Anime allo specchio/La matrigna
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LA MATRIGNA.
Vittorino Ponti, chiamato da tutti Rino perchè era biondo sottile roseo come una fanciulla, apprese un giorno una straordinaria notizia da Rocco Deluca, un piccolo pettegolo suo compagno di collegio, che sapeva sempre i fatti altrui e li raccontava con maligna gioia.
— Presto avrai una matrigna, Rino, — gli disse sottovoce una sera urtandolo nel gomito Rocco Deluca mentre salivano le scale del dormitorio.
Rino si mise a ridere credendo che il compagno scherzasse scioccamente, ma incominciò ad oscurarsi e a guardarlo di traverso poichè l’altro proseguiva:
— Scommetterei che tuo padre non te l’ha detto, ma oramai lo sanno tutti. Lo si diceva anche oggi al caffè in un gruppo d’ufficiali.
— Che cosa si diceva? — domandò Rino senza guardare il compagno, mentre s’inoltravano tra le file dei lettini candidi.
— Dicevano che tuo padre sposa la figlia del sottoprefetto, quello dalla barba bianca che viene spesso a trovare il direttore.
— È una frottola, — disse Rino dandogli una spinta irosa nel dorso e passò oltre senza più guardarlo. Poi si spogliò in fretta e si rannicchiò nel suo letto pensando alle parole di Rocco Deluca.
Avrebbe avuto una matrigna? Era vera quella notizia od era uno dei soliti scherzi cattivi del compagno? Egli aveva perduto la madre bambino e gli pareva impossibile che dopo otto anni di vedovanza suo padre pensasse a dargli una matrigna. Eppure una segreta e oscura ansia lo avvertiva che quel fatto poteva accadere, che quel fatto forse accadrebbe. E com’era questa figlia del sottoprefetto? La immaginava biondastra, secca, vestita di grigio, con un viso falso e sorridente, mellifluo e bilioso come il nome odioso di matrigna gli suggeriva. Si ricordò che un suo piccolo amico d’infanzia, figlio d’un professore di latino, aveva una matrigna fatta così e si diceva che il professore, mortagli la moglie, aveva sposato la serva. Ma la figlia del sottoprefetto era una signorina e suo padre non poteva sopportare le donne brutte. Difatti le cameriere di casa erano sempre graziose e vestivano come damigelle. Gli parve d’un tratto che una di esse, Maria, si chinasse su di lui e gli susurrasse: — Sono io la matrigna, — mentre la sua faccia si cambiava d’un tratto e diventava nera, schiacciata e feroce come quella del buldogg che suo padre teneva in giardino. Si scosse, comprese che si addormentava e che sognava, ma i pensieri gli si confusero ancora ed il sonno lo piombò nell’insensibile oblio.
Una settimana dopo suo padre lo fece chiamare inaspettatamente in parlatorio e quasi senza preamboli, battendogli la mano sulla spalla gli disse sorridendo: — Vittorino mio, tuo padre sta forse per commettere una sciocchezza, ma se mai la commette in buona fede e non bisogna dargli troppo la croce addosso. Fra otto giorni mi sposo, Vittorino mio, e sono venuto a dirtelo prima che tu lo sappia dagli altri.
— Lo sapevo già, — disse Rino guardando le scarpe di suo padre ch’erano gialle e lucide come due arancie, e soggiunse tra sè: — Poteva aspettare ancora un poco, ormai lo sanno persino i gatti del collegio.
Ma il signor Ponti, già solitamente distratto e smemorato, pareva in quei giorni mezzo intontito e non rilevò le parole di suo figlio. Nel congedarsi gli battè un’altra volta la mano sulla spalla e fu solo dopo aver aperta la porta per andarsene che si ricordò di chiedergli se volesse intervenire alla cerimonia. Ma Rino comprese che suo padre non lo desiderava e sentì che egli stesso vi si sarebbe trovato a disagio. Quindi rispose che fra poche settimane incominciavano gli esami e che il direttore gli avrebbe concessa a malincuore questa assenza.
Suo padre gli rispose in fretta: — Bene, bene, — e lo salutò con la mano saltando nell’automobile che lo aspettava al cancello.
Dieci giorni dopo Rocco Deluca gli descrisse ampiamente la cerimonia, gli nominò gli invitati, gli riferì che la sposa era tutta avvolta in un velo bianco e gli domandò che regalo gli avessero fatto. Rino mostrò una piccola spilla in forma di frustino con un brillante al posto del pomo che gli avevano mandato il giorno prima in una scatola di confetti e si rallegrò perchè Rocco Deluca parve ammirarla moltissimo.
Dopo ricevette per qualche settimana, di quando in quando, una cartolina illustrata firmata da suo padre e da un altro nome incomprensibile e arguì da ciò che gli sposi viaggiavano. Da Parigi, da Vienna, da Londra e da Pietroburgo, gli giungevano a intervalli sopra un rettangolo di carta, un angolo di giardino, una cupola di chiesa, un quadro celebre, un cosacco in alta uniforme. Egli intanto si preparava ai suoi esami, li superava con facilità e stava da due giorni chiedendosi che cosa avrebbe fatto di lui durante le vacanze quello smemorato di suo padre, quando questi, accompagnato dalla sposa, lo venne improvvisamente a prendere per portarlo in campagna.
Vittorino Ponti, avvertito che suo padre ed una signora lo attendevano in parlatorio, discese ad incontrarli con la faccia oscura. Dopo un mese e mezzo quei due si ricordavano finalmente di lui e suo padre si degnava di presentargli la sua matrigna. L’avrebbe guardata bene in faccia con un’aria di sfida quella donna odiosa che era venuta a prendere il posto di sua madre, e l’avrebbe trattata con la più indifferente freddezza. Entrò in sala con le mani nelle tasche della sua giacchetta e vide subito suo padre. Ma egli gli volgeva il dorso e stava in piedi un po’ curvo a parlare con un’altra persona, la quale semi-affondata in una poltrona rimaneva invisibile.
— Papà, — chiamò Rino spazientito perchè si volgesse, e poichè suo padre si ritrasse e corse a prenderlo alle spalle per sospingerlo avanti, egli vide così la sua matrigna.
Ella vestiva di bianco ed aveva all’occhiello della giacchetta una rosa di velluto nero. Aveva pure un casco di velluto nero che le nascondeva tutti i capelli tranne una breve frangia bruna e due striscie ondulate lungo le guancie. Portava calze di seta bianca che parea rosea alla trasparenza e scarpine di velluto nero allacciate alla greca sopra la caviglia. Una gamba stava sovrapposta all’altra ed ella aveva appoggiato al ginocchio il gomito e sulla mano il mento e lo guardava con un leggero sorriso. Lo guardava di sotto in su con due occhi larghi, non neri e non grigi e non azzurri, ma misti di tutti quei colori e gli sorrideva con una bocca un po’ tumida, un po’ sporgente e rossa come un piccolo frutto.
Allora Rino Ponti sorrise anche lui e tolse le mani dalle tasche della giacchetta per stringere quella che la sua matrigna gli porgeva.
— Spero che ci vorremo bene, — ella disse con una grazia semplice e vivace, ed alzandosi d’improvviso se lo trasse vicino e lo baciò sulla tempia. Erano egualmente alti, egualmente smilzi ed il signor Ponti rise guardandoli ed osservò con tranquilla malizia: — Sembrate voi altri due gli sposi.
— Mi chiamerai Isa, semplicemente, — ella soggiunse prendendogli il braccio; — saremo come fratello e sorella; io la sorella maggiore, tu il fratellino minore, non è vero?
Rino accennò di sì col capo, con gli occhi, col rossore ingenuo e ardente delle sue guancie; ma durante il viaggio, in carrozza, in treno, in automobile, le rivolse raramente la parola e sempre dopo una lunga preparazione mentale chiamandola timidamente: signora.
Ella rideva guardando suo marito e parlava al figliastro da vicino, con gli occhi negli occhi, facendogli sentire il profumo del suo alito e quello della sua cipria che lo stordivano.
Egli giunse a villa Ponti stanco come se avesse compiuto un viaggio di tre giorni, e quando finalmente si coricò nella sua stanzetta di bambino e chiuse le palpebre nel buio, continuò a vedere quell’abito bianco e quella rosa nera, quegli occhi indefinibili e quella bocca tentante. Si sentiva tanto felice e insieme tanto infelice come non credeva fosse possibile al mondo, felice di poterla guardare e udire ancora il domani e il doman l’altro e sempre, infelice di sapere ch’ella era la moglie di suo padre, la matrigna, quella che aveva usurpato il posto di sua madre, una donna che egli non poteva, e non doveva amare.
Il domani ella vestiva una molle tunica di seta molto scollata, dalle lunghe e larghe maniche spaccate fino alla spalla, coi lembi trattenuti da cordoncini d’oro che lasciavano travedere le sue braccia ed appariva così più femminile, emanava un senso d’intimità più carezzevole ma insieme più inquietante. Stavano in una piccola veranda aperta sul giardino e suo padre andava e veniva fumando e ciarlando, mentre ella dipanava matassine di seta dopo averle distese su le mani aperte di Vittorino. E rideva osservando l’imperizia impacciata del giovinetto, la sua confusione nel risponderle, la timidezza ritrosa con la quale egli la chiamava Isa e le dava del tu.
Egli non aveva mai dato del tu a nessuna donna, nemmeno alle fantesche di casa che vedeva di rado e che trattava freddamente col voi, perciò non si poteva abituare a rivolgere la parola a quella bellissima signora al modo stesso con cui la rivolgeva ai suoi compagni di scuola, per esempio a Rocco Deluca: — Senti, Rocco, mi dài un pennino? Senti, Isa, mi accomodi il nodo della cravatta?
Eppure a poco a poco si avvezzò anche a questo ed imparò a farle da cavaliere con un garbo che la meravigliava e che attirava i motteggi maliziosi di suo padre.
— Finirò per essere geloso di mio figlio, — egli diceva qualche volta scherzando e una fiamma saliva alla faccia rosea del giovinetto.
Egli aveva quasi dimenticato ch’ella fosse per lui la matrigna e non vedeva più in lei se non un’amica di qualche anno maggiore, che un destino qualunque gli aveva fatto incontrare e che per nulla al mondo egli avrebbe voluto perdere. L’amava in silenzio, con quella segretezza gelosa e quasi selvaggia dei primissimi amori che non si rivelano ma che maturano in tristezza i cuori adolescenti, ed una paura soltanto lo assaliva: quella di doverla presto lasciare per ritornare al suo collegio.
Un giorno che suo padre erasi recato a caccia con alcuni amici, egli fu così contento di restar solo con lei una giornata intera che si fece animo e le manifestò una sua trepida speranza. Avevano corso e passeggiato a lungo in un boschetto attiguo alla casa ed ora sedevano su d’un tronco atterrato coperto di licheni giallastri. Ella scavava con la punta dell’ombrellino piccole buche nel terreno, ed egli le guardava attentamente pensando al modo d’incominciare.
— Credi che papà mi manderà ancora in collegio quest’anno? — domandò perplesso.
— Perchè? Non ci vorresti tornare? — ella chiese a sua volta senza interrompere il gioco.
— Ecco, vedi, — egli disse con molta esitazione, accarezzando col palmo i licheni giallastri, — quest’anno non ci tornerei volentieri e tu potresti farmi un piacere immenso, se volessi.
— Ossia pregare il signor padre che ti lasci restare a casa. È questo il piacere immenso?
— Sì, — disse Rino in un soffio; — studierei tanto lo stesso ed egli non avrebbe a pentirsene e poi, vedi, io resterei con te, sempre con te, non ti lascerei più.
Pronunziò le ultime parole piano, con la voce chiusa in gola come se una mano glie la stringesse e sentì in sè una commozione così struggente, una tenerezza così dolorosa che abbassò le palpebre per trattenere il pianto. Ma le lagrime grosse, calde, ancora infantili, sgorgarono egualmente e caddero sui licheni giallastri. Egli s’era abbassato sul tronco d’albero per nascondere la sua debolezza e non vedeva il viso della donna, ma dopo un momento sentì le mani di lei sulle sue tempia e s’alzò e la guardò negli occhi.
Ella sorrideva d’un sorriso un po’ forzato e diceva con la voce leggermente ansante: — Via, via, non fare così, un ragazzo non deve piangere. Pregherò tuo padre perchè ti lasci a casa. Sei contento ora?
Egli le baciò una spalla, vi premette un momento la guancia col cuore che gli doleva di felicità e non rispose. Non parlarono più di questo, ma il domani in fin di tavola suo padre traendo dalla tasca il portasigarette gli domandò se veramente credeva vantaggioso per lui di restarsene a casa. Rino gettò un rapido sguardo alla matrigna che quel giorno era pallida e non toccava quasi cibo e rispose prontamente che ciò non gli avrebbe recato alcun danno. Poteva seguire i corsi dell’istituto come esterno e studiare anche meglio degli anni innanzi.
Suo padre si strinse nelle spalle e mentre rispondeva: — Fa come ti pare — e il viso del giovinetto s’illuminava di gioia, egli porse l’astuccio aperto a sua moglie.
— Grazie, — ella disse scuotendo il capo in un sorriso stanco, — sto poco bene oggi, ne soffrirei.
Padre e figlio la guardarono con ansia, ma ciascuno con una espressione diversa.
Il fanciullo aveva una piccola ruga di angoscioso timore in mezzo alla fronte, l’uomo una trepidazione incerta negli occhi attenti. Questi s’alzò, venne ad accarezzarle i capelli, poi si chinò al suo orecchio e le susurrò qualche parola.
— Chi sa, — ella disse con gli occhi semichiusi, guardando lontano attraverso alle ciglia e dopo un momento soggiunse: — Può darsi.
Vittorino non potè gustare la sua gioia perchè da quel giorno la salute di Isa lo tenne in ansietà e in tristezza. Ora pranzava quasi sempre solo o in compagnia di suo padre e se qualche volta la matrigna scendeva dalle sue stanze, era così pallida, con labbra appena rosee ed occhi così cerchiati ch’egli non poteva guardarla senza sentirsene il cuore stretto di pena. Ed aspettava di giorno in giorno che ella guarisse, che discendesse un mattino dalla sua camera col viso chiaro e gli occhi ridenti, pronta a correre con lui nel boschetto, come una fanciulla. Ma venne invece il medico del paese e prima d’andarsene battè familiarmente la mano sulla spalla del signor Ponti e questi gli diede una vigorosa stretta come un uomo soddisfatto. Rino salì nella sua stanza per meditare sopra queste stranezze ma mentre usciva dal corridoio, udì la cameriera e la cuoca trattenervisi in conciliabolo segreto.
— Dunque la signora è proprio incinta, non c’è più dubbio, l’ha detto il medico.
— Poveretta! Incomincia presto; ha finito di star bene.
— Mah! è il destino delle donne: soffrire.
Vittorino non udì le considerazioni filosofiche della cuoca perchè s’era slanciato sulle scale e saliva i gradini a quattro a quattro senza vederli. Quella notizia lo sbalordiva e lo irritava, gli dava una specie di ribrezzo oscuro, di collera sorda contro suo padre e contro di lei. Aveva veduto qualche volta donne incinte e provata una ripugnanza come di cosa mostruosa che non lo faceva ridere con malizia viziosa come i suoi compagni, ma guardare altrove con disgusto. Ed Isa sarebbe stata così, deforme, gialla, con l’aria affaticata e le mani sul ventre. Ed infine sarebbe nato un bambino, un altro figlio di suo padre, il fratellastro. Non gli pareva possibile, non doveva essere possibile una cosa tanto orrenda.
Vi pensò molti giorni senza osare di parlarne a nessuno e quando Isa comparve un mattino a tavola un po’ spettinata, più magra, curva, con le gengive quasi bianche che apparivano nel suo sorriso incerto, egli non seppe avvicinarsele nè parlarle e continuò ad osservarla di sfuggita ma attentamente, come s’ella fosse un’altra, una sconosciuta.
Ed ella non badava a lui, era tutta assorta in sè stessa e portava a fatica i cibi alla bocca come se la nauseassero, guardando appena di quando in quando suo marito che la incoraggiava sorridendo con parole piene di gaiezza e d’affetto. Egli si sentiva già quasi fuori della loro vita, era già il figlio di un’altra, diverso da quello che stava incominciando la sua esistenza e che essi attendevano con gioia. E quella donna non era più Isa, la dolce sorella maggiore che egli aveva tanto amato, la creatura bella dei suoi sogni d’adolescente, era già la madre di quel figlio non ancora nato, era veramente ora la matrigna.
Confusamente egli meditava così, masticando adagio qualche vivanda senza sapere che fosse, considerando di soppiatto quei due che non si curavano di lui. E quando gli parve d’aver finito s’alzò e andò a riflettere nel boschetto sedendo sul tronco atterrato.
Pochi giorni innanzi egli aveva pianto d’amore e di gioia sui licheni giallastri che lo vestivano, ma ora non piangeva più. Si sentiva quasi forte e quasi calmo nel suo dolore, ma comprendeva pure che quella calma non poteva durare a lungo e che la parte di figliastro alla quale ormai era condannato gli sarebbe in breve intollerabile.
— Tornerò in collegio, — disse a sè stesso e presa questa risoluzione si mise a tormentare una lucertolina che correva guizzando sul tronco. Stette nel bosco a giocare coi grilli e con le formiche fino a sera e quando rientrò trovò suo padre già seduto a tavola distratto e tutto solo. Gli si mise in faccia e lo chiamò perchè si scuotesse e lo ascoltasse: — Papà.
— Ah, sei qui?
— Sì, ti volevo dire una cosa.
— Che cosa?
— Vorrei tornare in collegio. M’annoio a restar qui solo senza amici, senza compagni.
Suo padre sorrise un momento ad un suo intimo pensiero, poi lo guardò fisso e gli disse:
— Lo sai che fra qualche mese avrai un piccolo fratello od una piccola sorella? Te l’ho voluto dire subito prima che tu lo sapessi dagli altri.
Vittorino non rispose, solo pensò con ironia che le notizie di suo padre arrivavano sempre con un considerevole ritardo.
— Mi permetti d’andarmene domani o posdomani? — domandò con un lieve moto d’impazienza; — credo che la mia matrigna non avrà nulla in contrario.
Pronunziò per la prima volta quella parola, matrigna, con un tale senso d’ostilità irosa e beffarda che colpì persino suo padre.
— Va pure, — disse egli freddamente; — nessuno ti trattiene.
E Vittorino Ponti partì il domani all’alba, senza salutare la moglie di suo padre.