Acarnesi (Aristofane-Romagnoli)/Introduzione
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Gli Acarnesi, il terzo lavoro del giovane Aristofane, che aveva; già dati alle scene i Banchettatori (427) e i Babilonesi (426), furono scritti nel 425. La guerra durava già da sei anni, e al rinnovarsi d’ogni stagione le soldatesche spartane mettevano a ferro e fuoco il territorio fin sotto le mura della città. In Atene, affollata da tutta la gente cacciata dai campi, serpeggiava la peste, che, dopo effimere tregue, aveva ripreso ad infuriare nell’inverno del 424. Nel cuore di moltissimi cittadini, ad onta dell’autorità di Pericle, e, lui morto, dei clamori demagogici, già da lungo tempo maturava il desiderio della pace. Le comuni aspirazioni esprime appunto Aristofane in questa commedia.
La favola non gli costò troppa fatica. Il suo protagonista va diritto diritto a propugnare le sue mire nell’assemblea del popolo; e poiché non gli danno retta, celebra la pace con Sparta per proprio conto. Quanto al disegno e alla economia generale, conviene far subito alcune osservazioni indispensabili a dar retto giudizio di tutta la tecnica drammatica aristofanesca.
Teodoro Kock, in un’acuta c diligente ricerca1, dimostrò che la maggior parte, se non tutte le commedie di Aristofane, sono svolte su un piano uniforme. Il protagonista concepisce un disegno d’interesse pubblico o privato: Diceopoli, Trigeo, Lisistrata metter fine alla guerra; Demostene e Nicia strappar Popolo all’influsso del Paflagone; Prassagora usurpare agli uomini il potere politico; Gabbacompagno fondar Nubicuculia; Scaracchia render la vista a Pluto; Diòniso ricondurre in Atene il poeta Euripide; Lesina distogliere il figliuolo dalla vita spendereccia; Schifacleone il padre da quella dei processi; anche nei Barconi {Holkàdes) era una situazione simile. L’azione consiste nelle peripezie incontrate dai personaggi che si affaticano verso la mèta: il mezzo onde la raggiungono, è la concione, spessissimo il dibattito. — A questa prima parte, deduttoria o costruttiva, come la chiama il Kock, ne segue una seconda, in cui, per mezzo d’una sfilata di tipi e scenette buffe meccanicamente sovrapposte, si espongono gli effetti del nuovo stato di cose.
Da vari indizi si raccoglie2 che questo tipo, maneggiato con assoluta disinvoltura nei giovanili Acarnesi, e mantenuto poi con tanta costanza nei drammi successivi, non fu escogitato da Aristofane, bensì risaliva forse al momento in cui Cratino diede un indirizzo politico alla vecchia farsa buffonesca, forse ad epoca anche più remota. La tradizione ha tenacia grandissima nelle forme drammatiche, massime in quelle popolari: e chi pensi quale influsso eserciti essa in GLI ACARNESI 5 ogni fenomeno dell’arte greca, non stupirà che per la commedia divenisse quasi vincolo tirannico.
Certo è che la commedia d’Aristofane non si svolge libera, ma subordinata a tale schema; onde appar vjziata da un difetto fondamentale. Infatti, compiendosi la vera azione nella prima parte, la seconda riusciva superflua e antidrammatica. Il commediografo poteva tutto al più mascherarne il carattere d’appiccicatura, stringendola alla prima con qualche legame ideologico. Ma la felicità di tale compromesso dipendeva dai tèmi svolti; alcuni dei quali si prestavano all’accomodamento, altri, massime quelli suggeriti o quasi imposti al poeta da opportunità politica, erano assolutamente ribelli. Da ciò dipende il fatto che, mentre Aristofane in ogni altro elemento della commedia affina e perfeziona continuamente, nella economia generale procede con una oscillazione e un’ incertezza che può indurre e ha indotto a giudizi severi e poco ponderati, fino alla esagerazione del Brentano, il quale giudicò addirittura spurie le commedie che vanno sotto il nome di Aristofane.
Anche la condotta scenica, negli Acarnesi, è abbastanza difettosa. Le incongruenze, le inverisimiglianze, saltano agli occhi. Diceopoli, modesto campagnuolo, stringe alleanza con la potente repubblica di Sparta. Quando è riuscito a placar gli Acarnesi, invece di cominciar senz’altro l’arringa, si reca in casa d’Euripide a chiedere in prestito dei cenci tragici; e i carbonai, già così feroci, attendono ora come nulla, durante la non breve scena. Alla prima chiamata del Semicoro, Làmaco è li pronto, come un mangiabambini da uno scatolino. E così via, quasi tutte le scene, meglio che rampollanti logicamente l una dall’altra, sono meccanicamente, capricciosamente sovrapposte. Ma Aristofane acquista presto assai maggiore perizia. Nei Cavalieri si può ancora osservare che il Coro si ti’ova un po’ troppo pronto, appunto come il Lamaco degli Acarnesi alla chiamata dei due schiavi. Ma dalle Nuvole in poi, il principio di verisimiglianza domina costantemente tutte le altre commedie, anche quelle che, al pari degli Acarnesi, son quasi interamente intessute di scene tradizionali. così, per esempio, le Donne alla festa di Dèmetra risultano d’una sequela di scene stereotipe (cfr. Prefazione), ma legate l’una all’altra da un filo perfettamente logico. Un paio d’esempii illustrerà la differenza di tecnica fra questo dramma e gli Acarnesi. In ambedue è la scena della visita. Ma nel lavoro giovanile è proprio un’appiccicatura, e la ragione per cui Diceopoli si reca da Euripide è tirata coi denti. L’Euripide delle Donne alla festa di Dèmetra, invece, appare incalzato da un fato così strano, che solo una visita ad Agatone può procacciargli salute. Ancora, Diceopoli, per salvarsi dal furore degli Acarnesi, dà di piglio a un cesto di carbone e minaccia di trafiggerlo; e il carattere di parodia vale appena a mascherare la iperbolica goffaggine della scena. Mnesiloco, invece, strappa a una donna un bambino, e minaccia d’ucciderlo; e quando lo sfascia, vede che è un otre di vino. La scena assurge un istante a vera altezza tragica, per poi risolversi nella più schietta comicità. Ed è, nella sua perfetta inquadratura, una delle più felici di tutto il teatro aristofanesco.
Consideriamo anche un po’ l’ufficio del Coro. L’inno dei fallofori, accoppiandosi alla farsa mimica (v. Prefazione, c. VI), tentò a mano a mano di fondersi con l’azione, di assumere ufficio drammatico. Tale ufficio, nella seconda parte d’una commedia del tipo suggerito od imposto dalla tradizione, doveva necessariamente ridursi ad una oziosa assistenza, ad accademici commenti. Né altro, dalla parabasi in poi, sogliono fare i coreuti aristofaneschi. La prima parte si prestava invece ad un trattamento un po’ più vivo e libero. Dato il soggetto quasi unico fissato dalla tradizione — una impresa del protagonista — il poeta poteva immaginare il Coro, o favorevole, od ostile a quello. Nel primo caso però, il suo ufficio si limita a una collaborazione, antidrammatica in ogni modo, e nelle commedie, per necessità anche materiali, puramente platonica. Esso diventa come una specie di piccolo esercito che riceve i comandi dal protagonista; e ciò riconosce esso stesso in più casi, con la massima buona grazia e con espressioni quasi sempre identiche (Pace, 328, 381, 457; Uccelli, 692). 11 secondo mezzo, di fingere il Coro ostile, riusciva, almeno nella pàrodos, a un atteggiamento di grande effetto. Le furibonde entrate degli Acarnesi, dei Cavalieri, degli Uccelli, quella specie di ronda d’eliasti nei Calabroni, sono quanto si può immaginare di più colorito e drammaticamente vivace. così avviene che Aristofane, nel primo gruppo delle commedie, dà la preferenza a questo spediente, suggerito già forse, come vedemmo, dalla tradizione drammatica. Ma in fondo, si trattava anche qui d’illusoria galvanizzazione, non di vita: sbollito quel primo furore, il Coro tornava alla inazione, al vieto ufficio di consigliere e commentatore.
Parecchie vie tenta Aristofane per adattare nel dramma, secondo il principio della verisimiglianza, questo vecchio incomodo strumento scenico. Talora lo disimpegna dalle materiali contingenze, componendolo di creature fantastiche — nuvole, uccelli, — il cui ufficio, esorbitante dal materiale svolgimento dell’azione, è di avvolgere questa in una vaporosa atmosfera di poesia. Altre Volte lo rende vero coro dell’azione immaginata. Cosi-avviene nelle Donne alla festa di Dèmetra e nelle Rane. Questo spediente è dal lato artistico assolutamente ineccepibile, e potrebbe senz’altro ricorrervi il piú raffinato drammaturgo dei giorni nostri. Il terzo mezzo, piú radicale, e che doveva avere larghissima eco in tutta la posteriore tradizione drammatica, è di alterare fondamentalmente il carattere del Coro, di frangerne la malagevole unità arcaica. Aristofane ci arriva, almeno per quanto vediamo noi, solo in una delle sue ultime commedie, nelle Donne a Parlamento. E ne riparleremo.
I due personaggi principali degli Acarnesi, Diceopoli e Lamaco, appartengono in fondo anch’essi al vecchio repertorio (vedi Prefazione). Diceopoli è il bifolco, e ricorda per molti lati la pittura teofrastea. Vero è però che neppur mancano i segni speciali che lo contraddistinguono attico puro sangue. Lamaco è il solito rodomonte. A chiacchiere, ammazza mezzo mondo. Ma poi si lascia scorbacchiare da Diceopoli, gli porge la penna del proprio elmo perché ci si stuzzichi la gola, e l’elmo stesso capovolto perché ci vomiti. Quando si apparecchia alla guerra, pensa piú che ad altro a far lucido Io scudo: pare Pirgopolinice. Appena entra in campo, va per le terre e si massacra: allora poi a dire del suo tirapiedi, cominciano le sue gran prodezze. Ma al fine dell’azione, in scena con le proprie gambe non ci può tornare: cosí è sempre intervenuto a tutti i Capitan Fracassa.
Le altre circostanze indispensabili a intendere la commedia si espongono nelle note: nelle varie introduzioni alle altre commedie, dove meglio se ne porge il destro, tratto brevemente altre quistioni concernenti la tecnica drammatica d’Aristofane. Aggiungo che, per non sopprimere un caratteristica effetto mimico che fu assai caro alla commedia antica, e che trova in questi Acarnesi simpaticissima espressione, volli- dialettali nella versione, come sono nel testo, le parti del Megarese e del Beota. La seconda si deve a Genuino Ciccone; per la prima non mi negò la sua collaborazione Salvatore di Giacomo. Rendo qui pubbliche grazie ai dilettissimi amici: non senza temere che in piú d’un lettore nasca il rimpianto che non sia dialettale anche il resto della commedia.