Al fronte/Tra le balze dell'Adige
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Dai ghiacciai dell'Adamello agli uliveti del Garda | Una maestosa battaglia di fortezze | ► |
26 agosto.
L’occupazione di Ala, e la prima irruzione delle nostre truppe verso Rovereto nella valle dell’Adige, dopo la conquista fulminea dell’Altissimo e di tutto il massiccio fra il Garda e l’Adige, sono legate alla memoria del generale Cantore. La storia della nostra azione in quel settore è come dominata dalla figura di questo singolare condottiero di avanguardie, che aveva della guerra una concezione antica, magnifica e temeraria, per la quale è morto. Il suo ardimento da guerriero leggendario, che si accoppiava ad una visione chiara del terreno, ad una percezione esatta e rapida delle possibilità, fu preziosa nel primo slancio dell’avanzata, quando le nostre colonne penetravano nel territorio nemico senza potersi prefiggere un obbiettivo preciso e definitivo, prive di informazioni esatte, affidate alla intuizione e alla sagacia dei capi per strappare alle circostanze il maggiore frutto.
L’Altissimo fu preso con un colpo di mano. Reparti alpini marciarono nella notte del 23 maggio per dirupati sentieri della montagna, e sorpresero all’alba il nemico sulla vetta. Senza sosta l’occupazione si estese ad oriente. Dalla cima scese per i valloni ad affacciarsi sulla Val d’Adige. Le pattuglie calavano per i costoni e per le balze. Delle compagnie di rincalzo s’inoltravano dal sud. Il 2 maggio, l’avanzata risaliva il fondo della valle fino ad Ala.
Poche truppe: due battaglioni. Uno marciava alla destra dell’Adige, l’altro alla sinistra. Una batteria seguiva il battaglione di destra. Gli abitanti, quando vi narrano della comparsa delle truppe liberatrici, non vi dicono «gl’italiani arrivarono» ma «Cantore arrivò». Perchè videro lui prima di ogni altra cosa. Il generale era l’esploratore delle sue colonne. Improvvisamente, in un villaggio che gli austriaci avevano abbandonato poco prima, entrava un generale italiano, solo col suo capo di Stato Maggiore.
Giungeva per la strada maestra, tranquillamente. E questo ardire, pieno di un senso di eroico disdegno verso il nemico, colpiva profondamente l’immaginazione degli abitanti che aspettavano palpitando, la mente piena delle menzogne austriache, secondò le quali gl’italiani avrebbero messo tutto a ferro e a fuoco.
Cantore voleva vedere ogni cosa con i suoi occhi. Dove poteva celarsi un agguato, verso i possibili sbarramenti, dove il terreno si prestava ad una difesa avversaria, andava lui a guardare. Freddo, calmo, avanzava allo scoperto, e, scelto un buon punto d’osservazione, si assestava lentamente gli occhiali sul naso e ammiccava con i suoi occhi da studioso miope, impassibile al fuoco, immobile, attento, come un matematico avanti ad un problema. Poi, quietamente, dettava gli ordini al suo capo di Stato Maggiore, che lo seguiva per disciplina, per dovere e per amor proprio.
Quando voleva recarsi in esplorazione, il generale non mancava di chiedere il parere dell’ufficiale. Ascoltate le eccellenti ragioni che sconsigliavano il progetto, egli concludeva «Allora, andiamo!» — e partiva in avanscoperta. Aveva un’inflessibilità verso di sè e verso gli altri, che era tutta scritta nell’energia del suo volto. Ignorava il pericolo; lo aveva affrontato tante volte impunemente che si era fatta la persuasione di una invulnerabilità. «La morte non mi vuole», diceva. E ci credeva. La morte lo ha afferrato così repentinamente nella sua ultima temeraria esplorazione fra le orrende rocce delle Tofane che egli non l’ha sentita venire e non ha avuto il tempo di ricredersi.
A Borghetto entrò a piedi. Dal campanile del villaggio una pattuglia austriaca aveva tirato dei colpi verso la strada. Poi questo fuoco era cessato. Cantore volle andare a vedere se il paese era sgombrato dal nemico. Due guardie di finanza del posto di frontiera gli fecero da fiancheggiatori. La pattuglia austriaca era fuggita. L’avanzata incominciò. Cantore partì avanti, in automobile, come per una passeggiata.
Nella valle pittoresca i cui nomi evocano come una fantastica galoppata di epopea, fra quei dirupi che hanno visto passare in uno scintillìo di uniformi e in un ondeggiamento di piume la prima gloria napoleonica, la quale doveva allargare i suoi clamori trionfali su tutta l’Europa, in quel grandioso scenario da battaglie, la conquista italiana è entrata veloce, annunziata dal rombo di un motore, che echeggiava improvviso fra i muri dei villaggi attoniti, rozzi e grigi, raccolti intorno al bianco stelo dei campanili, e immersi nei vigneti contro ad uno sfondo oscuro di immani rocce precipitose.
Dopo le chiuse prodigiose che Rivoli sovrasta dal suo verde pianoro, profonde come cañons, dopo quell’angusto e solenne corridoio di dirupi che stringe fra pareti a picco la serenità dell’Adige, dopo la zona delle vecchie fortezze, massicce e bianche, che dominano la gola dalla sommità di vette nude, la vallata si allarga maestosa, vigilata da ruderi di torri annidati fra dirupi giganteschi e da qualche scheletro superbo di castello, che come quello di San Valentino addossa alle rocce le sue muraglie merlate con un’aria grandiosa, severa, lugubre da castello delle leggende. Il passato ha lasciato per tutto un segno di guerra. Ad uno svolto della valle, una cittadina chiara, graziosa, arrampicata in parte tra il verde delle alture, avanza le sue case più nuove verso l’Adige: è la prima città austriaca, Ala.
Ha un’aria raccolta e antica, con un’impronta così profondamente nostrana che pare di averla conosciuta già, di ritrovarla vagamente nella memoria insieme al ricordo di qualche vallata del Friuli. Nulla di più italiano di quei vecchi palazzi d’Ala, di una nobiltà provinciale, di un’arte modesta e pura, nel cui interno verdi specchiere di Venezia riflettono nel loro pallore di sogno delle grazie settecentesche. La parte alta, inerpicandosi sul monte, diviene rustica, e le stradine che salgono tortuose sono fiancheggiate da casupole montanare, tutte a balconate di legno annerite dal tempo. Attaccate ai muri, presso alle porte, le rozze slitte aspettano l’inverno; sulle logge è tutto un festoso verdeggiare di fascine fresche che seccano al sole; da soglia a soglia passa un dialogo veneto di comari.
Ad Ala avvenne l’unica opposizione austriaca alla nostra avanzata. Fu piccola, breve, ma arrivò di sorpresa. La città pareva completamente abbandonata dal nemico.
Prima di ritirarsi i gendarmi austriaci avevano affisso manifesti che minacciavano severe e imprecise punizioni a chiunque avesse osato di fare buona accoglienza agli italiani, e avevano ripetuto a tutti che gl’italiani si sarebbero abbandonati ad ogni eccesso. Da giorni i negozi erano chiusi, e la città silenziosa aspettava nella speranza e nell’ansia. Gli abitanti ignoravano tutto della guerra. Non sapevano della presa dell’Altissimo e delle altre operazioni che si stavano svolgendo nella regione. Nessuna notizia arrivava. Ma fra le case chiuse, per le finestre dei cortili circolavano bisbigliate delle voci.
Il 24 maggio si diceva già: «Saranno qui stasera; un boscaiuolo ha visto i bersaglieri ad Avio; scorgeva le penne....» Fra i patrioti vivevano degli austriacanti; la comparsa di qualche vicino sospetto interrompeva i dialoghi e faceva richiudere le finestre. Non erano tutti partiti gli anti-italiani, e qualcuno ne resta ancora adesso.
Andando via, gli austriaci avevano requisito il bestiame, obbligando dei contadini a condurlo a Rovereto. Pochi di questi disgraziati sono tornati indietro. Per farli rimanere, temendo forse lo spionaggio, gli austriaci avevano annunziato loro, semplicemente, che Ala non esisteva più, essendo stata distrutta insieme agli abitanti dalla barbarie italiana. La mancanza del bestiame e di provviste rendeva la vita dei cittadini difficile. L’arrivo degli italiani era invocato come un salvataggio.
Quando l’automobile del generale Cantore entrò nella città. Ala pareva deserta. Cantore si fermò nella piazza, una piazzetta angusta, irregolare, a declivio, che pare si tenga a stento dallo scivolare con tutti i suoi ciottoli. Erano circa le dieci e mezzo del mattino. Il generale aspettava le sue truppe. Intanto alcuni individui sbucavano fuori e si avvicinavano a lui ossequiosi, assicurandolo della loro lealtà e del loro patriottismo. Gli austriaci? — dicevano costoro. — Neppure l’ombra. Erano fuggiti tutti.
Mentivano. Nessuno disse al generale che la gendarmeria austriaca, rinforzata da un reparto di fanteria territoriale, era all’uscita del paese dove da tre notti lavorava a trincerarsi. Questa menzogna noi abbiamo generosamente dimenticato.
Tre quarti d’ora dopo si udì il passo dei soldati per le vie. Delle porte si schiusero, delle voci di saluto risuonarono. Le case dei patrioti furono in rumore, e il grido di «Viva l’Italia!» scendeva da alcune finestre. All’avanguardia che, fra uno scintillìo di baionette in canna, sboccava sulla piazzetta, il generale diede l’ordine di proseguire ed occupare gli approcci settentrionali del paese. Repentinamente, appena i soldati, voltato l’angolo, sbucarono fuori dall’abitato, scoppiò la fucilata, violenta, intensa, vicina, imprevedibile.
Da quel lato la città si affaccia sul letto ampio e sassoso del torrente Ala, e la strada lo segue per un tratto prima di attraversarlo sopra un ponte. All’altra riva del torrente, si distendono delle vigne sorrette da lunghi muri che si sovrappongono a ranghi, dando l’idea della gradinata di un’arena con una verde moltitudine di viti al posto degli spettatori. In mezzo alle vigne, in alto, una villa isolata. Gli austriaci avevano fatto della villa, che fronteggia e domina il paese, il loro fortilizio, e dei muricciuoli i parapetti delle loro trincee. Inattaccabili alla fucileria, essi bloccavano solidamente il passaggio del ponte e rendevano intenibile il bordo dell’abitato.
Alla resistenza improvvisa, l’avanguardia refluì sulla piazza. I colpi che venivano dalla villa infilavano la via e tempestavano i muri. La piccola vetrina di una modesta pasticceria, avanti alla quale stava Cantore, è tutta foracchiata dalle palle.
Nella città sconosciuta non era facile orizzontarsi subito e trovare le posizioni dalle quali riconoscere e battere il nemico. Quali forze aveva? Il suo fuoco era serrato. Vi fu una ricerca concitata di sbocchi accessibili e di posti di osservazione, mentre sopraggiungeva il resto del nostro battaglione. In quel momento delle fucilate cominciarono a partire da varie finestre.
Allora si svolse uno dei più belli episodî.
Una compagnia cercava di salire alla parte alta della città e avanzava esplorando per una strada angusta e deserta, tagliata dal sibilare alto delle pallottole. Un portone era schiuso, come per un invito ad entrare. I soldati vi si affacciarono guardinghi, le baionette basse. Nella corte, inaspettato, risuonò un grido di entusiasmo, un grido di donna: «Avanti, avanti, viva l’Italia!» E una ragazza, giovane, sorridente, dall’aspetto fiorente e modesto, comparve fra i nostri: «Avanti, vengano, vengano sicuri!»
L’ufficiale che comandava, rimise la pistola nella fondina e salutò cavallerescamente chiedendo: «Signorina, si vedono gli austriaci dalla sua casa?» — «Sì, sì, si vedono, salga con me!» — e svelta essa lo precedette per le ampie scale d’una vecchia casa.
Da dietro alle persiane chiuse si scorgeva quasi sotto ai muri il torrente Ala; al di là, i vigneti e la villa, crepitanti di colpi. Delle palle si schiacciavano sulle pareti della casa.
Figlia di patrioti, educata alla religione segreta dell’Italia, la fanciulla non sentiva e non comprendeva il pericolo, tutta commossa dall’avverarsi del gran sogno. Rideva, e i suoi occhi azzurri sfavillavano di contentezza: «Signor ufficiale — esclamava — chiami i suoi soldati, vede, da qui può far battaglia!» — «No, signorina — rispose il capitano dopo aver bene osservato, — tirerebbero sulla casa e spezzerebbero tutto qui dentro; vorrei trovare una posizione più alta.» — «Sì, so io dove, mi segua, la conduco io!»
Dietro alla casa, degli orti minuscoli, aggrappati allo sperone roccioso del monte, si sovrastano l’un l’altro come pianerottoli verdi. E si vide una lunga fila grigia di soldati. preceduta da una bianca figurina di donna, salire curva da un pianerottolo all’altro per ripide scalette di pietra. Con un breve schianto le pallottole entravano nel tronco degli alberi. Gli austriaci conoscevano quell’accesso e lo vigilavano. Si accorsero subito della scalata. Dai vari ripiani i nostri cominciavano il fuoco, nascosti fra le piante.
Poco dopo anche il generale, cercando un sentiero che aggirasse la posizione nemica, saliva da altra via la costa, esplorando lui stesso, come sempre, seguito da un plotone. Arrivò in un punto scoperto, preso d’infilata. L’avevano visto; il piombo austriaco grandinava sulla roccia. I soldati esitarono un istante e si gettarono istintivamente a terra, ai lati del sentiero. Cantore rimase in piedi, la faccia verso il nemico, immobile sopra una sporgenza della roccia, impassibile come una statua. Poi chiese un fucile, e lentamente, con un’attenzione da tiratore al bersaglio in un giorno di gara, cominciò a far fuoco. Non gridò ordini, non disse nulla, ma un minuto dopo tutto il plotone, calmo, aveva preso posizione intorno al generale e nulla più lo mosse.
Due settimane fa, nella mattinata della domenica, in mezzo ad un quadrato di truppe che presentavano le armi, la signorina Maria Abriani, l’eroica guida, ha ricevuto la medaglia al valor militare, come un soldato. Essa ne è fiera, ma a chi si congratula con lei, modestamente osserva: «Tante altre donne avrebbero fatto lo stesso nelle mie circostanze».
«Non ha avuto neppure un momento di paura?» — le ho chiesto conversando con lei proprio sull’alto della posizione alla quale essa aveva guidato le truppe, dopo essermi fatto narrare la scena. «Non ci pensavo — mi ha risposto, — ero così contenta. E poi i soldati erano tanto calmi, allegri, che pareva che non ci fosse nessun pericolo».
Dopo un istante, sorridendo ha soggiunto: «Quando ridiscesi, passando dietro alle file che facevano fuoco, i soldati si voltavano a salutarmi e a dirmi dei complimenti....» In pieno combattimento, fra una fucilata e l’altra, mentre qualche cadavere insanguinava già le rocce, i combattenti lanciavano l’omaggio di una frase ammirativa alla gioventù e alla freschezza femminili che passavano. C’è tutta l’anima italiana in questo particolare pieno di eroismo e di galanteria.
Il piccolo combattimento di Ala fu definito dall’artiglieria. La batteria che accompagnava la colonna alla destra dell’Adige fu portata avanti e dall’altra parte della valle scacciò gli austriaci a colpi di shrapnells.
Da Ala la nostra avanzata ha raggiunto senza contrasti le posizioni solide che teniamo, di fronte alla montagna di Biaena, della quale gli austriaci hanno fatto tutta una immane fortezza.
Come nella valle Giudicaria, anche in quella dell’Adige i due fronti si consolidano lontani fra loro, separati da una zona aspra nella quale serpeggia la guerrilla delle avanscoperte. In tutte queste vallate vi è stata un’analogia di azione e di intenti, che ha condotto ad una analogia di situazioni.
Qualche colpo di cannone da una parte, qualche colpo di cannone dall’altra, urti di pattuglie, ma nel complesso la guerra qui marca il passo in un’attesa guardinga. Vi sono delle posizioni d’avamposti alle quali non si arriva che per osservare. Sono cucuzzoli di alture che l’artiglieria ha sterilito e denudato, perchè quando vi arrivano gli austriaci li bombardiamo noi, e quando vi arriviamo noi li bombardano gli austriaci. Si sente, s’intuisce che ogni movimento di masse qui dipenderà da movimenti che si svolgono altrove. Per ora i due fronti avversari si limitano ad accumulare ostacoli.
Sul Biaena le fortificazioni austriache si vanno delineando come delle ferite sulla immane faccia del monte. Sono scorticature di rocce, tratteggi di terra smossa. Il materiale scavato, trasportato dalle piogge, ha formato delle colate chiare e rosate nei canaloni e sulle pareti a picco delle creste. Si scava e si scava lassù.
Il Biaena, vario, tutto pianori e dirupi, coronato da rocce a picco, fronteggia un gomito dalla valle dell’Adige, al di là della cittadina di Mori, e si presta ad una difesa di sbarramento. Sulla sua vetta lo scoglio appare forato da cannoniere. La fortezza più alta non è sul monte, è dentro al monte. Ci sono voluti anni di lavoro per annidare le artiglierie nel cuore delle immani scogliere.
Le opere colossali che l’Austria aveva fatto sulle formidabili barriere delle Alpi dimostrano non soltanto la preparazione minuziosa di una guerra per noi inevitabile, ma dimostrano anche un concetto altissimo del nostro valore. Non è contro un avversario disprezzabile che si accumulano ostacoli di questa mole. Quando noi ci sentivamo più deboli, l’Austria c’indovinava forti, ci presentiva pieni di energie imprecisabili, di risorse imprevedibili, di volontà insospettate. Nessuna posizione le pareva solida abbastanza, e per poterci battere apprestava le armi più numerose e possenti che la scienza militare moderna sia in grado di fornire.
Il Biaena, con le sue trincee che sembrano sospese come cornici al bordo di pareti rocciose, con i suoi sentieri coperti che cercano il cavo ombrato dei canaloni, con le sue batterie che s’intravvedono nel verde delle boscaglie, con le sue fortezze nascoste nella sagomatura turrita della cresta, il Biaena ampio, oscuro, ostile, imponente, un po’ velato nello sfondo della Valgarina inondata di sole, non è che un monumento di paura.
I nostri soldati lo osservano con olimpica indifferenza dalle pendici di Serravalle e dalle falde del Cornale, dove biancheggiano i resti di un castello medioevale che schiera fin verso la cima un rango ancora intatto di merlature ghibelline. Lo sguardo corre da lì lungo il serpeggiamento scintillante dell’Adige, verso il quale i villaggi scendono come armenti alla beverata. Lontano, in fondo alla vallata, in una diafanità luminosa, un biancheggiare più vasto di edifici: è Sacco, un sobborgo quasi di Rovereto, in un’azzurra conca di monti.
I paeselli dalla nostra parte seguitano a vivere anche sulla linea degli avamposti, e ricevono strani messaggi dal nemico, portati dal fiume. Sono proclami, avvertimenti, inviti, spediti dentro bottiglie vuote che l’acqua trascina. Comunicazioni da naufraghi. Qualche volta un treno blindato viene avanti adagio adagio in esplorazione, spara un paio di bordate e fugge, tutto avvolto in una gran nube di fumo.
Il fianco orientale della valle è formato dalle balze del Coni Zugna che digrada, verso Rovereto, nella Zugna Torta. È una lunga montagna boscosa che solleva un dorso crestato di rocce. Sulla vetta più alta si erano fortificati gli austriaci. L’assalto che li scacciò salì da un lato che pare inaccessibile. Dal basso la cresta sembra avanzare delle fulve speronate a picco. Una notte un reparto alpino si arrampicò lassù e sorprese il nemico. Un solo austriaco tentò di difendersi, con un eroismo ammirevole. Al grido di «Arrendetevi!» rispose: «Io non mi arrendo che per ordine dell’Imperatore!» — e cadde trafitto. Gli altri fuggirono.
Ora tutta la montagna è nostra, e dagli ultimi suoi contrafforti settentrionali i nostri avamposti vedono allargarsi sotto a loro, nella vallata profonda, Rovereto. L’altro versante del Coni Zugna scende sulla Vallarsa, che è pure nostra. A Rovereto essa si congiunge con la valle dell’Adige. Rovereto è il centro al quale converge una immane stella di valli nelle quali l’avanzata italiana si è incanalata. Sulle montagne, fra valle e valle, tuona l’artiglieria nostra. Invisibile e dominante, arrivata lassù come per miracolo, lungo strade improvvisate che si slanciano alle cime con un zig-zag da saetta, essa spande come un temporale il suo tuono nelle alte regioni dell’atmosfera.
Si sale alla Vallarsa per la strada di Schio che ascende al passo delle Dolomiti. Si viaggia lungamente nel panorama fantastico delle vette gigantesche, irte di cuspidi e di torri favolose, rossicce o cineree, pallide nella profondità del cielo, immerse nel diafano oceano dell’aria che le tinge un poco del suo azzurro, e nelle quali pare di vedere rovine paurose di costruzioni sovrumane, ruderi di castelli olimpici.
La Vallarsa è quieta come la Val Lagarina. Vi si aspetta. Il rione di San Giusto, il lembo orientale di Rovereto, mette un tremulo biancheggiamento nella distanza, dove la valle si allarga. Rovereto è in fondo ad ogni gola, è la mèta verso la quale tutti i passi si orientano.
Sulla Vallarsa, in uno sperone della roccia, che avanza come una sentinella e strapiomba sul burrone, gli austriaci stavano creando uno di quei loro forti scavati nello scoglio. Quanto lavoro contro di noi! Le cannoniere, mascherate da frasche, erano già aperte verso l’Italia, simili ad entrate di caverne, e all’interno del monte immense gallerie formano un labirinto tenebroso. I detriti vomitanti dalle grotte artificiali biancheggiano a strisce fino al torrente.
Sul forte incompleto si stavano issando le spesse pareti di acciaio delle cupole. Quelle cave masse di metallo sono oggi garitte di sentinelle italiane, e il vento freddo della montagna mugola ai loro bordi da campana.