Anime allo specchio/Il cuore malato

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Il cuore malato

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È partita Come un’ombra

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IL CUORE MALATO.


— Don Eusebio di Roccavarna giunge domani, — annunziò il marito della contessa Giacinta entrando nel salotto azzurro con un telegramma aperto in mano. E il suo volto era raggiante, poichè questo avvenimento ch’egli attendeva da otto anni, ossia dall’epoca del suo matrimonio, si compiva ora sbocciando nel suo intimo tutta una fioritura di magnifiche speranze ormai quasi spente.

Se don Eusebio, il ricchissimo zio del conte Alberto Corsi, si degnava finalmente d’abbandonare per qualche tempo la sua solitudine di misantropo orgoglioso accettando l’ospitalità del quasi rovinato nipote, ciò significava chiaramente che l’ira per le passate dissipazioni del giovine e per il matrimonio d’amore da lui contratto senza il suo consenso, cedeva nell’animo del vecchio ad una più pacata indulgenza, la quale lo av[p. 102 modifica]viava gradatamente ma sicuramente verso quelle maggiori concessioni e più tardi verso quel grazioso atto di bontà e di giustizia che l’unico nipote sognava per ripristinare la sua logorata fortuna.

Da qualche tempo il severo gentiluomo, sempre sdegnoso e freddo nella sua rigida persona scarna e dritta come l’acciaio, piegava e s’indeboliva sotto il peso di una infermità noiosa e continua che i medici avevano dichiarato inguaribile e si trascinava stentatamente in compagnia d’un domestico dall’uno all’altro luogo di cura, dall’una all’altra clinica illustre, senza trovar rimedio nè quiete. Fu allora che molto accortamente il conte Alberto gli aveva scritto supplicandolo d’accettare ospitalità in casa sua, nel vecchio palazzo gentilizio ch’egli ancora possedeva in provincia e dove don Eusebio era nato e cresciuto. Ed il vecchio, fiaccato dalla tristezza e vinto dalla malattia, aveva telegrafato accettando.

Donna Giacinta gettò appena uno sguardo sul foglietto giallo che il marito le stendeva trionfante dinanzi al viso e disse pacatamente:

— Sono contenta, sono molto contenta: faremo pace don Eusebio ed io, anzi faremo semplicemente conoscenza, poichè siamo ancora ignoti l’uno all’altro.

Ella s’era sentita sempre indifferente all’ostilità del congiunto di suo marito che [p. 103 modifica]giudicava strambo e noioso e quasi s’era in cuor suo rallegrata di non averlo d’intorno pedante consigliere e grave protettore, di non doverlo ammansare con le sue gentilezze e sedurre con le sue grazie. Ora però non si nascondeva che quel suo cedere alla preghiera del nipote e l’accettarne l’offerta era un atto decisivo nella loro vita e che l’accaparrarsi la simpatia e la stima del vecchio gentiluomo significava assicurarsi per l’avvenire una vita di solida e sicura ricchezza invece del fittizio e incerto lusso presente.

Casa Corsi era ospitale; nel vecchio palazzo provinciale arredato con antico fasto e attorniato da un giardino e da un frutteto, residuo di ben più vasti possessi, si succedevano gli amici più intimi del conte e qualche volta le amiche più care della contessa, ma quando don Eusebio di Roccavarna vi giunse solo il dottor Marzi, una celebrità della scienza medica allora in ferie, lo ricevette presso il grande portone stemmato, al fianco di donna Giacinta che gli tendeva le mani sorridendo un po’ incerta. Don Eusebio scese dall’automobile aiutato dal nipote e si diresse a passi lenti e strascicati verso quella ch’era stata la sua camera di giovinetto. Egli aveva appena guardata la nipote quasi con una ostentata distrazione ed era passato oltre mostrando i denti gialli [p. 104 modifica]in una smorfia che pareva insieme un sorriso ed una contrazione nervosa. Donna Giacinta si volse al dottor Marzi ed osservò un po’ amara:

— Incominciamo bene; — ma subito si rasserenò perchè il suo cuore quel giorno era pieno d’attesa e di gioia e tutto oltre la sua ansiosa felicità le era lontano e indifferente. E Marzi, quasi intuendo il suo pensiero, le domandò mentre salivano lo scalone: — Vannelli ha annunziato il suo arrivo?

— Sì, ma attendo la conferma, — rispose la donna ansando un poco per la salita e si fermò sul primo pianerottolo sotto una statua della Fortuna con la cornucopia che suo marito chiamava scherzando: il genio ironico della casa.

In quel momento un domestico la raggiunse con una lettera ed ella sorrise un po’ trepida riconoscendo la scrittura rotonda di Luigi Vannelli. Certo egli le annunziava il suo arrivo per il domani, forse per quella sera stessa.

— Permettete? — disse a Marzi, e poichè egli s’avviava per l’altra branca di scale lacerò nervosamente la busta e lesse. Ma frattanto il foglio incominciò a tremare fra le sue dita ed i caratteri a danzare sotto i suoi occhi. Luigi Vannelli si scusava di non poter passare in casa Corsi i dieci felici giorni [p. 105 modifica]che da tanto aspettava perchè un amico gli offriva la possibilità di compiere in sua compagnia un viaggio in India da lui lungamente desiderato e gli toccava partire il domani. Chiedeva perdono alla dolcissima amica della mancata promessa, assicurandola che ne avrebbe portato in cuore il soave ricordo pei mari lontani e per le favolose terre e le baciava con devozione le bellissime mani.

— È un addio, — si disse donna Giacinta con gli occhi cupi fissi al suolo sopra una screpolatura del gradino e le parve che il marmo si muovesse, che ondeggiasse sotto i suoi piedi. Egli partiva, così, con tre righe di saluto, così come si lascia una conoscenza di ieri, non come si abbandona l’amante di un anno. Ed ebbe un impeto di corsa in tutte le sue membra come se l’istinto di balzare verso lui, di fermarlo, d’impedirgli quella partenza la sospingesse e la incitasse irresistibilmente. Forse ella era ancora in tempo, forse con l’automobile a tutta corsa senza porre indugio poteva arrivare a Luigi, scongiurarlo di non partire a quel modo, senza una parola di spiegazione, senza un addio più dolce.

Salì lentamente fino alla sua camera e vi si rinchiuse per meglio riflettere. Ma comprese ben presto che quel correre a lui come una mendicante d’amore che implora pietà [p. 106 modifica]era una cosa misera, umiliante e vana. Vana sopratutto e impossibile. La sua partenza che egli annunziava con quel tono di rammarico leggero e di addio sentimentale, era una fuga ed ella lo comprendeva. Perciò tornava inutile insistere, pregare il fuggitivo d’una sosta, mostrargli il suo dolore spasimante: egli le appariva oramai un nemico, e come nemico bisognava trattarlo sebbene dentro di sè tutta l’anima urlasse e spasimasse. Ma anche l’inimicizia era un sentimento troppo grave e troppo fiero per rispondere a quel suo saluto così leggero e tranquillo, bisognava fingere l’indifferenza e la calma, bisognava già simulare un principio d’oblio. Ed ella, meditando a lungo, con fatica estrema, tracciò alcune righe di telegramma: «Fate bene a partire. Lo zio Eusebio di Roccavarna occupa tutto il mio tempo e tutto il mio cuore. Portatemi un idoletto indiano. Buon viaggio e addio».

Quindi si vestì e scese a pranzo consegnando il telegramma a un domestico. Aveva indossato un abito scuro a trine antiche che doveva piacere a don Eusebio e sedette alla destra del vecchio, il quale già adagiato in un’ampia poltrona si guardava intorno col suo lungo viso di misantropo corrucciato. Ella sentiva che gli doveva parlare con dolcezza e quasi con umiltà, attrarre a sè la sua benevolenza ritrosa, sorridergli con quella legge[p. 107 modifica]rezza carezzevole e cordiale da cui i vecchi si lasciano soggiogare. E non poteva. Un nodo le chiudeva la gola, una piega amara della bocca le impediva di sorridere. Udiva Alberto discorrere con lo zio di cose gravi, con un tono serio che ella non gli conosceva, udiva Marzi intervenire tratto tratto nella conversazione con qualche motto leggero o scherzoso e udiva la voce nasale di don Eusebio rispondere all’uno o all’altro con parole staccate e lente che parevano cadere dall’alto. Ed anche udiva sè stessa parlare di cose vane che non la interessavano, con una voce mutata che le sembrava la voce di un’altra, la voce di una donna che parlasse delirando dopo aver ricevuto una mazzata sul capo.

Quando fu nella sua camera, dopo aver salutato don Eusebio con parole fredde e con inchini cerimoniosi, suo marito la raggiunse e la interrogò con un tono irato e sommesso ch’ella non gli aveva mai udito: — Ma dimmi, perchè tratti a questo modo lo zio? Tu mi sembri nelle nuvole questa sera e sai pure che tutto, tutto il nostro avvenire, capisci? tutto dipende da te. Io l’ho indotto a venire qui, sei tu ora che lo devi conquistare, circondare, trattenere perchè non ci sfugga in questi pochi giorni che gli restano a vivere. Si tratta della nostra fortuna di domani, comprendi? [p. 108 modifica]

Ella lasciò che Alberto se ne andasse fosco e nervoso com’era venuto, poi si buttò quasi vestita sul letto mordendo il guanciale per non gridare. Che le importava della loro fortuna di domani quando l’oggi le era così terribilmente amaro? Che le importava dello zio e dei suoi denari, di Alberto e delle sue speranze quando il suo amore le fuggiva lontano e il suo cuore si spezzava come se un piede vi passasse sopra e lo schiacciasse?

Ella si premeva le mani su quel povero cuore che le faceva male e le pareva di doverne ritrarre le dita macchiate di sangue quasi le avesse immerse in una ferita aperta.

Ma il domani svegliandosi ella si rammentò di don Eusebio e pensò che bisognava intraprenderne la conquista. Si vestì di bianco con una fresca semplicità che ringiovaniva i suoi stanchi trent’anni e discese in giardino a cogliere rose per offrirgliele.

Il vecchio passeggiava già per i vialetti ghiaiosi sui quali aveva giuocato fanciullo appoggiato al braccio del suo fido domestico, ma quando donna Giacinta gli si avvicinò, subito comprese che egli non le aveva perdonato la sua ritrosa freddezza, la sua aria assente e preoccupata della sera innanzi. Egli l’attribuiva certo ad un resto di rancore rimasto in lei per l’ostilità da lui dimostrata alla sua unione con Alberto e se ne offen[p. 109 modifica]deva, come di una ingiusta superbia, se ne sdegnava come di un affronto.

Perciò il suo compito le diveniva ora anche più difficile ed ella cercava in cuor suo inutilmente la forza e l’abilità di non mancarvi. I loro rapporti posti la sera innanzi su di un rigido tono di ossequiosa convenienza non potevano mutare da un giorno all’altro ed occorreva giungere per lenti gradi dal rispetto alla confidenza e dalla confidenza alla tenerezza.

E come avrebbe ella trovato la calma di nervi e la lucidità di spirito necessari a raggiungere questo intento?

Ella se lo chiedeva, scoraggiata, mentre disponeva nei vasi le rose che non aveva osato offrire a don Eusebio e, d’improvviso, il ricordo di un mazzo di rose rosse simile a questo le piombò sul petto come una pietra. Le rose che Luigi aveva sparso dovunque sui mobili, sui tappeti e sul letto il giorno del loro primo incontro, il giorno del loro primo abbandono avevano il colore e l’odore di queste, il colore disfatto e l’odore molle delle rose d’autunno. Ed era trascorso un anno ed egli era lontano, ed ella lo amava ancora senza speranza.

S’avvide di stringere nervosamente quei fiori fra le sue dita come per farli soffrire con lei e poichè don Eusebio entrava in quel momento sorridendo coi suoi denti giallognoli, [p. 110 modifica]ella gli gettò uno sguardo d’odio. Sentiva di detestare quell’uomo penetrato nella sua vita in un’ora così penosa, il quale la costringeva per una necessità brutale dell’esistenza a dissimulare il suo profondo male, a parlare mentre la sua gola era piena di singhiozzi, a sorridere mentre la sua bocca si contraeva nel pianto. Quei giorni che ella credeva destinati al suo amore e ad una intimità carezzevole e dolce di tutte le ore, le si mutavano nell’umiliante martirio d’ammansare un vecchio misantropo ricco, d’accarezzare un vecchio orso ringhioso per indurlo a non lasciarla morire di fame.

Il conte Alberto Corsi non riusciva a comprendere il contegno di sua moglie verso don Eusebio ed ogni sera entrava nella sua camera a chiedergliene ragione ed a rimproverarla sempre più stupito e più collerico.

— Ma tu impazzisci, credo, per sogghignare a quel modo mentre lo zio parla. Ti ho fissata due o tre volte, ma tu continuavi a ridere guardando il soffitto come se ti burlassi di lui.

— Io ho sogghignato? — chiedeva stupefatta donna Giacinta.

— E un’altra volta non hai risposto ad una sua domanda, e un’altra volta ti sei messa a torcerti le mani come se ti pigliasse la frenesia.

— Io ho fatto questo? [p. 111 modifica]

— Tu hai fatto questo ed intanto don Eusebio diventa sempre più freddo e più accigliato e incomincia a parlare della sua partenza. Sarà la completa rovina e la dovrò a te, ricordati.

Quindi usciva sbattendo l’uscio e la donna rimasta sola meditava. Ella aveva pensato tutta la sera a qualcuno che a quell’ora stessa s’imbarcava per un paese lontano e ignoto, senza vedere il lungo viso di don Eusebio, senza udire i suoi monotoni discorsi. Ed intanto sogghignava verso il fuggitivo, con la bocca che sapeva di fiele e si torceva le mani di collera muta, mentre d’intorno a sè gli altri la osservavano indignati. E nessuno sapeva quale fantasma occupava la sua mente, quale mano di ferro stritolava il suo cuore. Bisognava dimostrarsi serena e attenta e graziosa perchè non le mancasse un giorno il necessario e il superfluo che occorrono per vivere, ed intanto ella scongiurava il destino benigno perchè in quel momento stesso le concedesse di morire.

— Sei malata, dimmi, sei malata! — le domandò una sera suo marito afferrandole il polso quasi brutalmente; — ti farò visitare da Marzi perchè trovi la tua malattia e ti curi, se è possibile.

Ma donna Giacinta rise brevemente d’un riso amaro e aspro che le faceva sussultare le spalle. No, non era malata di una ma[p. 112 modifica]lattia visibile e curabile dalla scienza di Marzi e quasi si rammaricava di non poter giustificare la sua inquietudine convulsa mostrando un membro ulcerato, una gonfiezza, una contusione, una lividura, che le permettessero di soffrire e di gridare e di torcersi senza offendere nessuno.

Tutto il suo corpo era forte e sano, ma il cuore, il povero cuore oscuro e sensibile, era malato di un intollerabile male; senonchè il male del cuore non conta nulla dinanzi alla pietà dei nostri simili; il male del cuore, lo spasimo della passione, le trafitture dell’amore non sono infermità degne della compassione umana.

Quindi ella meditò un momento e poi rispose con una menzogna: — Io sto benissimo, non disturbare Marzi, ti prego. Solamente, vedi, tra me e tuo zio esiste una incompatibilità, un’antipatia istintiva che nè l’uno nè l’altra possiamo dominare.

— Queste sono allucinazioni, — dichiarò duramente Alberto e andò a giuocare agli scacchi con don Eusebio reprimendo a stento la collera e gli sbadigli.

Ma allo scoccare della mezzanotte il vecchio gentiluomo s’alzò a fatica aiutato dal suo domestico, porse la mano al nipote e sorridendo gli ripetè press’a poco le parole di donna Giacinta:

— Caro Alberto, tra me e tua moglie esi[p. 113 modifica]ste una strana incompatibilità che forse non riuscirà mai a ricomporsi. È meglio ch’io me ne vada e che non le pesi oltre con la mia presenza.

Inutilmente il conte Alberto tentò di protestare e di trattenerlo. Egli vide partire con lui ad una ad una tutte le sue magnifiche speranze e dopo due mesi e mezzo, quando già donna Giacinta aveva dimenticato Luigi Vannelli, don Eusebio di Roccavarna morto in quei giorni lasciava ad un manicomio femminile le sue vistose sostanze e il domani gli uscieri ponevano i suggelli sul portone stemmato di casa Corsi. Intanto sullo scalone di marmo la Fortuna continuava a sorridere ed a versare dall’alto i suoi tesori con la simbolica cornucopia.