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Arrigo il Savio/IX

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VIII X

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IX.


Un colloquio di quattro persone incaricate di risolvere una quistione d’onore, di stabilire il grado delle offese e le condizioni d’uno scontro, è sempre un argomento degno di studio, non solamente perchè c’è di mezzo la vita di un uomo, o di due, ma anche perchè ci si conosce, meglio che in ogni altra circostanza, il vero carattere di quelle quattro persone: le quali, insieme col così detto punto d’onore, mandano spesso avanti il loro medesimo puntiglio. Ma io suppongo i miei lettori abbastanza istruiti di queste miserie umane, e vado ad aspettar l’esito dei negoziati cavallereschi accanto al signor Cesare Gonzaga, uomo con cui si sta molto bene, [p. 165 modifica]perchè, viva l’anima sua, è vissuto a lungo tra i barbari.

Non crediate che io voglia rifarvi la tesi di Gian Giacomo Rousseau contro la civiltà e in favore dello stato selvaggio, tesi che ha pure il suo lato buono, poichè tra i selvaggi e tra i barbari, loro stretti congiunti, non si vive poi tanto male, come generalmente si crede. “Tutto sta nell’adattarsi alla cucina„ mi diceva a questo proposito un gran viaggiatore, amicissimo mio. Vedete dunque che si tratta di un piccolo guaio, a cui rimedia oramai facilmente il signor Cirio, con le sue brave conserve alimentari. Del resto, lasciando la cucina da parte, io ho sempre pensato che un uomo incivilito guadagni due tanti a vivere un po’ di tempo tra i barbari. In primo luogo, ci ha il vantaggio non lieve di sfuggire per tutto quel tempo la società degli uomini inciviliti; secondariamente egli si spoglia colà di molti pregiudizi, scioccherie, invidie, rancori, vanità puerili ed altre somiglianti piccolezze, che qui rendono la vita infelice ai mortali: e poi, quando ritorna [p. 166 modifica]finalmente a casa, si sente per un pezzo più franco, più sano, più semplice, più forte, resistente agli attriti, inattaccabile, per dirla sì e no chimicamente, dagli acidi.

Il nostro semplice e forte uomo era in casa del nipote, dove quella stessa mattina aveva fatto trasportare le sue valigie, allogandosi in quella parte del quartiere, che guardava sulla via Sallustiana.

— Sarà per questi pochi giorni il mio nido; — aveva detto egli, occupandola. — Tanto, non ci ha più da venire nessuno in conferenza, non è vero?

— Sicuramente; — aveva risposto Arrigo; e mi rendi anche un servizio, liberandomi....

— Zitto lì; questo, poi, non lo voglio sentire da te; — gridò Cesare Gonzaga. — Si può cambiar d’umore, ma non si deve mancar mai di rispetto alla memoria di una donna, a cui si è detto un giorno che era un angelo. Hai capito? Non voglio di queste... che dovrei chiamare birbanterie, se non sapessi che sono smargiassate. —

Arrigo aveva masticata male la lezione; [p. 167 modifica]ma chi la dava era suo zio, ed egli dovette mandarla giù in santa pace. Pochi minuti dopo egli esciva, per andare con Orazio Ceprani al caffè di Venezia.

Come si trovasse il Ceprani a far da padrino in quella quistione di Cesare Gonzaga, avete veduto poc’anzi. Forse, dopo certi discorsi da lui fatti al conte Guidi, il signor Ceprani avrebbe dovuto, per la decenza almeno, tirarsi in disparte. Ma questo e tutto il resto degli atti di Orazio Ceprani è affar suo; e noi lo lasceremo con la mala compagnia della sua propria coscienza.

Cesare Gonzaga, dopo aver messe in ordine tutte le cose sue nel nuovo domicilio, si pose a tavolino per scrivere una lettera al suo fattore.

Capiva che avrebbe dovuto fermarsi a Roma più giorni che non fosse a tutta prima risoluto di restare, e provvedeva con le sue istruzioni a parecchi lavori che aveva lasciati sospesi. Quanto al duello, non ci pensava neppure. La cattiva azione (perchè infatti la credeva tale) gli aveva dato da principio un pochino di noia: ma oramai [p. 168 modifica]s’era imbarcato e non guardava più a terra. Il fatto, poi, considerato nella sua sostanza, non aveva nulla di piacevole nè di dispiacevole per un vecchio soldato come lui; diremo anzi che egli lo metteva in quel certo numero di cose sciocche o bestiali, che gli uomini di buon senso fanno qualche volta per conformarsi alle usanze del mondo, ed anche semplicemente per mo’ di esperienza, comme ètude. Egli aveva conosciuto anni prima un vecchio e strano olandese, che, sotto la coperta di questa frase burlesca, faceva passare ogni maniera di pazzie. Comme ètude!

Ora, mentre egli stava chiudendo la lettera, venne Happy, in punta di piedi e con aria misteriosa, a dargli un annunzio.

— Illustrissimo, sente? Hanno bussato.... di là.

— Ebbene? E tu apri.

— Scusi; il cavaliere non c’è; favorisca di andar lei. Da quella parte, a certe ore del giorno, io non ardisco.

— Caspita! Sei discreto. Sarà poi qualche mendicante... magari uno spazzaturaio. [p. 169 modifica]

— Tutte persone che conoscono la scala, e a quell’uscio non bussano più da un pezzo; — rispose il furbo servitore.

— Ho capito; — borbottò Cesare Gonzaga, — sarà il personaggio delle conferenze. Va pure per i fatti tuoi; aprirò io. —

E andò, aperse l’uscio, e si vide davanti la contessa Giovanna.

Ella era tanto turbata, che non badò punto a ciò che quell’uomo avrebbe potuto pensare di lei, nè al bisogno di giustificare con un pretesto la sua presenza colà. Infine, se anco ci avesse pensato, non era egli lo zio di Arrigo, ed anche e soprattutto un uomo d’onore?

— Lei, contessa? — esclamò invece il Gonzaga, credendo necessario di manifestare un tantino di maraviglia.

Giovanna chinò la testa, balbettando poche parole confuse.

— Si calmi, ed entri, la prego. Dio come arde! Si sente male? — diss’egli, che aveva dovuto prenderla per la mano.

— Dica, per carità, non mi nasconda nulla; — mormorò la bella smarrita. — C’è un duello? [p. 170 modifica]Non mi risponde? La supplico, signor Cesare, non mi faccia morire di ansietà. Arrigo si batte?

— E chi gliel’ha detto?

— Mio marito, stamane... due ore fa. Ed io, appena ho potuto, son corsa.

— Che imprudenza! Ma come può aver detto il conte una cosa che non è vera, o che, se è vera, non riguarda punto mio nipote?

— Come? non si tratta di lui?

— No. C’è un duello in aria... forse nulla; — soggiunse il Gonzaga, che la vedeva sempre turbata, — e tutto potrà accomodarsi. Ad ogni modo, Arrigo non è che padrino. Ma, le ripeto, chi può aver data al conte una falsa notizia, mentre, essendo rimasto tutto fra quattro persone d’onore, non c’era tempo nè modo di conoscer la vera?

— Che so io? Deve averlo letto in una lettera, ricevuta dopo colazione.

— Anche una lettera! — esclamò egli stupito.

— Sì, e che lo ha messo molto in pensiero, tanto che io volevo sapere.... Da ieri vivo in [p. 171 modifica]mezzo a continui terrori, e c’è voluta una gran forza, che io non avrei più creduto di possedere, per trascinarmi fin qua. Infine, signor Cesare, egli non ha neanche risposto alla mia curiosità, certamente indiscreta. Pochi minuti dopo, fatti molti passi avanti e indietro per la stanza, mi ha detto: Arrigo Valenti quest'oggi ha un duello; me ne rincresce davvero. Son queste, lo ricordo, le sue precise parole. La notizia era dunque nella lettera.

— Notizia falsa, data per lettera! — borbottò il Gonzaga. — E veniva dalla posta, la lettera?

— Non so. Era con quelle della posta; ma poteva anche essere stata lasciata al portiere, che la mandò con le altre.

— Notizia falsa, — ripetè il Gonzaga, meditando, — data per lettera, a quell’ora!... E la lettera, forse, sarà anche anonima.

— Dio! — gridò Giovanna, rabbrividendo. — Sono dunque perduta? —

E si nascose il volto tra le palme, poichè allora soltanto pensava alla condizione in cui si era posta davanti a quell’uomo.

— Contessa, — disse allora il Gonzaga, — [p. 172 modifica]non farò il moralista, io, nè a quest’ora. Sia sincera con me, che desidero giovarle. Come ha potuto fidarsi di venire anche oggi? Non temeva di essere spiata?

— Sì, e ne temo ancora. Ma dopo quella notizia, non so come, ho perduta la testa. Non son più io, signor Cesare; non mi riconosco più. E ieri.... Dio mio!... ieri avevo creduto di venire per l’ultima volta!...

— Si calmi, si calmi, e vediamo di provvedere al caso suo; — disse il Gonzaga. — Parleremo poi, povera donna, dei giuramenti e delle nobili intenzioni! Come ha potuto, ripeto, fidarsi di venire... in via Sallustiana?

— Al pian di sopra, — balbettò Giovanna, abbassando gli occhi, — è venuta ad abitare una madame Duplessis, mercantessa di mode. Sono anzi salita poc’anzi, con un pretesto, da lei.

— C’è stata anche ieri?

— Sì.

— Ed ha corso rischio di essere scoperta; — soggiunse il Gonzaga. — Ieri, il conte ha fatto qui, mezz’ora dopo la sua partenza, un [p. 173 modifica]certo discorso!... Ma non ci perdiamo in chiacchiere inutili. Qui bisogna provvedere.

— Come?

— L’uscio per cui ella è entrata, non deve più mettere al quartiere di mio nipote. Questo è l’essenziale. Che donna è la signora Duplessis? Giovane? Vecchia?

— Giovane, ed anche bella abbastanza. È una francese, come le dice il cognome.

— Bella e francese? È sicuramente una donna di spirito; — disse il Gonzaga. — Mi faccia il favore di restar qui una quindicina di minuti.

— Dove va?

— Ho da sbrigare una piccola faccenda. Non tema di nulla, per ora. Da questa parte non si apre a nessuno, e ad ogni modo in questa camera nessuno entrerà. Lasci fare a me. Quella lettera, certamente anonima, mi dà molto da pensare. Ma sono un vecchio soldato ed ho imparata la guerra delle imboscate. Astuzia per astuzia, ed agguato per agguato. —

Escito a furia, senza voler rispondere alle [p. 174 modifica]domande di Giovanna, il Gonzaga richiuse l’uscio della camera, diede la consegna ad Happy e salì sveltamente al piano di sopra. Quindici minuti passarono, quindici minuti di ansietà per la contessa; ma dopo quei quindici minuti, puntuale come aveva promesso, il vecchio gentiluomo, l’esperto soldato, era di ritorno nella camera.

— Ebbene? — diss’ella, andandogli incontro a mani giunte.

— È fatto il più importante, e si sta facendo il resto.

— Ma che cosa, signor Cesare?

— Ho vergogna, a parlarle di sciocchezze, in questi momenti. Ma poichè ella vuol saper tutto... le dirò che parecchie scatole scendono dal piano di sopra. Le due prime le ho portate io stesso. Madame Duplessis è quaggiù, ed Happy, con due bullettine, sta piantando sull’uscio il biglietto di visita della gentile mercantessa francese.

— Come è riescito?

— Dicendo poche parole, come venivano dal cuore. È una donna di spirito, ed ha capito [p. 175 modifica]subito; ha posto mano alle prime scatole ed è discesa. L’idea di mettere il biglietto di visita sull’uscio è sua. A me, lì per lì, non era venuta; ed è un lampo di genio! Ella dirà, se occorre, che abita qui da un mese, e che occupa i due quartierini, del secondo piano e del terzo. Avevo accennato, discretamente, a fare il mio dovere con lei; ma non ha voluto lasciarmi proseguire. “Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo„ mi rispose ella argutamente; “vi rivolgerete a me per l’abbigliatura di nozze, ecco tutto.„ Perchè, debbo confessarle una mia bugia, signora contessa, — soggiunse il Gonzaga. — Era necessario darle una spiegazione del fatto, ed io, non trovando niente di meglio, ho accennato confusamente ad una gelosia di donne, e al mio desiderio di sposar quella a cui la pregavo di render servizio, scendendo al secondo piano con una parte delle sue mercanzie. Mi perdona?

— Ottimo signor Cesare! E suo nipote che dirà?

— Che è stato un solenne imprudente, e che [p. 176 modifica]io dovevo esser savio per lui. Adesso, signora mia, siamo salvi contro ogni imboscata possibile. Venga da madame Duplessis; concerteremo con lei il modo di farla escire.

— Ma... — disse la contessa, che incominciava a sentirsi più raffidata.

— Credeva ella proprio che qualcheduno potesse venire da questa parte?... Al più, mettersi in agguato per via....

— Temo tutto, io; — rispose il Gonzaga. — E poi, chi provvede al più, ha provveduto al meno. —

In quel mentre, si udì una forte scampanellata. Giovanna ne tremò tutta.

— Niente paura; — disse il Gonzaga. — Se suonano di qua, c’è madama Duplessis, con la sua cameriera. Se suonano di là, c’è Happy. —

Ciò detto, andò in ascolto dietro all’uscio della camera. Poco dopo giungeva Happy, per dirgli:

— Illustrissimo, è giunto il padrone.

— Solo?

— Col signor Ceprani.

— Ah diavolo! Ma già, si capisce, doveva [p. 177 modifica]venire insieme. Signora, io esco, per andare a sentire questi due, ed anche per tirarli in un’altra camera, più lontana di qui. Ella esca liberamente, e vada ad aspettarmi da madame Duplessis.

— Signor Cesare, come le dimostrerò io la mia gratitudine?

— Le risponderò come madame Duplessis; — disse il Gonzaga, sorridendo. — Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo. Piuttosto non mi tradisca... non mi rinneghi, con la mercantessa di mode, dopo che io ho dovuto inventare quella frottola... e ne arrossisco tuttavia. —

Quando il signor Cesare Gonzaga escì dalla camera, Arrigo, seguito dal Ceprani, stava per entrare nella sala vicina, non badando alle occhiate di Happy, che voleva trattenerlo. Il Gonzaga giunse in tempo per costringerlo a ritornare indietro, impedendogli di sentire il rumore che nelle stanze attigue faceva madame Duplessis, con le sue scatole e casse di mercanzia.

Orazio Ceprani diede una lunga occhiata di [p. 178 modifica]curiosità a quella parte del quartiere di Arrigo, nella quale non era mai penetrato, ma ritornò anch’egli indietro, precedendo il Gonzaga, che faceva per allora da padrone di casa, e voleva ad ogni costo esser l’ultimo.

Come fu nella stanza vicina, che era la sala da pranzo, il vecchio soldato diede una rifiatata di contentezza.

— Dunque, zio, eccoci qua; — disse Arrigo. — Torniamo ora dalla nostra missione.

— Scusami, ora ne parleremo; — rispose il Gonzaga. — Ho dimenticato una lettera incominciata.

— Lasciala pure; Happy è un uomo scrupolosissimo.

— Sì, ma le lettere non suggellate debbono ad ogni modo essere chiuse. Vado e torno. —

Ed escì, ma non per andare a chiudere la lettera, bensì per aver modo di ritornare indietro, e chiuder l’uscio di comunicazione, senza aver l’aria di usar precauzioni davanti ad un terzo.

— Vedi che uomo è mio zio! — disse Arrigo al Ceprani. — Ha una quistione d’onore, [p. 179 modifica]non sa ancora che cosa gli abbiamo combinato, e, scambio di domandarci notizie, va a chiudere una lettera dimenticata sul tavolino.

— Tuo zio opera da uomo prudente; — rispose il Ceprani, che non immaginava neanche lui di parlar così giusto.

Il Gonzaga ritornò, richiuse dietro a sè l’uscio di comunicazione con l’aria più naturale del mondo, e venne incontro ai due giovani.

— Eccomi qua; — diss’egli; — parlate. A che ora si parte per il campo della gloria?