Avarchide/Canto IX

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Canto IX

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Canto VIII Canto X

 
L’alte donne reali sbigottite
con gli occhi verso quei restano in piede,
così languide, afflitte e scolorite
che più lieta di lor morte si vede:
simili a meste imagini scolpite
presso a marmorea tomba in fredda sede;
sol del pio lagrimare i larghi rivi
mostran che i sensi pur rimaser vivi.

Poi che più non poteo seguir la vista
de i due gran cavalieri i pronti passi
comincia Albina dolorosa e trista
da muovere a pietà le selve e i sassi:
“Almo lucente sol, se mercè acquista
il divoto pregar di spirti lassi,
spiega in noi sì felici i raggi adorni
che la coppia ch’or va lieta ritorni”.

Indi volge il parlare a Claudïana:
“Tempo è di visitar, cara figliuola,
il tempio sacro della dea sovrana
che di saggezza e d’arme ha il pregio sola:
che nacque senza madre, e non è vana
l’antica fama che nel mondo vola,
della fronte santissima di Giove
che l’eterno e ’l mortal contempra e muove;

la qual mille fiate ha preso in grado
l’umil preghiere mie ne i passati anni,
e secur m’ha mostrato e piano il guado
per cui molti schivai perigli e danni:
sì ch’io porto credenza che in tal grado,
in fra tante paure e tanti affanni,
non debba abbandonar chi a lei ricorre
e che suol tutta in lei sua speme porre.

Ma perch’al cor divoto si conviene
adornare i pensier di qualche offerta,
cercherem pria l’albergo che contiene
la donnesca ricchezza altrui coverta.
Indi trarrem ciò che più in cor ne viene
che più possa spiegarla voglia aperta
che d’onorarla avemo, e con qualch’opra
aprire il buon voler che questo adopra.

E per meglio adempir nostro desio
farem tutte appellar l’altre matrone
che di sangue più illustre e di cor pio
aggian di noi seguir dritta cagione;
con quelle che ’l timore e ’l tempo rio
n’han poi condotte d’altra regione,
non nodrite in Avarco, e ch’han seguito
chi ’l parente, chi ’l figlio e chi ’l marito.

Ma innanzi che ciò farse, è ben richiesto
scoprire il tutto al mio reale sposo,
ch’ogni principio ha il fine agro e funesto
s’a chi dee comandar venisse ascoso”.
Così vanno a Clodasso, a cui molesto
non fu il lor disegnar giusto e pietoso,
dicendo: “E doppo voi verso il mio Marte
farò il medesmo anch’io dall’altra parte,

però che in ogni tempo e in ogni loco
si deveno onorar lassservitù gli dei
né il lor sommo poder recarse in gioco
come sovente fan gli stolti e i rei,
che stiman che ’l temergli o nulla o poco
sia grandezza di cor che chiuda in lei
proprio verace ardire e gran valore,
e ’l conoscer d’altrui lo sciocco errore.

Gitene avanti pur, che poco appresso
seguirò ’l vostro andar nel proprio effetto”.
Poi fece a sé venir, che gli eran presso,
il fedel Anfione e Polidetto,
tra i suoi più cari araldi, e di cui spesso
avea sentito l’amoroso affetto;
poi dice al primo: “Andrete alla cittade,
in quante ivi saran case e contrade,

e direte a ciascun di sangue chiaro
che l’età fanciullesca aggia varcata
ch’a gran pubblico ben, per quanto ha caro
di far cosa per me gioconda e grata,
in abito sembiante al tempo amaro
e ’n vista di dolore accompagnata,
dov’io gli attenderò, nella mia sede
con sollecito passo addrizze il piede:

ch’io intendo visitar del sacro Marte
il gran tempio divin con loro insieme,
e delle palme mie donargli parte,
onde il crudo Britanno e ’l Gallo geme,
pregandol ch’ei risvegli i cori e l’arte
e l’antico valor del primo seme
ne i nostri duci illustri, e meni a morte
il possente Tristano e ’l rio Boorte”.

A Polidetto poi comanda: “Andrete
alle caste matrone d’ogn’intorno,
e per nome d’Albina lor direte
che vengan ratte al suo real soggiorno
dispogliando da sé le vesti liete
e dell’aurato vel l’abito adorno,
per gir di Palla alla virginea soglia,
che rivolga in dolzor la nostra doglia”.

Così detto Clodasso, ivi s’accinge
l’uno e l’altro di lor tacito all’opra,
i più pigri e i lontan muove e sospinge,
e per tutto adempir l’ingegno adopra.
Ma la turba devota si dipinge
tale in cor lo sperar che vien di sopra,
che muove senza spron veloce il corso
ove credea trovar pace e soccorso.

La dolorosa Albina e Claudiana
con voler del gran re muovono il passo
sospirando fra lor la sorte umana
e ’l viaggio mortal gravoso e lasso,
e che la condizion regia e sovrana
non è sempre miglior che ’l viver basso;;
e ’n tai foschi pensier, con pochi a tergo,
si ritruovan condotte al properio albergo:

e montate di lui l’altere scale,
i suoi ricchi tesor truova ciascuna,
e quel che sia più degno e che più vale,
per discerner poi meglio, insieme aduna;
e l’esperte donzelle in opra tale
son chiamate al consiglio ad una ad una,
che in sua donnesca e semplice ragione
in mezzo pon la propria opinione.

Ma intanto d’ogn’intorno si vedea
delle donne apparir l’egregia schiera,
delle quai tutte accoglier cura avea
la vecchia Ormunda con la vaga Aldera
dentro al ricco palazzo, ove splendea
di mille statue d’or la corte altera;
e ’n seggi ricchi poi di sete e d’ostri
le faceano asseder per gli ampi chiostri,

dicendo poscia in bel pregar soave
e con dolci parole e pellegrine
che non venisse lor noioso e grave
d’alquanto ivi aspettar l’alte regine.
Ma la più giovin turba, che sempre ave
bramoso il cor di viste peregrine,
scolta d’ogni altra cura, andava intorno
riguardando il più bel del loco adorno:

ove dentro apparia la regia soglia
di ricchissime logge e d’atrii adorna,
non men lucenti ch’al buon tempo soglia
surgere in Tauro il sol quando s’aggiorna.
Le superbe colonne furo spoglia
del bel paese assiso in tra le corna
del gran Rodan famoso e di Garona,
ove al Gallico mar sedea Nerbona:

ch’allor ch’ella co i suoi nel sangue avvolta
della vita e de i ben nuda rimase
per la man visigota, e ’n cener volta,
come l’empio furor le persuase,
quella più integra parte indi raccolta
di pietre atte ad ornar le regie case
mandò a Clodasso il giovine Odorico,
che fu sempre de i suoi perfetto amico.

Eran d’egregio stil nel muro stese
del fero Stilicon le glorie antiche,
che per patria ebbe il vandalo paese
e le stelle al principio troppo amiche;
del gran seme del qual Clodasso scese,
ma dentro a regioni assai più apriche
di quelle onde i suoi fur, però ch’ei nacque
ove Linia e Duero insalan l’acque.

Lì Teodosio il grande si vedea,
che del nome roman reggendo impero
a gli estremi suoi giorni in man ponea
di Stilicon sotto l’arbitrio intero
il figlio Onorio, a cui lassato avea
de i liti occidentai lo scettro altero,
il qual poi giovinetto l’obbedìo
qual maestro onorato e padre pio,

sì ch’a sposar contento si conduce
la figlia Euchera, né di lei si sdegna,
ma d’appellar lei sola scorta e luce
de’ segreti pensier l’ha fatta degna.
Indi il suocero suo rettore e duce
si vede andar d’ogni romana insegna
contra il Gotico popol, che infinito
ingombrava d’Italia il nobil lito

sotto il furor del crudo Radagaso,
che fu il primo tra’ suoi di tanto ardire:
né di fame timor, né d’altro caso,
né l’Alpi o l’Appennin poté impedire
ch’ei non venisse ove in più altero vaso
vede il picciol Mugnon l’onda sua gire
tra i monti Fiesolani, ove a Fiorenza
guastò il nido gentil la ria semenza.

Tra l’aquile romane Uldino e Saro,
degli Unni duce quel, de i Goti questo,
si vedea tratto da disegno avaro
contra i medesmi suoi venir molesto:
ivi han serrato l’avversario amaro
in luogo a’ suoi disegni agro e funesto,
dentro apre valli, intra sassose strade,
ove con tutti i suoi misero cade.

Con l’abito ducale Stilicone
spronar si scorge e confortar le schiere,
ch’or al corno sinistro l’arme oppone,
or nel destro che vien percuote e fere:
in fin che interamente a basso pone
le minaccianti gotiche bandiere
e che tanti di lor vede per terra
che senza dubbio aver vinta è la guerra.

Il miser Radagaso ivi apparìa
che la veste real da sé spogliata,
senza compagni aver, ratto fuggìa
per deserta montagna a lui celeta:
ma il fa incontrar la sua fortuna ria
gente che di quei luoghi ammaestrata
sovra il giogo dell’Alpe asceso il prende,
e ’n man di Stilicon legato il rende;

il qual senza pietà la regia testa
del suo busto crudel fece privare,
e l’altro popol suo che ’n vita resta
per prezzo a servitù perpetua dare.
Poc’oltra si vedea non meno infesta
altra gotica insegna radombrare
dell’infelice Italia il seno aprico,
che ’n fortuna miglior segue Alarico:

al quale è Stilicon, non men ch’allora,
con la medesma gente a fronte gito.
Ma più lunga stagion con lui dimora,
or quel colle ingombrando or questo lito,
ché, senza l’arme usar, prolunga l’ora
con più torto pensier che forse ardito:
poi nel fin gli dà pace, e gli concede
d’Aquitania il terren per propria sede.

Né molti giorni poi che senza cura
vide il goto furor restarsi in pace,
nel silenzio maggior di notte oscura
che tra ’l sonno e tra ’l vin sepolto giace,
quel ch’all’aperto sol gli féa paura
tenta di far, ma il suo pensier fallace
mal conseguito al fin, dannoso e vòto
fu per l’alto valor del fero goto:

che in sì ostinato ardir gli batte il fianco,
che l’insidie scoperte in fuga volge.
Né poté Stilicon lo stuolo stanco
ritener più, che fredda tema involge;
così ’l suo disegnar venuto manco,
nel cammino onde venne si rivolge,
e vinto dal furor con ratto piede
la palma e ’l loco al gran nemico cede.

Poscia adunata ancor novella aita
d’altra guerra mortal si pone in pruova,
ch’assai men della prima al ciel gradita
più ch’ancor rotto e vinto si ritruova;
la cui calamità poi ch’ebbe udita,
oltr’ogni creder suo dannosa e nuova,
l’imperatore Onorio giovinetto
ch’ei gli sia disleal prende sospetto:

e senza cura aver del nome pio
d’esser suocero suo, né della figlia,
poi ch’appellato fu nemico e rio
con quel ch’amava in prima a meraviglia,
Euchero il figliuolo, acconsentìo
di far del sangue suo l’erba vermiglia;
ma il discreto pittor nell’aspra sorte
tutta colma d’onor ritrasse morte.

Poc’oltra si vedea soletto andare
per monti alpestri il fido Marialle,
e ’l picciolo Iraconso via portare,
d’Euchero figliuol, sopra le spalle
per l’ombre ascoso, e le giornate chiare
fuggir temendo e l’abitato calle,
tanto ch’al fin, come a fedel amico,
il pose in man del gotico Alarico;

che con paterno amore in guardia il prese
e ’l tenne infino al dì ch’abbatte e doma,
quasi al terz’anno, in sì crudeli offese
il seggio altero della nobil Roma.
Indi adornato di reale arnese
e di ricchi tesor con larga soma,
securo il manda nel paese ispano
ove regnava il vandalo Marano;

il qual, di Stilicon sendo cugino,
avea col suo favor tutto acquistato
degli alti Pirenei l’aspro confino,
e lo scettro tenea di ciascun lato:
che quanto alla Garona era vicino
dall’aquitano ocean circondato
in Gallia possedeva, e nella Spagna
ciò che il cantabro mare e Linia bagna.

Lì si vede il fanciul così nodrito
come uscito di lui, con somma cura;
poi di Clodia suoa figlia esser marito,
e d’acquistargli un regno assai procura:
tanto che de i Xantoni il fertil lito
con insidie e con forza a i Galli fura,
di cui fatto Iraconso eterno erede
dell’amata sua Clodia un figlio vede;

e ’n memoria di lei Clodio l’appella,
ma il Vandalo vulgar volse in Clodasso:
che poi crescendo per l’età novella
seguìo degli avi il glorioso passo.
Lì giovinetto ancor sopra la sella
d’un feroce corsiero or alto or basso
si vedea rivoltarlo, or sciolto il morso
a’ suoi caldi desir muoverlo a corso;

poc’oltra andar, poi che l’età fiorìa,
tra infiniti guerrier di ferro cinto
più inverso i Celti, e quanti truova in via
ha con pace acquistato o in guerra vinto:
né il gir vittorioso gli desvia,
né l’ha fatto più tardo o ’ndietro spinto
Ceranta, Seura, Lindro, Vienna e Cera
ch’e’ non meni il suo stuol vicino a l’Era;

ove poscia incontrò feroce intoppo
del famoso Boorte e del re Bano,
che ’l suo correr veloce stanco e zoppo
e ’l disegno orgoglioso rendeo vano.
Ma perché il suo potere era pur troppo,
e ’l soccorso di quei molto lontano,
in tra mille battaglie si vedea
che ’l valore alla forza soggiacea.
Si scorgean fra infiniti cavalieri

soletti l’arme oprar Bano e Boorte,
e sopra ogni uso umano arditi e feri
grande schiera di lor menare a morte.
Ma ’l numero soverchio de’ guerrieri
gli sforzò di tornar dentro alle porte
del grande Avarco, a cui d’intorno fanno
alle genti nemiche estremo danno.
Ma del continuo affanno e del digiuno

del lor popol fedel mossi a pietade,
ambo il lassar non nel silenzio bruno
che ’ntorno oscuri e cuopra le contrade,
ma nel dì chiaro, e ’n vista di ciascuno
per mezzo il campo lor si féro strade,
ove di sé lassar sì largo segno
che di questa memoria era ben degno.
Non lunge indi apparia Benicco e Gave,

l’un doppo l’altro poi, non men ch’Avarco,
da lor difeso in lungo assedio e grave,
delle stesse miserie intorno carco:
e ’n guisa di leon che nulla pave
che di cervi entri al dilettoso varco
si vede or questo or quel con morte o doglia
degli inimici suoi portarne spoglia:
né di quegli invidioso asconder volse

al famoso pittor la virtù loro,
ma fa che tutta aperta ivi la sciolse,
in pregiati color distesa e in oro,
perché tanto più in sé d’onore accolse
quanto fur più le lodi di costoro;
i quai di nutrimenti al fin privati
ambeduoi di lasciar furo sforzati:

ma innanzi al dipartir sì largo rio
là intorno fan dell’inimico sangue,
ch’ancor ne ’ngiunca il lor terren natio,
e ’l vincitor nella vittoria langue.
Voltan poscia il pensiero e ’l passo pio
verso il popol di Trible, tutto essangue
per la tema ch’avea, visto l’essempio
del passato per gli altri iniquo scempio;

e perch’era già innanzi provveduto,
e d’assai nodrimento era sicuro,
poi ch’han dentro e di fuor riconosciuto
se sia il fosso profondo o saldo il muro,
consigliati a cercar novello aiuto
dal gran re Pandragon padre d’Arturo
e dal re Varamonte dove bagna
l’aspro oceàn l’Armorica Brettagna,

lassando in man di Sergio, il quale allora
la lor vece reggea di quella terra,
con gente assai quanta al bisogno fòra
per sostenere in piè la lunga guerra,
partiti a pena, alla medesim’ora
il disleal la chiave, onde si serra
la porta del castel, manda a Clodasso,
e d’entrarvi co’ suoi gli spiana il passo:

il qual, per tormentar con nuovo affanno
da lunge i cavalier, la mette in foco.
E quei, mentre pensosi altrove vanno,
volgon la vista indietro, e d’alto loco
veggion di tutto il lor l’estremo danno
e come più sperar niente o poco
debban nel mondo, e con l’istessa sorte
l’uno e l’altro di lor desia la morte.

Né molto andò che ’n solitari boschi,
senza conforto aver di cosa alcuna,
tra i pastorali alberghi e ’n pensier foschi,
lamentando del cielo e di fortuna,
i miseri gustar gli ultimi toschi
di quella fera ch’egualmente imbruna
la chiarezza mortale, e fur sepolti
da rozze mani, e ’n bassa terra avvolti.

Di tai pitture dottamente ornate
intorno rilucean le regie mura,
in cui le giovin donne ivi adunate
mentre attendono ancor, ponevan cura.
Ma la coppia real mille fiate
in riguardo sottil cerca e procura
co i consigli fra lor che miglior sono
di trovar per la dea dicevol dono.

Quelli scelsero al fin che veramente
a lor degni parean d’onor divino;
trovò la madre candida e lucente
di chiarissime perle e d’oro fino
la vesta onde s’ornò primieramente
quando partì dal vecchio padre Albino,
che d’Olvernia fu re, da quel disceso
che già resse del mondo il terzo peso:

da quello Albin che in Gallia imperadore
per le man di Severo oppresso giacque
non per fortuna men che per valore,
ove il Rodano e Sona assembran l’acque;
di cui ’l picciol figliuol fuggì ’l furore
dentro a i monti Cemeni, ove alfin piacque
al ciel che conosciuto oltra molti anni
fosse ornato da’ suoi di regii panni;

da cui di prole in prole il quinto venne
il suocer di Clodasso, a lei parente,
che fregiato d’onor lo scettro tenne
con giustizia e pietà fra quella gente,
e la figlia e ’l suo genero mantenne
in piè contra ogni assalto che sovente
e di dentro e di fuor gli sentia mosso,
che del regno acquistato non fu scosso.

la nuzzial sua gonna adunque elesse,
già di tal padre don, la pia regina.
La bella Claudiana dall’istesse
sue man tutto ripien d’opra divina
elesse un velo, in cui le stelle impresse
erano, e ’n mezzo il sol ch’alto cammina
riscaldando sereno al mezzogiorno
del suo friseo monton l’erboso corno.

Non molto dietro a lui l’alma sorella
con la fronte falcata in Tauro assiede:
di Giove ha innanzi la benigna stella
che ’n tra gli umidi Pesci ha dolce sede;
seco ha la figlia, che ridente e bella
di pie fiamme d’amor gli animi fiede,
e l’alato corrier con la sua verga
lieto di tale onor fra loro alberga.

Nel fondo estremo alla contraria parte,
vicin dove la terra ha maggior l’ombra,
nel frigido Scorpion si vedea Marte,
che con vista mortal nessuno adombra.
Quel che divora i figli era in disparte,
che l’adeguante Libra di sé ingombra,
e ’l punto oriental nell’orizzonte
ha del Nemeo Leon la prima fronte.

In tal guisa adornato il ricco velo
sì lucente apparia di gemme e d’oro,
che poco il vero sol, le stelle e ’l cielo
avanzavan d’onore il bel lavoro:
che già molti anni pria con sommo zelo
di placar per tal modo il divin coro
le mostrò tutto il saggio Clitomede,
che l’infelice fin di tutto vede,

dicendo a lei: “Poi ch’uom mortal non puote
a sua voglia temprar l’eterne stelle
che rivolgon lassù l’eterne rote,
a chi fide compagne, a chi rubelle,
le più amiche virtù ch’a noi son note,
quant’è il nostro poter, sien poste in elle
per la vergine vostra e real mano,
pregando il ciel che non s’adopre in vano;

e ’l giorno poi di vostre nozze altere
sopra il letto real per voi si stenda
con voci umili e fervide preghiere
che ’l ciel simile a questo il corso prenda
e ’nsieme accordi le sublimi spere
eguali al vostro velo, onde discenda
tal favor sopra voi, sopra lo sposo,
ch’eterna sia de i due gloria e riposo”.

Di tutto l’obbedìo la regia figlia,
e con bramosa man l’addusse al fine,
di lui destando invidia e meraviglia
tra le proprie donzelle e le vicine.
Poi nel dì nuzzial, tutta vermiglia
nel volto, ove splendean le bianche brine,
di pudica vergogna e di desire,
il letto genial ne fé covrire.

Or questo prende allor, né solo il volse
per placare e ’nvocar l’altera dea,
ma l’onorato scudo seco accolse
ch’all’albergo vicino alto pendea:
quel che ’l suo Segurano in guerra tolse
allor che ’l regno suo gli contendea
il famoso d’Irlanda Lamoralto,
di cui fu vincitor nel fero assalto;

e fu il consiglio pur di Clitomede,
ch’a lei disse: “O regina, questa spoglia
fia carissima a Palla, come erede
di quanto armata mano acquistar soglia;
e s’a i consigli miei darete fede
n’adornerete ancor la sacra soglia:
e ’l merta ben, poi che col suo favore
acquistò ’l vostro sposo il largo onore;

perché dicendo un giorno a Segurano
suo padre illustre Galealto il Bruno:
- Se sperate figliuol, sperate in vano
coronarvi per me di regno alcuno,
che non d’altrui che dell’istessa mano
aspettar possession debbe ciascuno
d’alto legnaggio uscito come voi,
e come han sempre fatto i nostri e noi.

Della famosa Gallia una gran parte
refutò Febo, l’avo mio paterno,
che scettro aver che da’ suoi primi parte
non stimò degnità, ma indegno scherno;
poi sette regni col favor di Marte
acquistò solo, e fé il suo nome eterno
trall’Orcadi, tra l’Ebridi e ’n Brettagna
e dove il cimbro mar la Daunia bagna,

ma di tutti a i più cari fu cortese,
e l’onor si serbò solo, e la spada:
né, mio padre e suo figlio, ad altro intese
Ettore, che seguìo l’istessa strada.
Il medesmo oggi fa Giron Cortese,
vostro proprio german, quantunqu’e’ vada
di molt’anni a voi innanzi, e pure è nato
del Franco seme il suo materno lato;

e di quello e di noi tutt’altra aita
schivando, e le ricchezze, intorno solo
rivolge il passo ove l’onor l’invita,
or dov’arde più il sole, or verso il Polo;
e per l’afflitta gente e sbigottita
or abbatte quel regno or questo stuolo,
e portando di lauri antiche some
cela quanto altrui può l’invitto nome.

Or seguendo, figliuol, sì nobil’orme,
fate che d’esser voi vi risovvegna,
né smarrite di voi l’antiche forme
d’oprar cosa di quelle e d’onor degna.
Fuggite de’ vulgar l’abbiette torme
e la scuola de’ più, che solo insegna
il posseder quaggiù terreno ed oro,
della gloria sprezzando il bel tesoro -.

Da tai detto racceso, e di tal padre,
il giovin Seguran, ch’ardeva in prima
d’alto desir dell’opere leggiadre,
brama di tutti quei salire in cima:
e congiunte de’ suoi più ardite squadre,
e le quali a virtù più intese stima,
con pochi legni al più gelato verno
drizza le prore lor nel lito iberno;

e col favor di Pallade, che gli era
sempre in ogni consiglio amica e fida,
ruppe al primo arrivar possente schiera
che di farlo fuggir seco s’affida,
essendo ei tutto sol nella riviera
del Boando disceso, ove s’annida
col mar che lassa in ver Boote alquanto
il promontorio alpestro di Novanto,

ove gli altri suoi legni risospinti
fur dall’onde scendenti all’ora sesta,
né poter seco in guerra essere accinti,
ned ei per tutto ciò ferir s’arresta.
Così questi primieri ed altri vinti,
in sue forze il terren quel giorno resta.
L’altro poi Lamoralto e nuova gente
il viene a rincontrar, che i danni sente.

Ma in questo la smarrita compagnia
nello spuntar del giorno è posta in terra,
la quale aggiunta al gran valor di pria
non avea dubbio alcun la nuova guerra.
Ma Lamoralto il fero alto s’udìa
dir contro a lui: - Quanto vaneggia ed erra
che si fida d’altrui che di se stesso,
come la pruova poi gli mostra spesso!

Se voi sète il possente cavaliero
che vorreste parer con l’arme in mano,
sia posta la question di questo impero
tra Lamoralto solo e Segurano:
né s’ingombre il terren d’altro guerriero
né si faccian perir le genti in vano.
Quanti compagni aviam, restin da parte,
e sol venga con noi Bellona e Marte -.

Il vostro Seguran, ch’altro non brama,
patteggiando a battaglia si conduce,
ove uccise il signor di altera fama,
ottimo cavaliero e sommo duce.
Allor l’isola tutta allegra il chiama
suo vero imperador, sua chiara luce;
e l’ha con tale amor poscia ubbidito
qual mai fosse altro re per altro lito:

e l’argentato scudo ch’esso avea
col purpureo leon che quinci appare,
fia per memoria all’onorata dea
dell’opre illustri e delle glorie chiare
dell’alto Seguran, perché più rea
non gli voglia giamai fortuna dare,
ma miglior tutto il giorno, acciò che poi
la possa incoronar de i pregi suoi”.

Così la bella donna ha posto in mano
della vergine Onoria sua donzella
questo candido scudo che già in vano
difese Lamoralto in su la sella;
a Lamia diede il vel dove in sovrano
lavor Febo lucea con ogni stella:
poi tenendo alto il core e gli occhi bassi
della madre seguìa gli antichi passi,

la quale avea la gonna preziosa,
che poco a lei davanti era portata
da Marzia antica, che per madre ascosa
del suo medesmo Albino era già nata.
Scendon nell’ampie logge ove si posa
delle matrone poi la schiera ornata
che dentro Avarco avea più nobil sede,
di chiara pudicizia illustre erede.

Così sen va l’onesta compagnia
verso il tempio divin tacita e mesta.
Del sacro limitar le porte aprìa
Silvia, l’alta vestale, in bianca vesta;
poi tutto il casto coro la seguìa,
che ’n dolci note di laudar non resta
la dea che senza madre uscì di Giove,
quella che ’nfonde il senno e l’arme muove.

Ivi, poi che condotte a i divi altari
fur la vecchia regina e l’alma figlia,
presentando i bei don lucidi e cari
mosser le donne e ’l tempio a meraviglia;
poscia in caldi sospir grevi ed amari,
tenendo fisse pur l’umide ciglia
nell’imagin divina in alto assisa,
disse Albina per tutte in questa guisa:

“Sacrata dea ch’al gemino valore
sovr’ogni altro lassù l’impero stendi,
trai dal lungo periglio e dal timore
il tuo misero Avarco, e noi difendi;
e col Franco il Britannico furore
dal tuo gran Seguran sepolto rendi
e dal tuo buon Clodino e Palamede,
per quella che ’n te aviam secura fede”.

Qui finito il pregar l’alta regina,
l’alma figliuola sua con l’altre insieme
raffermando il suo dire a terra inchina
l’addolorata fronte, e piange e geme:
voti faccendo a sua virtù divina
che sciolto ogni timor ch’allor le preme
nuovi doni offriran larghi e devoti;
ma giro i preghi lor d’effetto vòti.

Or già l’antico re dall’alto sito
onde veder potea l’orribil guerra
tornato era all’albergo, e ’n parte gito
che i più cari suoi beni a gli altri serra.
seco ha sol due scudier, Mastore e Clito,
che sovra gli altri amò, che nella terra
già vandalica nati da i primi anni
gli fur sempre compagni a i lunghi affanni,

e ’l suo fido Medonte, che le chiavi
di quanto è il suo migliore in man tenea,
e ’n tutte aspre fortune e casi gravi
mai sempre il pio signor seguito avea;
e quantunque l’età le forze aggravi
e lo stanchi talor, non s’arrendea,
che, mal grado di lei, pur ancor vuole
l’uficio essercitar che giovin suole.

Poi di tutti il primiero ha il re Vagorre,
senza il qual mai non è dovunqu’e’ vada;
né saprebbe un vestigio in terra porre
s’ei non sia dolce scorta alla sua strada.
Sol gli puote i desir legare e sciorre,
render foschi e seren, come gli aggrada:
perché tanta ave in lui speranza e fede
che sol con gli occhi suoi discerne e vede.

Con questi quattro adunque ivi entro andato
e serrata di fuor la molta gente,
truova ampissimo il loco, e circondato
di mille gradi e mille ornatamente:
l’un sopra l’altro in tal misura alzato,
che lassando il cammin che agevolmente
doni spazio all’andar di chi va intorno,
resti a quel ch’ivi sia largo soggiorno.

In bei serici drappi erano stesi
e con ordin leggiadro in sé distinti
ivi gli aurati, vaghi e ricchi arnesi,
qui i tessuti di seta e d’ostro tinti.
Sovra quei poscia in alto erano impesi
gli stendardi e ’ trofei de i duci vinti,
ivi l’armi pregiate, ivi la maglia
di cavalieri e re presi in battaglia.

Poi in cima a tutti gli altri rilucea
dell’avo Stilicon lo scudo altero,
ove in purpureo campo si vedea
quell’uccel ch’ha nell’aria il sommo impero
che in argentata mano umil sedea
con laccio aurato a i piedi, e ’l guardo fero
vèr lui basso torcea, doglioso e schivo
della sua libertà sentirsi privo.

Nè lunge era da quel l’insegna antica,
mille volte spiegata in aspre guerre
or dell’etrusco sen nell’aria aprica
or sotto l’Alpi e nelle insubrie terre,
ove una donna appar che ’n vista amica
un feroce leon mostra che sferre,
le catene spezzando ond’era stretto,
mentr’ei dolce le bacia il bianco petto.

Di cangiante colore ornata er’ella,
il leon d’oro, e tutto l’altro oscuro.
Lucea sovr’essa minacciante e fella
e mischiata in color di sangue impuro
con lunga coma una crinita stella
che traeva il velen dal freddo Arcturo.
Poi con l’altre arme sue pendea vicina
di tempra singular la spada fina;

e tutte queste al gotico Alarico,
già di Roma infelice possessore,
fur mandate da Onorio, il gran nemico,
con mille altri bei don carchi d’onore
poi che intese Placidia in sì pudico
stato esser seco e ’n sì fraterno amore,
l’alma sorella sua, che ’n sangue e ’n doglia
del barbarico stuol divenne spoglia:

e poi quando inviò nel lito ispano
il goto imperador di Stilicone
il giovincel nipote al suo Marano,
questa insegna e quest’arme anco ripone
tra i tesor che gli dà, perché lontano
riguardandola spesso aggia cagione
di rimembrar che sia del sangue sceso
già dal popol roman sì forte offeso.

Poc’oltra avea dell’aquitane prede
del suo padre e di sé larghi trofei.
Del santonico Zeto ivi si vede,
eterno testimon de i pianti rei,
lo scettro appeso e la real sua sede,
mal custodita allor da i primi dei:
perché ’n lavor di gemme ornato e vago
di Giove e di Giunon vi avea l’imago.

Del petragorio Arato, ch’avea il regno
ove tra i monti ha il corso la Dordona,
apparia de’ gran danni altero pegno,
perché v’era il suo scudo e la corona.
In quel de’ suoi dolor portava segno,
in cui fero destin cader lo sprona,
ché di fosco colore il campo tinto
tutto di bianche lagrime era cinto;

questa di ricche gemme e varie ornata
di forma imperial surgeva in alto,
perché ei dicea che la sua stirpe nata
era di quei del magno Galealto,
nella pia region che fortunata,
fuor di caldo e di giel soverchio assalto,
i più antichi appellaro, e d’indi poi
stese in quella provincia i confin suoi.

Poi del re de i Pitton nomato Ibero
le militari insegne eran sospese,
ove in vermiglio seno un grifon nero
gli aspri artigli mostrava e l’ali stese.
L’elmo ch’un bianco cigno ha per cimiero,
assiso sta sopra il dorato arnese;
lo scudo è in basso, ove un lucente sole
nutre al verde terren rose e viole.

Mill’altre spoglie poi di duci e regi
veston tutto d’intorno il ricco loco,
che ’n memoria ivi son de i fatti egregi,
che sempre luceran d’illustre foco.
Or quei tanti trofei, quei tanti pregi,
a i quai sol riguardar sarebbe poco
d’un sole intero il corso, il re Clodasso
fanno in dubbio restar pensoso e lasso.

Pur doppo assai parlar col re Vagorre
e con gli altri suoi tre che con lui sono,
dispone al fin che sia ragion di porre
all’imagin di Marte il terzo dono,
e che d’essi il primier si debba tòrre
quel che diede il principio all’alto suono
del suo giovin valor, nel primo giorno
che ’n guerra uscisse mai dell’arme adorno;

Fosse il secondo poi quel ch’all’etade
più perfetta gli venne, e fu il maggiore,
allor ch’ei non tenea di mille spade
che intorno avesse il periglioso orrore;
l’ultimo quel ch’all’onorate strade
trovò l’albergo quando imbrunan l’ore
verso il torbido occaso, ove il noioso
già passato cammin chiede riposo.

Così prender comanda di Tarsano
l’acquistate da lui reali spoglie
allor che il vecchio vandalo Marano
giovinetto il nutria fra le sue soglie.
Venne costui dentro al terreno ispano
seguendo d’Urien l’altere voglie,
il fero Alan ch’al regno suo Numido
volea giunger ancor d’Iberia il lido;

e ’l dì che trasse a fin la lunga guerra
e privò gli Affrican d’ogni altra speme
stese morto Tarsan sopra la terra
di Clodasso la man che nulla teme:
tal che ’n tutto il paese che si serra
in tra ’l Tago e ’l Duero e l’onde estreme
del Lusitanio mar ne corse il nome,
e di lauro gli ornò le bionde chiome.

Or tolse di costui la spoglia opima,
che ’l forte scudo avea di color perso,
nel cui piegato sen verso la cima
una falce splendea d’argento terso:
sott’essa eguale a lei ruvida lima
d’una dorata incude era al traverso,
che ’l seggio tien sopr’arido terreno
di secca erba segata intorno pieno.

Fu ’l secondo suo don d’Eliadello
re dei Nortombri allor l’arme e l’insegna,
ch’ei vinse e spense al nobile duello
ove ’l fertil terren Garona segna
quando ’l popol miglior fatto rubello
per dovuta cagion di lode degna
s’armò contra il Rosmundo visigoto
di pietà insieme e di giustizia vòto:

ché Clodasso di lui venne in aita,
e dell’afflitto stuol fu l’altro duce.
Un grande scoglio avea di calamita,
che ’l ferro di lontano a sé conduce,
l’insegna, alla sembianza colorita
del più tranquillo mare ove il sol luce:
d’oscura tempra e d’alleggrezza ignudo
splendea d’ardente folgore lo scudo.

Fur quelle d’Escanor della Montagna
per offrir al gran dio l’ultime spoglie,
ch’al santonico lito, ove ’l mar bagna,
di Clodasso assalìo le patrie soglie
già nel tempo canuto ove accompagna
la mente il senno, e ch’alle membra toglie
il già stanco vigor, non però tanto
che del primiero ancor non resti alquanto:

come avvenne al gran re, cui già vicina
co’ gravosi suo’ incarchi la vecchiezza
non fu tal sopra lui donna e regina
che ’l dispogliasse ancor d’ogni fortezza;
ond’ei sospinge all’ultima rovina
il giovine Escanor che non l’apprezza,
e con quel brando il pose morto a terra
che mai più doppo il dì non strinse in guerra.

Del grave scudo suo, che candid’era,
un nero crocodillo il mezzo imbruna.
Chiudeva in sen la verde sua bandiera
sopra squarciate ruote la fortuna:
dietro e davanti una celeste spera
ove oscurare il sol facea la luna;
nelle spalle e nel petto avea l’arnese
in tra picciole stelle in giro accese.

Doppo questi tre don, di fino acciaro
e di ferro novel peso infinito,
che di quanto mai fu più illustre e chiaro
avea fatto venir di più d’un lito,
come al possente Marte amato e caro
e più ch’argento ed or da lui gradito,
sopra possenti carri ordine diede
che seguisser di lui l’elette prede,

con cinque alti corsier ch’aveano il pelo
del vello del lion più oscuro alquanto,
nati e nodriti sotto al tracio cielo
che ’l valor marziale onorò tanto,
e ch’avean di Strimon bevuto il gielo
ove de’ suoi fratelli ha Borea il vanto.
Poi che tutto è disposto, esso s’invia
con l’onorata e nobil compagnia,

perché tutte già intorno eran ripiene
d’antichi cavalier le altere soglie,
ché ciascun quanto può veloce viene
divoto in adempir le regie voglie.
Passa innanzi la turba che sostiene
con sollevata man le offerte spoglie;
dietro lor segue poi la lunga schiera
dell’eletto drappel che venut’era.

Doppo gli ultimi tutti è il re Coldasso,
tra ’l domestico stuol di ferro avvolto;
e ’n vista di dolor movendo il passo,
reverendo il facea l’abito incolto.
Or torna or va chi fa largare il passo
del riguardante popolo ivi accolto.
Poi che giungon del tempio alla gran porta,
il piè ferma ciascun che i doni apporta;

e con la istessa forma d’ogni lato
si dividon fra lor, lassando strada
a chi lor dietro vien, che riservato
tutto l’ordin primiero, ivi entro vada.
All’arrivar del re, di mitra ornato
e sostenendo in man la sacra spada,
con la porpurea stola infino al piede
si fa incontra il gran vate Clitomede,

e con altri onorati sacerdoti
in basso mormorare umil l’accolse:
e per nome di Marte i doni e i voti,
e ’n vero onor di lui lieto raccolse.
Poi che locati fur, gli occhi devoti
in sembiante pietoso al ciel rivolse,
tenendo al re sopra la bianca testa
la spada e ’l lembo della sacra vesta;

indi così dicea: “Possente figlio
di Giove universal, di tutto il padre,
com’ei col tuo valor pose in essiglio
di Pelio e d’Ossa le superbe squadre,
così d’Euro e d’Oron faccian vermiglio
col favor sol dell’opre tue leggiadre
il tuo caro Clodino e Segurano
de i nemici crudei l’erboso piano”.

Qui tacque, e per la man poscia il conduce
ov’è sopra l’altar l’imago altera,
cui da lampadi ardenti innanzi luce
d’atro piceo color la fiamma fera,
e di quel re già ucciso e di quel duce
di spoglie ha intorno sanguinosa schiera.
Ella in sembiante è tal, che sol la vista
rende la mente altrui pavida e trista.

A quella il vecchio re tutto tremante
con le ginocchia inchine alto dicìa:
“O sommo dio che di vittorie tante
ornasti questa man mentre fiorìa,
or che debil s’arrende, le tue sante
luci rivolgi alla fortuna ria,
che sentendomi giunto all’ore estreme
con ogni suo poter m’abbassa e preme.

Drizza inverso di lei le tue chiar’arme,
mostra che contro a te niente puote;
e voglia il tuo valor dritto salvarme
dal gravissimo peso di sue ròte.
E s’io posso per te mai liberarme
né le preghiere mie ritornin vòte,
di tutto il mio tesor la quinta parte
prometto al tempio tuo, possente Marte”.

Non pòte altro più dir, che ’l pianto e ’l duolo
gli contese all’uscir la voce stanca.
Tacito adunque col suo amico stuolo,
a cui tema e pietà la fronte imbianca,
all’albergo tornando, incontra il volo
dell’aquila in cammin dalla man manca:
e perché il gran desio la mente appanna
ch’ei venga in suo favor se stesso inganna.