Aroldo e Clara/II
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II.
Or da quel giorno d’ineffabil lutto
Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
E la mesta mia cantica, i solinghi
325Pianti dell’orbo vecchio e di sua figlia
Commiserando, svolga altra vicenda.
Era una sera: alle vetuste mura
Del baron s’appresenta un fuggitivo,
A cui ferite e febbril sete esausta
330Miseramente avean la voce. Aroldo
Piena di vino gli mandò una coppa
Con questi detti: — Al focolar t’accosta
Sin che apprestata sia la cena, e al sire
Perdona del castel s’ei di sue stanze
335Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
Clara portò quei detti, e il fuggitivo
Che al maestoso inceder cavaliero
Parea e mendìco a’ finti panni, il volto
Pria si coverse, indi con pronti passi
340Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
Di mortal che, caduto in impensato
Orribile periglio, aneli scampo.
Ma nella mossa impetuosa a lui
Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
345Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
Chi era? Chi? . . . Manfredo! il già possente
Desolator della sua patria! il ladro
Che alla corona del nepote osava
350Stender la man sacrilega, e sul capo
Inverecondo imporsela, e i diritti
Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
Dirsi benefattor, serva a stranieri
Brandi facendo la natìa contrada!
355Fortuna alfin l’abbandonò: fuggiasco
Da compiuta sconfitta è l’empio sire,
E per sottrarsi agl’inseguenti ferri
Ei s’è imboscato in varii lochi, e ignote
Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
360Nella pugna perduto e per la rabbia
Gli s’era da brev’ora intorbidato
Sì fattamente il lume del pensiero,
Che mal sapea dov’ei movesse, e giunto
Era ai campi d’Aroldo altra credendo
365Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
D’adolescenza riportate mai
Non avea l’orme, ed alberi e tugurii
Mutato avean l’aspetto della terra.
Sol quand’ei vide Clara, appien le soglie
370Raffigurò d’Aroldo, e se bastata
A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
Manfredo! e senza guardie! e semivivo,
Sotto il tetto dell’uom cui trucidato
Non in battagia, ma in supplizi ha il figlio!
375Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
I famigli richiamano, ella corre
Alle stanze del padre, e già già quasi
A lui così sclamava: ― Esci, un prodigio
Ad ammirar del Dio delle vendette:
380Sull’ossa di tuo figlio a spirar viene
Il suo assassin!
Ma in quell’istante gli occhi
Della donzella alzaronsi a parete,
Onde pendea dell’Uomo-Dio morente
Effigie veneranda, e a quella vista
385L’irrompente parola in cor rattenne.
Religïoso fremito la invase
Dinanzi a quell’effigie.
— Oh mio Signore!
Quai voci arcane alla tua ancella parli?
Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
390E a quei che t’uccidean pur perdonavi!
Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
Pe’ falli suoi fuor dell’eterna reggia,
In carcer sotterraneo, o d’inquïeti
Elementi per l’alte aure ludibrio
395Sta ancor penando, e a liberarlo vane
Fervon le preci, e in loco d’esse un atto
Di virtù nostra è d’uopo! O fratel mio!
Forse quest’atto or chiedi. Ah, virtù somma
È il perdonar! Cert’è che in cielo entrando
400Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
Come a noi perdonato ha il Redentore!
Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
Delle forze d’un padre il dare aïta
D’un caro figlio all’uccisor. La lancia
405Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
D’uom che toccò la mensa sua . . . Ma pure
Chi può segnar dove talor trascorra
Nella foga dell’ira un core offeso?
Chi mi consiglia? Ah tu, gran Dio, tu solo!
410Disse, e prona curvossi, e lungamente
Con ambascia pregò. Temea d’orgoglio
Esser tentata; innanzi a Dio temea
Calunnïar la santa alma del padre.
Ma nella mente repentino un raggio
415Di fidanza pienissima le splende,
E ratta sorge e dice: — Ah sì, fratello!
Questo è il momento in che del ciel la porta
A tue brame si schiude; io di tua gioia
Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
420Un servo entrava: — Damigella, o carco
D’inaudite peccata, o fuor di senno
È lo stranier. Che far dobbiam? D’Iddio
Parla tra sè com’uom cui prema occulto
Di vendette terribili spavento,
425E di qui vuol fuggir.
— Tosto bardata
Per lui sia mia cavalla.
Il servo parte
Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
Antico armadio la fanciulla schiude,
Ed indi tratto un de’ paterni manti,
430Al leve suo tesor poscia s’affretta
D’auree monete, e in una borsa il pone.
Così ver l’agitato ospite mosse,
E que’ doni offerendogli — D’Aroldo
Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
435Fremea la generosa in lui mirando
L’uccisor di Ioffrido e il formidato
Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
Del castello accennando, a lui soggiunse:
440— Ecco a’ tuoi cenni un corridor: se lena
Ti basti, fuggi, e t’accompagni il cielo!
Clara sparve, ciò detto. E l’infelice
Tiranno — Angiol! gridò. — Poi diè dal core
Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
445Pentimento verace a lui fu strazio,
Le proprie atroci colpe rammentando,
E rammentando il giovine Ioffrido,
E quel misero cieco che appoggiato
Ad un alber credeasi, e gli grondava
450Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
Frettoloso Manfredo i doni tolse,
L’inaudita pietà benedicendo;
D’Aroldo cinse su le spalle il manto,
E quindi a pochi tratti il vide Clara
455Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
Con sembiante commosso intorno intorno
Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
In atto di preghiera ergea le mani,
Poi le briglie toccava ed era in sella.
460Fermato ivi un istante, ad alta voce
Mise queste parole: — Aroldo! Aroldo!
Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
Seggio e de’ vituperi onde vo sazio,
Consolarmi potrò; non potrò mai
465Consolarmi d’aver tua nobil alma
Col più truce rigore insanguinata.
Udì il vecchio baron quel forte grido,
E balzò dalla seggiola esclamando:
— Figlia! il nemico nostro! il maledetto
470Uccisor di Ioffrido!
E sul rugoso
Pallido volto del canuto il foco
S’accese del furore. A’ piedi suoi
Clara gettasi allora, e gli palesa
Ciò che d’oprar le ispirò Iddio.
— No, Iddio
475Questo non t’ispirò! prorompe Aroldo;
Manfredo è un empio! ei di dominio sete
Portò infernal su queste invase terre,
Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
Infame della patria e del suo prence
480Manfredo è traditor. Per sollevarsi
Sulla sede non sua, trasse alleati
E Provenzali e Càlabri e venduti
Guelfi di tutta Italia allo sterminio
De’ nostri feudi e delle nostre plebi,
485E incenerì Saluzzo! . . . e il figlio mio,
Il figlio mio su scellerata croce
A’ carnefici suoi diede bersaglio!
Lunga e tremenda di rammarco e d’ira
Fu l’eloquenza dell’antico. A lui
490Clara abbracciava le ginocchia, e santi
Detti porgea con supplice dolcezza:
— Le iniquità punir sol puote Iddio;
Noi non possiam sul misero fuggiasco
Punirle coll’acciar: solo a punirle
495Una guisa n’è data, ed è il perdono.
Càlmati, o genitor; pensa che o degno
Per penitenza diverrà Manfredo,
O, rimanendo iniquo, a lui carboni
Saranno inestinguibili sul core,
500Giusta il dir dell’Apostolo, i rimorsi
E fra l’alme perverse il danno eterno.
A Dio il giudicio! a noi l’umil dolore,
E il benefico palpito e l’eccesso
Della pietà non sol sugl’innocenti,
505Ma pur sui rei, perocchè tutti d’uopo
Del perdono di Dio morendo avremo!
— Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,
Ti benedico; santamente oprasti!
L’alza, al petto la stringe, e lagrimando
510Mercè le rende che alla prova il senno
D’esacerbato padre ella non mise.
Un dì alle torri del baron fu visto
Giungere di Manfredo un messaggero
Da lontana contrada, e apportatore
515Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
Che pace avean l’ossa d’Aroldo, e muto
Era il castello, ed in vicino chiostro
Cinta di sacre lane, i dolci salmi
L’orfana, per la cara alma del padre
520E del fratel, tutte le notti ergea.