che e’ non fussino riconosciuti quanto si conveniva i meriti suoi e l’opere egregie fatte da lui in tutte le prossime guerre, e specialmente nella giornata di Pavia, della vittoria della quale aveva il marchese solo conseguito piú gloria che tutti gli altri capitani: e nondimeno era paruto che Cesare, con molte laudi e dimostrazioni, l’avesse riconosciuta assai dal viceré. Il che non potendo tollerare scrisse a Cesare lettere contumeliosissime contro al viceré lamentandosi di essere stato immeritamente tanto disprezzato da lui che non l’avesse giudicato degno di essere almeno conscio di una tale deliberazione; e che se nella guerra e ne’ pericoli avesse riferito al consiglio e arbitrio proprio la deliberazione delle cose non solo non sarebbe stato preso il re di Francia ma, subito che fu perduto Milano, lo esercito cesareo, abbandonata la difesa di Lombardia, si sarebbe ritirato a Napoli. Essere il viceré andato a trionfare di una vittoria nella quale era notissimo a tutto l’esercito che esso non aveva parte alcuna, e che essendo nell’ardore della giornata restato senza animo e senza consiglio, molti gli avevano udito dire piú volte: — noi siamo perduti; — il che quando negasse si offeriva parato a provargliene, secondo le leggi militari, con l’arme in mano. Accresceva la mala contentezza del marchese che avendo, subito dopo la vittoria, mandato a pigliare la possessione di Carpi, con intenzione di ottenere quella terra per sé da Cesare, non era ammesso questo suo desiderio; perché Cesare, avendola conceduta due anni innanzi a Prospero Colonna, affermava che benché mai ne avesse avuta la investitura, volere, in beneficio di Vespasiano suo figliuolo, conservare alla memoria di Prospero morto quella remunerazione che aveva fatto alla virtú e opere di lui vivo: la quale ragione ancora che fusse giusta e grata, e al marchese dovessino piacere gli esempli di gratitudine se non per altro perché gli accrescevano la speranza che avessino a essere remunerate tante sue opere, non era nondimanco accettata da lui; il quale, come sentiva molto di se medesimo, [p. 308 modifica]giudicava conveniente che questo suo appetito, nato da cupiditá e da odio implacabile che e’ portava al nome di Prospero, fusse anteposto a ogni altro benché giustissimo rispetto. Però, e con Cesare e con tutto il consiglio erano gravissime le sue querele, e tanto palesi in Italia i suoi lamenti, e con tale detestazione della ingratitudine di Cesare, che dettono animo ad altri di tentare nuovi disegni: donde a Cesare, se e’ non pensava a occupare piú oltre in Italia, si presentò giusta cagione anzi quasi necessitá di fare altri pensieri; e se pure aveva fini ambiziosi ebbe occasione di coprirgli con la piú onesta occasione e col piú giustificato colore che avesse saputo desiderare. Il che, poiché fu origine di grandissimi movimenti, è necessario che molto particolarmente si dichiari.

La guerra che, vivente Leone decimo, fu cominciata da lui e da Cesare per cacciare il re di Francia d’Italia fu presa sotto titolo di restituire Francesco Sforza nel ducato di Milano; e benché in esecuzione di questo, ottenuta la vittoria, gli fusse consegnata la ubbidienza dello stato e il castello di Milano e l’altre fortezze, quando si recuperorono, nondimeno, essendo quello ducato tanto magnifico e tanto opportuno, non cessava il timore avuto nel principio da molti che Cesare aspirasse a insignorirsene, interpretando che lo ostacolo potente che aveva del re di Francia fusse cagione che per ancora tenesse occulta questa cupiditá, perché arebbe alterato i popoli che ardentemente desideravano Francesco Sforza per signore, e concitatasi contro tutta Italia che non sarebbe stata contenta di tanto suo augumento. Teneva adunque Francesco Sforza quello ducato, ma con grandissima suggezione e pesi quasi incredibili: perché, consistendo tutto il fondamento della difesa sua dai franzesi in Cesare e nel suo esercito, era necessitato non solo a osservarlo come suo principe ma ancora a stare sottoposto alla volontá de’ capitani; e gli bisognava sostentare quelle genti che non erano pagate da Cesare, ora col dare loro danari, che si traevano dai sudditi con grandissime angherie e difficoltá, ora col lasciargli vivere a discrizione quando in una quando in un’altra parte, eccetto la cittá di Milano, dello stato: le quali [p. 309 modifica]cose, per sé gravissime, faceva intollerabili la natura degli spagnuoli avara e fraudolente e, quando hanno facoltá di scoprire gli ingegni loro, insolentissima; nondimeno il pericolo che si correva da’ franzesi, a’ quali i popoli erano inimicissimi, e la speranza che queste cose avessino qualche volta finalmente a terminare facevano tollerare agli uomini sopra le forze ancora, e sopra la loro possibilitá. Ma dopo la vittoria di Pavia non potevano i popoli piú tollerare che non continuando le medesime necessitá, poiché era prigione il re, continuasse nondimeno il pericolo delle medesime calamitá; e perciò dimandavano che di quello ducato si rimovesse o tutto o la maggiore parte dello esercito: il medesimo ardentemente desiderava il duca, non avendo insino allora sentito del dominare altro che il nome, e non manco perché temeva che Cesare, assicurato del re di Francia, o non lo occupasse per sé o non lo concedesse a persone che da lui totalmente dependessino. Alla quale suspizione, procreata dalla natura stessa delle cose, davano non piccolo nutrimento le parole insolenti dette dal viceré, innanzi che conducesse il re di Francia in Spagna, e cosí dagli altri capitani, e le dimostrazioni che e’ facevano di disprezzare il duca e di desiderare apertamente che Cesare lo opprimesse; e molto piú che, avendo Cesare dopo molte dilazioni mandati in mano del viceré i privilegi della investitura, egli, offerendola al duca, aveva dimandato che, per ristoro delle spese fatte da Cesare per lo acquisto e per la difesa di quello stato, si pagassino in certi tempi uno milione e dugento migliaia di ducati, peso tanto eccessivo che il duca fu costretto ricorrere a Cesare perché si riducesse a quantitá tollerabile. Ma queste difficoltá facevano dubitare che le dimande sí esorbitanti fussino interposte per differire. Allegoronsi poi, da quegli i quali si sforzavano di escusare la necessitá di Francesco Sforza, molte altre cagioni di averlo fatto giustamente sospettare, e particolarmente di avere auto notizia che i capitani avevano ordinato di ritenerlo; per il che egli, chiamato dal viceré a certa dieta, aveva ricusato di andarvi fingendosi ammalato, e il medesimo aveva osservato in [p. 310 modifica]tutti i luoghi dove essi potessino fargli violenza. Il quale sospetto, o vero o vano che e fusse, fu cagione che egli, vedendo che nello stato di Milano non erano restate molte genti, per essere andata una parte de’ fanti spagnuoli prima col viceré e poi con Borbone in Spagna, e perché molti ancora, arricchiti per tante prede, si erano alla sfilata ritirati in vari luoghi, considerando ancora la indegnazione grandissima la quale si dimostrava nel marchese di Pescara, voltato l’animo ad assicurarsi da questo pericolo, entrò in speranza che, con consentimento suo, si potesse disfare quello esercito. Autore di questo consiglio fu Ieronimo Morone, suo gran cancelliere e appresso a lui di somma autoritá; il quale, per ingegno eloquenza prontezza invenzione ed esperienza, e per avere fatto molte volte egregia resistenza alla acerbitá della fortuna, fu uomo a’ tempi nostri memorabile; e sarebbe ancora stato piú se queste doti fussino state accompagnate da animo piú sincero e amatore dello onesto, e da tale maturitá di giudizio che i consigli suoi non fussino spesso stati piú presto precipitosi o impudenti che onesti o circospetti. Costui, odorando la mente del marchese, si condusse co’ ragionamenti seco tanto innanzi che venneno in parole di tagliare a pezzi quelle genti e di fare il marchese re di Napoli, pure che il pontefice e i viniziani vi concorressino. Al quale consiglio il pontefice, essendo pieno di sospetto e di ansietá, tentato per ordine del Morone, non si mostrò punto alieno; benché da altra parte, non per scoprire la pratica ma per prepararsi qualche rifugio se la cosa non succedesse, avvertí sotto specie di affezione Cesare che tenesse bene contenti i suoi capitani. Mostroronsi i viniziani caldissimi: e si persuadevano anche tutti che v’avesse a essere non manco pronta la madre del re di Francia; la quale giá si accorgeva che, arrivato il figliuolo in Spagna, la sua liberazione non procedeva con quella facilitá che si erano immaginati.

Non è dubbio che tali consigli sarebbono facilmente succeduti se il marchese di Pescara fusse, in questa congiurazione contro a Cesare, proceduto sinceramente; il quale se da [p. 311 modifica]principio ci prestasse orecchi, con simulazione o no, sono state varie le opinioni insino tra gli spagnuoli, e nella corte medesima di Cesare; e i piú, calcolando i tempi e gli andamenti delle cose, hanno creduto che egli da principio concorresse veramente con gli altri ma che poi, considerando molte difficoltá che potevano sorgere in progresso di tempo, e spaventandolo massime il trattare continuamente i franzesi con Cesare, e dipoi la deliberazione della andata della duchessa di Alanson a Cesare, facesse nuove deliberazioni. Anzi, affermano alcuni avere tardato tanto a dare avviso a Cesare del trattarsi in Italia cose nuove che, avendone giá ricevuto avviso da Antonio de Leva e da Marino abate di Nagera commissario nello esercito cesareo, non si stava nella corte senza ammirazione del silenzio del marchese. Ma quel che fusse allora, certo è che, non molto poi, mandato Giovambatista Castaldo suo uomo a Cesare, gli manifestò tutto quello che si trattava, e con consentimento suo continuò la medesima pratica: anzi, per avere notizia de’ pensieri di ciascuno e a tutti levare la facoltá di potere mai negare di avervi acconsentito, ne parlò da se medesimo col duca di Milano, e operò che il Morone procurasse tanto che il pontefice, il quale poco innanzi gli aveva dato in governo perpetuo la cittá di Benevento, e con chi egli intratteneva grandissima amicizia e servitú, mandò Domenico Sauli con uno breve di credenza a parlargli del medesimo. Le conclusioni che si trattavano erano: che tra il papa il governo di Francia e gli altri di Italia si facesse una lega della quale fusse capitano generale il marchese di Pescara, e che egli, avendo prima alloggiata la fanteria spagnuola separatamente in diversi luoghi del ducato di Milano, ne tirasse seco quella parte che lo volesse seguitare; gli altri con Antonio de Leva, che dopo lui era restato il primo dello esercito, fussino svaligiati e ammazzati; e che con le forze di tutti i confederati si facesse per lui la impresa del regno di Napoli, del quale il papa gli concedesse la investitura. Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltá che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l’onore [p. 312 modifica]e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltá che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l’onore e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura avuta dalla Chiesa aveva il dominio utile di quel regno, o al pontefice, che per esserne supremo signore aveva il dominio diretto. Sopra il quale articolo, e a Milano per ordine di Francesco Sforza, e a Roma per ordine di Clemente, ne furono, segretissimamente e con soppressione de’ nomi veri, fatti consigli da eccellenti dottori. Accrescevansi queste speranze contro a Cesare per le offerte di madama la reggente; la quale, giudicando che la necessitá o almanco il timore di Cesare fusse utile a quel che per la liberazione del figliuolo si trattava con lui, sollecitava il pigliare l’armi, promettendo di mandare cinquecento lance in Lombardia e concorrere alle spese della guerra con somma grande di danari: né cessava il Morone di confermare gli animi degli altri in questa sentenza; perché, oltre al dimostrare la facilitá che si aveva, senza l’aiuto ancora del marchese di Pescara, di disfare quello esercito che era diminuito assai di numero, prometteva in nome del duca, se il marchese non stesse fermo nelle cose trattate, subito che gli altri disegni fussino in ordine, fare prigione nel castello di Milano lui e gli altri capitani che vi andavano quotidianamente a consultare. Le quali occasioni, se bene paressino grandi, non sarebbono però state bastanti a fare che il pontefice pigliasse l’armi senza il marchese di Pescara, se nel medesimo tempo, intesa la provisione mandata a Genova per armare le quattro caracche, non avesse anche avuto indizio di Spagna della inclinazione di Cesare di passare in Italia; la quale cosa affliggendolo maravigliosamente, e per le condizioni del tempo presente e per la disposizione inveterata de’ pontefici romani, a’ quali niuna cosa soleva essere piú spaventosa che la venuta degli imperadori romani armati in Italia, desiderando di ovviare a questo pericolo spacciò, con consenso de’ viniziani, segretamente in Francia, per conchiudere le cose trattate con madama la reggente, Sigismondo segretario di Alberto da Carpi, [p. 313 modifica]uomo destro e molto confidato al pontefice. Il quale, correndo la posta fu di notte da certi uomini di male affare ammazzato, per cupiditá di rubare, appresso al lago di Iseo nel territorio bresciano: il che, essendo stato occultissimo molti dí, non fu piccola la dubitazione del pontefice che e’ non fusse stato preso secretamente in qualche luogo per ordinazione de’ capitani imperiali, e forse del marchese medesimo; il procedere del quale, per le dilazioni che interponeva, cominciava non mediocremente a essere sospetto.

In questo stato delle cose sopravenne la espedizione data da Cesare a Lopes Urtado; il quale, essendo ammalato in Savoia, la mandò subito per messo proprio a Milano, con la patente del capitanato nella persona del marchese di Pescara (il quale, per continuare nella simulazione medesima con gli altri, dimostrò non essergli molto grata, ancora che subito accettasse il capitanato), e commissione ancora al protonotario Caracciolo che andasse a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almanco perché ciascuno restasse giustificato del desiderio che aveva Cesare di stare in pace con tutti. Accettò Francesco Sforza, al quale era giá cominciata infermitá di non piccolo momento, la investitura del ducato, e ne pagò cinquantamila ducati; ma non perciò pretermesse di continuare le pratiche medesime col marchese. Varie sono state le opinioni se questa espedizione di Cesare fusse sincera o artificiosa; perché molti credettono che avesse volto veramente l’animo ad assicurare quegli di Italia, altri dubitorono che egli, per paura di nuovi movimenti, volesse tenere gli uomini sospesi con varie speranze e andare guadagnando tempo, col concedere la investitura e col dare in apparenza la commissione del levare lo esercito, tanto grata a tutta Italia; ma che da parte avesse dato a’ suoi capitani ordinazione che non lo rimovessino. Né mancò dipoi chi credesse che egli avesse giá notizia dal marchese delle pratiche tenute col Morone, e però commettesse cosí non per essere ubbidito ma per acquistare qualche giustificazione, e posare con queste speranze gli animi degli uomini insino a tanto gli [p. 314 modifica]paresse il tempo opportuno a eseguire i suoi disegni. Nella quale dubietá essendo molto difficile il pervenirne alla vera notizia, massime non sapendo se al tempo che Giovambatista Castaldo, mandato dal marchese a significare il trattato, arrivò alla corte, fusse ancora stato espedito Lopes Urtado, e considerato quali in molte cose siano poi stati i progressi di Cesare, è senza dubbio manco fallace il tenere per vera la migliore e piú benigna interpretazione.

Non cessava intratanto il marchese di intrattenere con le speranze medesime il Morone e gli altri, e nondimeno differire con varie scuse la esecuzione: alla qual cosa gli dette occasione l’essere talmente aggravata la infermitá del duca di Milano che si fece per tutti giudizio quasi certo della sua morte. Perché pretendendo tutti i capitani che, in caso tale, quello stato ricadesse a Cesare, supremo signore del feudo, non solo gli fu lecito non rimuovere l’esercito ma ebbe necessitá di chiamarvi di nuovo dumila fanti tedeschi, e ordinare che ne stesse preparato maggiore numero: donde, essendo nel ducato di Milano i soldati tanto potenti, restava privato della facoltá di dissolvergli di offendergli; dando speranza di eseguire i consigli della congiurazione come prima ne ritornasse la facoltá. La quale mentre che si aspetta, publicando di volere procedere con rispetto grandissimo col pontefice, levò dello stato della Chiesa le guarnigioni delle quali egli si querelava gravemente.