Avarchide/Canto VIII

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Canto VIII

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Canto VII Canto IX

 
Sì tosto come avvien ch’al grande Arturo
le sollecite orecchie ripercuota
del re Lago e de’ suoi lo stato oscuro
e l’aspra fuga di speranza vòta;
fa che ’l re Caradosso il bianco e puro
bel vessillo reale al vento scuota,
e le sonore trombe in quella parte
sveglin dal nido suo l’invitto Marte:

e de’ suoi cavalier l’ornate squadre
che nell’aperto campo avea distese
vien tutte rivedendo, e qual pio padre
lor rinfresca d’onor le voglie accese,
dicendo: “Or vien dell’opere leggiadre,
alle quei sempre aviam l’anime intese,
la stagion convenevole, da poi
ch’ogni estremo rimedio è posto in noi.

Ben potete veder ch’or sola giace
la salute comune alla man vostra,
che, se fia del valor ch’a lei conface,
la vittoria e la gloria in tutto è nostra.
Ora a quel sommo onore e ben verace
che la grazia di Dio n’alluma e mostra
andiam con lieto cor, seguiam l’insegna
che ’l celeste sentier con l’orme segna”.

Così detto a ciascun, posato e tardo
ben fra lor agguagliato il passo muove,
infin ch’all’avventar di lancia o dardo
viene ove Seguran fa l’alte pruove.
Indi come cervier, leone o pardo
che la preda affamato in selva truove,
la polve infino al sol destando in alto,
sprona il corso veloce al fero assalto.

Il romor de’ destrier, dell’arme il suono
nell’oscuro sentier che non appare
sembra all’autunno il tempestoso tuono
che sopra il fosco ciel si sente andare,
spaventando color che carchi sono
di pensier crudi e d’atre colpe amare:
poscia in ardente folgor si converte
che le gelati nubi ha intorno aperte,

e con mortal fragor girando scende
ov’han l’ombra maggior gli eccelsi monti,
ch’or’Ossa o Pelio, or Appennino offende
ove d’Arno e di Tebro escon le fonti:
Or l’alte torri or col furore incende
de’ sacri templi le famose fronti,
or degli arbor più antichi abbatte e doma
il piè, le braccia e la cangiata chioma.

Con sembiante furor di notte avvolta
a ferir vien quest’animosa schiera,
rïempiendo d’orror quel che l’ascolta
ma più chi lei schivar, lasso, non spera:
giunge ove Seguran con gente folta
l’attendeva orgoglioso e ’n vista fera,
e s’ha d’aste e di scudi fatto schermo
quanto può contro a lor sicuro e fermo.

Ma non ha il mondo forza che sostegna
di tante lance, e tai l’estrema possa:
tal ch’in un punto sol la regia insegna
fa di mille guerrier la terra rossa,
che nessun resta in piè là dove segna
d’esso colpo primier l’aspra percossa,
né sol quei ch’ivi fur, ma molti poi
dal medesimo urtar cadder fra’ suoi.

Passano oltra i destrieri, e mille ancora
premendo van sotto il ferrato corno:
quasi simili a quei che traggon fuora
della spoglia il frumento al caldo giorno,
quando il villan co i fren saldo dimora
del loco in mezzo, e fa girarse intorno
di giumente o di buoi l’elette torme
che l’arido suo vel tritin con l’orme.

Rotta la lancia poi, si reca in mano
ogni buon cavalier la grave spada,
e con quella da presso e da lontano,
ove spinga il caval, s’apre la strada:
tal che più d’un guerrier che sia sovrano
convien per opra lor ch’a morte vada,
oltre alla turba abbietta ed infinita
che tra gli urti e ’l furor lassa la vita.

Uccise il gran re Arturo Cinofonte
congiunto amato di Brunoro il Nero,
nato in Usfalia alla gelata fronte
ove al cimbrico mar volge Visero:
di sangue illustre e di ricchezze conte
sopra molti vicin teneva impero,
saggio nel consigliar, nell’oprar forte,
e l’onore e ’l valor gli erano scorte;

le quali ad aspettar soletto a piede
l’obbligaro un tal re di tanto nome:
che d’alto allor sopra la fronte il fiede
e di sangue gli empie l’elmo e le chiome;
e della sua virtù venne a mercede
lo scarcar l’alma di terrestri some
per la più chiara man che fosse allora
dal mar d’Iberia a’ liti dell’aurora.

Il nobile e famoso Childeberto,
l’alto erede primier di Clodoveo,
quantunque giovinetto e poco esperto
diede aspra morte all’infelice Argeo:
che nacque ove più mostra il fianco aperto
ver la Cantabria il salto Pireneo,
che sposò di Verralto la sorella,
nell’età sua ciascun fiorita e bella;

e ’l privaro in quel di le stelle infide
dell’alma e della fiamma ond’egli ardea,
che dalla destra spalla gli divide
il braccio che la spada sostenea.
Cadde il miser chiamando le sue fide
genti in aita, che ben lunge avea;
e lo spirto che breve in lui dimora
dal premer de’ cavai fu tratto fuora.

Clotario uscito dal medesmo Franco
a Melanippo il rio la vita toglie,
nato in Pomeria, ove le bagna il fianco
con l’onda Ortelo che le nevi accoglie:
questi del padre suo canuto e bianco
rendeo sanguigne le sacrate soglie,
perché il fratel, che di lontana sede
devea tosto tornar, non fesse erede.

Or per quell’empio cor, ch’a fabbricare
il pensiero infernale era stat’oso,
la giustissima spada oltra passare
fé in fino al dorso il giovine famoso.
Né Clodamiro il frate vuol mostrare
d’esser manco de’ duoi d’onor bramoso,
come il quarto con lui Tëodorico
d’esser men di virtù che gli altri amico.

E così questi due congiunti in uno,
non lunge molto all’onorato Arturo
che qual padre provvede che ciascuno
sia di lor ben guidato e ben sicuro,
truovano insieme Ifito e Cromio il Bruno,
fratei borgondi, e non di sangue oscuro,
ma cugin di Clotilda, che già feo
questi quattro figliuoi di Clodoveo:

ma le parti seguian di Gunebaldo,
che di lei il padre Chilperico uccise;
né il legame fraterno intero e saldo
al desio di regnar termine mise.
Or questo unico par sicuro e baldo
gli incontrati nemici si divise:
Clodamiro percosse in fronte Ifito,
e ’n fin fuora la gola è il colpo gito;

ferito è Cromio nel sinistro lato
dal buon Tëodorico, e posto a terra.
Indi truova Agraveno il forte Acato,
che tra’ suoi pochi pari aveva in guerra,
nel natio regno intorno circondato,
come invitta città muraglia serra,
dalla frondosa Ercinia, e poco meno
era in Praga onorato che Drumeno.

Gli trapassò la gola nel traverso,
e di lei l’aspra fistula divide.
L’ardito Gargantin, Dolone il Perso
della patria medesma seco uccide:
che di sangue infinito il petto asperso,
biasmando il ciel ch’a quella sorte il guide,
rotando gìo come in sospesa piaggia
suole il secco troncon che spinto caggia.

Il cavalier famoso di Norgalle
che tra’ miglior guerrieri il mondo stima,
che quelli avea della Lomunda valle
che ’l Grampio adombra con l’altera cima,
nel petto fere, e ’l passa oltra le spalle,
Ofeleste, che tien la gloria prima
nel possente luttare, e fu il più chiaro
del terren, che contien Rodano e Varo;

ma non gli valse allor contra la spada
del nobile e fortissimo Britanno,
ch’abbattuto convien ch’a basso vada
avendo de’ mortai l’ultimo danno.
Segue costui per la medesma strada
l’Iberno Cebrïon con meno affanno:
perché nel cor da Ganesmoro aggiunto
senza doglia sentir muore in un punto.

Malchino il grosso, ch’a i Giganti sembra,
incontrò di Sassonia Polemone,
che smisurata forza anch’egli assembra
più d’altro assai di quella regïone:
per tutto ciò con le possenti membra
d’un colpo nel cimiero a terra il pone,
e sonò nel cader l’armata spoglia
come d’eccelso pin rovina soglia.

Fece il medesmo il nobile Gerfletto
a Reso il Provenzal, ferito al fianco;
Polibo poi con larga piaga al petto
resta battuto da Finasso il bianco.
Landone il destro, tra i miglior perfetto,
il cui sommo valor non fu mai stanco,
con la punta mortal del fero brando
pose il miser Cisseo di vita in bando.

Non resta indietro il saggio Talamoro
con la doppia virtù ch’ha in guerra, e ’n pace,
ch’uccise Ileo, come il cugin Mandoro
spento il miser Coon di spirto face;
e per man del ricchissimo Arganoro
della testa privato Emonio giace,
quel che nato tra’ Gotti Orïentali,
pochi al fero suo cor trovava eguali.

Doppo costor Bralleno ed Amillano,
Taurino, i frati e Melïasso il bello,
il Brun, quel senza gioia, ed Urïano
con l’altro invitto e nobile drappello
ne i suoi nemici insanguinò la mano,
e fece sopra lor largo flagello:
né l’un mai più dell’altro apparia lasso
e d’una riga egual moveano il passo;

come doppo l’april si pòn vedere
gli accorti mietitor per gli ampi prati
dipartirse fra loro in lunghe schiere
e ’n drittissimo fil gire agguagliati,
poi nell’ordin medesmo far cadere
gli arditi fien per terra riversati
con l’adonche sue falci: e ’n cotal forma
d’Arturo ivi apparia l’egregia torma.

Ma il fero Seguran però non manca
di mostrar la virtude ond’è ripieno:
sostien la gente spaventosa e stanca
e raccende il valor ch’ha spento in seno;
or nella destra parte, or nella manca
s’avventa, come il folgore o ’l baleno,
or tra i nemici in mezzo si vedea
or dietro a tutti i suoi, che gli spingea.

Quale invitto nocchier, che da tempesta
perigliosa sorpreso esser si vede,
ch’or col fischio or col grido mai non resta
e nel suo cominciar tosto provvede,
ch’allenta e tira or quella corda or questa
com’or dritto o traverso il vento fiede,
e secondo il furor che il legno assale
cresce o tarpa di lui le candide ale:

ma poi che ’l suo sentier sente che sforza
d’una sol parte l’Austro o l’Aquilone
con bassissime vele alla sua forza,
tutto romito in sé, la prora oppone,
volge il timon contrario e stringe l’orza
e di non travïar la cura pone,
che se ’l cammin che intende gli sia tolto
d’avanzar per allor, no ’l perda molto;

tale il gran Seguran, poi ch’al furore
che improviso sorvenne è in piè rimaso,
rinforza il tutto poi dentro e di fuore,
che possan contrastare ad ogni caso.
Con l’aste i suoi guerrier di più valore,
che di Connacia avea verso l’occaso,
pon nella fronte, e di lor duce feo
il suo più chiaro amico, il forte Alceo;

quei dell’Ultonia pose alla man destra
sotto il signor di Persa Banduino;
gli altri, ch’ha di Laginia, alla sinestra,
ove il fiume dell’Euro avea vicino:
questi alla guerra intrepido ammaestra
Mogarto il biondo col fratel Sabrino;
quei di Momonia stende alle sue spalle,
e duci han Terrigano e Morrialle.

Come ha ben provveduto Segurano,
e le forze addoppiate in ogni lato,
già di tutto a Clodin la cura in mano
ed a Brunoro il Nero avea lassato;
e col Nero perduto e con Rossano
sopra un alto corsiero era montato,
per gir con arme egual verso quel loco
ove Arturo accendea l’ardente foco.

In questa ecco arrivar di sudor carco
il più onorato araldo di Clodasso,
il saggio Ideo, che lì venìa d’Avarco
mandato a Seguran con ratto passo;
e gli dice: “Signor, se in alto varco
vi sollevi oggi il cielo, e spinga in basso
Arturo, il nostro re prega che vui
lassando ogn’altro affar vegniate a lui,

per cosa appalesar che molto importa
allo stato comune, e molto preme;
e d’altro tanto il supplica e conforta
la consorte real, la figlia insieme:
e meniate con voi la cara scorta
del famoso Clodin, lor somma speme;
e ’l vostro dimorar sì breve fia
che danno indi nessuno uscir potria”.

Mentre ascolta il guerriero, il dubbio core
sente in mille maniere entro cangiarse:
muovelo il suo gran re, muovel l’amore
della sposa gentile ond’arde ed arse;
d’altra parte il ritien l’ira e ’l furore
e l’ardente desio di vendicarse.
Pur dispon d’ubbidir, vedendo pure
di lassar le sue schiere assai secure;

e chiamato Clodin gli dice: “Frate,
ov’è ’l nostro gran re, gir ne conviene,
come Ideo vi dirà: però lassate
a Brunor, che di voi vece sostiene,
che con riguardo pio, fin che torniate,
provveggia intorno, ove il bisogno viene”.
Così fece egli, e mossero indi il piede
inverso la real d’Avarco sede:

ove schiera infinita innanzi accorre
di donne, vecchierei, di turba inerme,
pregando il cielo e quei di fine imporre
a i gran perigli di lor vite inferme.
Vanno oltra poscia, e sovra una alta torre
di gran mura ricinta antiche e ferme,
onde aperto veder si puote in basso
ciò che ’l campo facea, trovan Clodasso:

che con Albina sua, l’antica sposa,
e con l’amata figlia Claudïana
stava a mirar con l’anima dogliosa
de’ suoi ’l valor contra la gente strana;
e perché avean già scorta la famosa
coppia che per venir movea lontana,
insperata non giunse, ma sì cara
che lor fece addolcir la cura amara.

Stringe il tenero padre il giovin figlio,
e ’l valoroso genero indi abbraccia;
la madre pia con lagrimoso ciglio
appellando ambedue stende le braccia;
la vaga sposa avea d’un bel vermiglio
d’intorno ornata l’amorosa faccia,
né sa che farse e ’n lei combatte insieme
la vergogna e ’l desir, che punge e preme:

ma con tremante cor tacita attende,
e del paterno amor si lagna omai
che sì lunga ora in ritenere spende
chi più degli occhi suoi tien caro assai.
Ma il suo buon Seguran, che solo intende
di rivolger la vista a i dolci rai,
sì tosto come puote indi si scioglie
e l’onesta consorte lieto accoglie:

da cui di dolci lagrime bagnato,
senza parola udir, tutto si sente,
infin che di Clodin, ch’era da lato,
la sveglia il ragionar s”avemente,
e le dice: “Sorella, in questo stato
dimorar suol colei che sia dolente,
non chi vede il consorte in somma gloria
de’ suoi feri nemici aver vittoria”.

A cui risponde allor: “Fratel diletto,
del presente esser suo già non mi doglio,
anzi ringrazio il ciel che l’abbia eletto
per domar a i nemici il crudo orgoglio.
Ma chi può navigar senza sospetto
di tempo avverso o di nascoso scoglio,
e sia pur queto il mar, sereno il cielo,
e la stagion miglior che ancide il gielo?

Chi può securo star sotto la luna,
ove si cangia il tutto in un momento?
Sono i doni e gli onor della fortuna
sì come arida fronda o paglia al vento:
a cui staman fu chiara, oggi s’imbruna
e ’l passato dolzor volge in tormento;
tal ch’ogni uomo a ragion vive in timore,
e per un mille un amoroso core”.

Qui finio ’l suo parlar, che ’l regio veglio
il gran genero appella e ’l pio figliuolo,
e dice ad ambedue: “Però che il meglio
fu di ricorrer sempre a colui solo
ch’è d’arme e di valor l’altero speglio
e che del quinto ciel corregge il volo,
dico il possente ed onorato Marte
che n’ha graditi ogn’ora e in ogni parte

perché venner di lui l’antiche genti
onde ’l sangue vandalico discese;
mi par ch’a lui deviam drizzar le menti
in tai perigli e ’n sì mortali imprese,
e supplicarlo umil che uccisi e spenti
renda i nemici, e libero il paese
che col favor di lui, di ferro cinto,
ho in sommo mio sudor conquiso e vinto.

E di ciò ragionando a Clitomede
che del suo sommo tempio e sacerdote
e le cose future aperte vede
come noi le passate e le più note:
doppo alquanto mirar d’un’alta sede
in quai voci presaghe l’ali scuote
ogni rapace uccel, guardò nel foco,
ch’è l’elemento suo, pur in quel loco;

indi a me ritornando in lieto volto
mi disse: “Alto mio re, securo spero
che ’n sangue e morte l’avversario avvolto
tosto vedrete, e vincitore intero
Seguran fia, se di quantunque tolto
avrà di preda al suo nemico fero
la quinta parte almen promette in voto
al nostro altero Dio piano e devoto;

e non lasse passar l’ora fugace
mentre che Lancilotto sta lontano:
il qual se con Arturo avrà mai pace,
ogni nostro sperar sarebbe vano,
ché morte acerba o gran periglio giace
in quella cruda man per Segurano;
ma se vorrà di lui schivar la spada,
sicurissima avrà tutt’altra strada.

Soggiunse poi che vi consiglia ancora
ch’a singular battaglia oggi chiamiate
fra ciascun cavalier ch’ivi dimora
il miglior di valore e di bontate:
certo che sovra ogn’uom quaggiù v’onora
il fero Marte, che voi solo amate;
per cui sarete a somma gloria indotto
se schivate il furor di Lancilotto.

Né ciò sembri viltà, ch’avvenir puote
che sovente in alcun minor virtude
sia dal girar delle superne rote,
ond’ogni bene e mal quaggiù si chiude,
guardata sì ch’ogni sua forza scuote
a qual truovi maggiore, e ’ndarno sude
ogni altra al contrastar, ch’al fin conviene
vincitrice esser lei che ’l ciel sostiene.

Non si deve onorar per saggio o forte
chi spera il suo valor tòrre alle stelle,
e chi fuor di ragion disprezza morte
via più ch’ardito e buon crudo s’appelle:
ceda il mortale alla mortal sua sorte,
né stenda le sue voglie empie e rubelle
oltra l’ordin lassù, ma per la strada
che glie mostra miglior contento vada.

S’egli è dato dal ciel che Segurano,
il cui chiaro valor l’umano ecceda,
aggia intrepido core, invitta mano
sì che d’ogni guerrier riporti preda,
ma la sua sorte al figlio del re Bano,
ben che di men virtù la palma ceda,
soffrir conviensi, e ringraziarlo appresso
che ’l poterla schivar ne sia concesso”.

Qui tacque il re antico; e ’l fero Iberno
che stima il suo poter sovr’ogni fato
gli amorosi ricordi prende a scherno,
e risponde in sermon d’ira infiammato:
“Or non sapete voi che ’l proprio inferno,
con quanti ha mostri e furie in ogni lato,
non desteriano in me tanta paura
che di forza qual sia tenessi cura?

Né sète voi ’l primier, né Cliotomede,
che di lui m’ha narrate aspre novelle:
perché la fata che nel lago assiede
mentre il nutria per le stagion novelle
sovente mi narrò ch’aperto vede,
per quanto al nascer suo mostrin le stelle
e per quel che Merlin gli solea dire,
ch’io per la spada sua devea morire.

E mentre m’accogliea con quello affetto
che far si possa un più leale amico,
quante fiate m’ha piangendo detto
che si dolea del fato empio nemico,
cagion che per suo figlio avesse eletto
chi sormontando il vero onore antico
farebbe il nome eterno esser di lei,
ma la fin recherebbe a i giorni miei?

E così spesso al mio cospetto poi
chiamando lui, che fanciullo era ancora,
giurare il fé sovra i parenti suoi
e per la deïtà che più s’adora
di non cinger mai spada contro a noi
per qualunque cagïon portasse l’ora:
quel ch’ei sempre servò, ché in ogni parte,
ond’io non sia co’ suoi, da me si parte;

ché mille volte e più, quant’aggio udito
delle prove ch’ei fa l’altero grido,
bramoso di veder se sia mentito
ho cangiato cercandolo arme e lido:
ma doppo a i primi colpi, ov’ha sentito
dell’occulto mio gir l’abito infido,
ripon la spada allor, volge il destriero
e sdegnoso da me torce il sentiero;

ond’ho sempre portata e porto doglia,
che da lui vilipeso esser mi sembra:
e certo son di riportarne spoglia,
se d’adamante ancora avesse membra.
Minaccie pure il ciel, dica che voglia
tutto il concilio ch’a predir s’assembra,
che Lancilotto solo in guerra chiamo
e con sommo desio sol esso bramo.

Ed a voi, caro suocero e signore,
dolce padre onorato e re sovrano,
avrò per obbedir con sommo amore
in ogni stato il cor presto e la mano:
ma che mai di costui tema il furore
il vostro affaticar del tutto è vano,
ché più caro il morir per lui mi fia
ch’allungar gli anni miei per questa via.

Sia del terrestre quanto al fato aggrada,
che gli può poco tòr, send’ei mortale:
pur che lo spirto mio per dritta strada
addrizze sempre al ciel candide l’ale,
né si possa mai dir che questa spada,
a cui di sommo onor, non d’altro cale,
se ben fusse conversa in ghiaccio e ’n vetro,
per temenza d’altrui tornasse indietro.

Di fare al quinto ciel solenne voto
d’ogni spoglia donar la miglior parte,
consent’io col pensier piano e devoto,
né fien le mie promesse al vento sparte:
ché d’orgoglio è ripien, di senno vòto
l’armato cavalier che sprezzi Marte,
e che d’esse adempir contento fui
voi quinci testimon ne appello e lui.

D’esser io poscia a singular battaglia
con quel duce miglior che segua Arturo,
se ’l provocargli e l’invitar mi vaglia,
d’obbedir Clitomede andrò sicuro:
benché pochi vi sien di cui mi caglia,
se i medesmi son qui ch’altrove furo;
se non forse Tristan, che pure è certo
ardito cavalier, prode ed esperto.

Or questa sia la fin del parlar nostro,
riponendo nel ciel ciò ch’esser deve,
ch’io men vada volando al campo vostro
a cui di ritornar promisi in breve.
Vivete lieto or voi, né augurio o mostro
o falso antiveder di spirto leve
vi faccia non sperar vita e vittoria,
lunga pace tranquilla e somma gloria”.

Il buon vecchio real, ch’intento ascolta
del gran genero suo l’alte parole,
ha di doppio timor l’anima avvolta
e del suo troppo ardir seco si duole:
non risponde altro a lui, ma gli occhi volta
piangendo al cielo e dice: “O vivo sole,
se l’umana virtù ti fu mai cara
difendi questa in lui più d’altra chiara;

e le mostra il cammin dritto e verace
che la conduca al fin de’ bei desiri:
opra col tuo poter che nulla face
di sguardo micidial lassù la miri,
e ’l disegnar quaggiù torni fallace
di chi più a i danni suoi spietato aspiri;
e tal dell’ali sue sostieni il volo
ch’al sacrato arbor tuo pervegna solo”.

Poi ch’ebbe così detto, a lui si volse,
e con tal ragionar lieto l’abbraccia:
“Chi crederrà che l’uomo in cui raccolse
tanta bontade il ciel già mai gli spiaccia?
E cui di tanto onor la vita avvolse
consenta in morte che negletto giaccia,
che ’l passato valor pietà non muova?
E di così sperar mi piace e giova.

Gite or con buono agurio, e vi sovvegna
che non sempre è lodato il troppo ardire:
ma solamente in loco ove convegna
gli aspri nemici abbattere o morire.
Poi sopr’ogni altro chi comanda e regna
non si lasse portar dal van desire
d’acquistar poca gloria in gran periglio,
ma via più che la mano use il consiglio”.

Qui alfin si tacque, e dal suo sen disciolto
il gran genero poi da sé diparte;
indi a Clodin con lagrimoso volto
dice: “Figliuol, però che il senno e l’arte,
che distinguon l’uom saggio dallo stolto
e ch’han del bene oprar la miglior parte,
son dell’uso e del tempo il parto chiaro,
truovano in giovin cor l’albergo raro.

Vi ricordo e vi prego per questi anni
così debili omai, canuti e bianchi
che ’n dolor lunghi e ’n travagliosi affanni
son di piangere i suoi pur troppo stanchi,
che dall’odio mortal de’ re Britanni
e dall’aspro furor de’ guerrier Franchi
con accorto riguardo e con misura,
quanto importa l’onor v’aggiate cura;

e di quei cavalier seguiate l’orme
i quai sien più di voi nell’arme esperti:
né l’ardor giovinil l’animo informe
d’impossibili a lui ricercar merti,
né vi muovan di quei le vulgar torme
che del vero valor vivono incerti,
e non san che l’ardir di senno scarco
di vergogna e di morte è il proprio varco”.

Già cerca Seguran dall’alma sposa
in breve ragionar congedo avere,
quando lei sente afflitta e lagrimosa
tra le sue braccia misera cadere,
e ’n sembiante apparir qual bianca rosa,
poi che ’l raggio del sol la scalda e fere,
che ’l leggiadro splendore ond’era adorna
in pallido color languendo torna.

Doppo alquanto vagar, poi ch’al suo loco
il travïato spirto era tornato,
le due languide luci alzate un poco
nel volto affisa del cosorte amato:
poscia in greve sospir ripien di foco
dicea tutta tremante: “In quale stato
sol mi rechi il timor de i danni nostri
ben potete or veder con gli occhi vostri.

Però prego piangendo, o signor mio,
di mirar col pensier qual esso fora
se mi ferisse il cor qualch’aspro e rio
caso di voi, come n’avvien talora.
Ma pria quel gran Motor, quel sommo Dio
che per pedre comun ciascuno adora,
del suo terrestre vel quest’alma spoglie
che rivestirla, oimé, di simil doglie.

Ma se m’amaste mai, come sovente
ch’io mel credessi pur desio mostraste,
e s’è di merto alcun l’amore ardente
che ’nfiammi di Giunon le voglie caste:
allor che ’n mezzo alla nemica gente
in tra spade pungenti e rigide aste
spronerete il corsier, vi risovvegna
del mio pregare umìl, s’io ne son degna;

e dite in voi medesmo: - Claudïana
che ’n sì angosciose pene oggi lasciai,
se per temenza immaginata e vana
se le oscurar così del sole i rai,
che faria, miserella, se lontana
d’ogni conforto e tra infiniti guai
si trovasse al più rio del corso umano
senza la scorta aver di Segurano,

che non è sposo sol, ma padre e frate
e mille dolci nomi aggiunti insieme?
L’orme omai calca all’ultime giornate
l’onorato Clodasso, e morte il preme:
de’ suoi tanti german di salda etate
solamente in Clodin chiude ogni speme;
giovine incauto, e ben che d’alto core
non forte a sostener sì gran furore.

E chi sarà il suo scampo, poi che ’n seno
fia de’ Franchi e Britanni il nudo Avarco,
che non la prenda allor l’empio Gaveno,
da lei per mia cagion d’ingiurie carco,
e sfoghi tutto in lei l’aspro veleno
del qual mentre vivrà non fia mai scarco,
e tra le serve sue mattino e sera
oprando l’ago e ’l fil la tenga a schiera? -

E ’l misero figliuol, ch’al terzo mese
port’io, del nostro amor gradito pegno,
cerchi a nascer lontan l’altrui paese
per restar servo fra i nemici indegno,
e dell’alte rovine in noi discese
e delle lor vittorie eterno segno?
E dir possa il più vil con fero ciglio:
- Quei son di Seguran la sposa e ’l figlio? -

Non sempre troverrà cortese affetto
come già in Lancilotto in altri tempi,
che al padre la rendeo, contro al disdetto
di quei che la voleano avari ed empi:
ma trovandola ancor, se ’l patrio tetto,
se le pubbliche mura e i sacri tempi
saran destrutti, e tutti ancisi i sui,
ove la tornerebbe, e ’n man di cui?

Deh, consorte onorato, aprite alquanto
alla preghiera umìl l’orecchie e ’l core,
e tempre in voi l’umor del nostro pianto
qualche favilla al marzïale ardore:
né vogliate spregiar del sacro e santo
vate le voci pie scarche d’errore;
perché veduto avem per prove antiche
che le stelle al predir sempr’ebbe amiche.

Riducete qui presso i guerrier vostri,
ch’a quest’alma città guardin le mura
ove d’Euro e d’Oron gli ondosi chiostri
men la parte di lor rendon sicura,
infin che ’l ciel con miglior segni mostri
della vostra virtù tener più cura:
ché non sempre ha lassù le voglie eguali,
ch’or minaccioso or pio volge a i mortali.

E ’n questo tempo tutte a i santi altari
sacrifici porgendo, doni e preghi,
con meste voci e con sospiri amari
supplicherem che ’n voi la vista pieghi
e le notti felici e i giorni chiari
per le nostre vittorie amico spieghi;
e doni a voi ghirlanda in questa riva
di trïonfante lauro, a noi d’uliva.

E se avrem le battaglie a noi vicine
potrò il vostro valor vedere almeno,
e contar meco l’anime meschine
che del fero Pluton porrete in seno:
pregando allor che le virtù divine
al vostro troppo ardir reggano il freno,
né l’ostinato cor vi porte in loco
ch’ogni sforzo al tornar poi fusse poco;

e non sempre udirò fra doglia e tema
di messaggier fallace le parole
che ’l ver come gli aggrada accresce e scema
e sempre oltra il dever s’allegra e duole:
e ’l mio misero cor ch’or arde or trema
più sovente il peggior creder ne vuole.
In questo loco almen gli occhi vedranno
il lor proprio contento e ’l proprio danno.

Poi tutti i nostri duci e cavalieri,
che si vedran de’ suoi le luci sopra,
si mostreranno in arme assai più feri
ch’ove l’altrui viltà s’asconda e copra:
però che in uom che bassi aggia i pensieri
la vergogna e ’l punir più d’altro adopra,
e tal qui con Tristan si farà ardito
che là del suo scudier saria fuggito”.

Qui si tacque piangendo, e Segurano,
nel cui feroce cor dolce pietade
pur desto avea l’umil sembiante umano
e le lagrime pie di tal beltade,
risponde: “Il contrastare in tutto è vano
ai voler di lassù, né truova strade
secure il piè mortal che ’l meni dove
non si stenda il poter del sommo Giove;

sì che ’ndarno oprerem, se fia pur vero
quanto n’ha ragionato Clitomede.
Ma non vola tant’alto uman pensiero,
né la vista dell’uom sì adentro vede:
però ch’aggia mentito affermo, e spero
di lui veder di tutto il danno erede
che per voi lusingare a me predice,
e me più ch’ancor mai con voi felice.

Or, dolcissima sposa, a me più cara
che le medesme luci e questa vita
o s’altra cosa mai più amica e rara
mi può in sorte venire, o più gradita,
spogliate il cor di questa doglia amara
ch’a temer troppo e lagrimar v’invita,
e ’l rivestite omai di quella spene
ch’allo spirto real di voi conviene:

ché chi nata è di sangue così altero
il pensier femminil da sé divida
di quanto possa mai sotto al suo impero
recar fortuna instabile ed infida,
sì che l’animo resti invitto e ’ntero,
difeso dal valor che ’n lui s’annida;
e morte o servitù che da lei vegna
non oscure il candor che in esso regna.

E chi tutto al pensier si pone avanti
ciò che puote avvenir nell’alte imprese,
di sé il morir, de’ suoi più cari i pianti
e de’ nemici poi le crude offese,
degno non è tra’ cavalieri erranti
vestir di Marte l’onorato arnese,
ma di riposo inerme e d’ozio vago
tra le femmine usar la rocca e l’ago.

Conviensi all’alto cor, da poi che scorga
che non senza ragion segue una strada,
per quantunque ella scenda o in alto sorga
col cominciato passo innanzi vada;
solo alfin destinato gli occhi porga,
ché mal si può avanzar chi altrove bada:
sia lontan d’ogni tema, e ’l meglio attenda;
poi quanto ha ’l ciel disposto in grado prenda.

Ben vi giur’io, carissima consorte,
per le fiamme d’amor ch’io porto in core,
che men grave mi fia l’istessa morte
che il lassarvi lontana in tal dolore;
e che per non recarvi a peggior sorte,
pur ch’io non squarci il marzïale onore,
guarderò dalle insidie questa vita
ch’io prezzo sol perch’è da voi gradita.

Ma di qui rimenar le genti indietro
impossibil saria, senz’onta avere:
ché più frali assai son che ghiaccio o vetro
per chi cerchi cangiar le assise schiere,
che ingombrate talor da incerto e tetro
timor, non le può a fren poi ritenere
duce né cavaliero, e meno ancora
se ’l passo ritirar convegna allora.

Ma bastivi che ’l loco ove noi semo
non men che ’ntorno a qui ne dia vantaggio:
e se ’l ciel non ne sia nemico estremo,
dello avversario uman tema non aggio.
Vivete lieta pur, che poi ch’avremo
vendicato di noi l’antico oltraggio,
fia dolce il rimembrar del tempo rio;
e se ’l contrario avvien, sia posto in Dio”.

Rivolto appresso alla famosa Albina,
l’alma suocera sua, così dicea:
“Ovunque intenda la virtù divina
di condurmi a fortuna o dolce o rea,
madre onorata, con la mente inchina
vi prego umìl che la mia sposa e dea
che di voi nacque, in tanta cura aggiate
che non sia cruda in sé la sua pietate”.

Qui si tace e l’abbraccia, e l’asta presa,
che ’n terra al suo venire avea confitta,
rivolge il passo alla lassata impresa
ove ancor l’attendea la schiera invitta.
Della vecchia infelice, che compresa
dal primiero languir rimane afflitta,
al soverchio ch’avea, s’aggiugne il duolo
quando vede il partir del suo figliuolo,

Il partir di Clodin, che già seguia
del caro Seguran gli alteri passi:
il qual rappella sconsolata e pia,
dicendo: “Or fate almen che gli occhi lassi
possan di voi saziarsi alquanto, pria
che ritorniate ove crudele stassi,
di voi, di tutti noi bramando morte,
il fero inessorabile Boorte.

Né poss’io ben saper, che ’n Dio sol giace,
lassa, s’io debba mai rivederv’anco,
o s’ancor aggia meco tregua o pace
il ciel, ch’a i danni miei non veggio stanco:
che ’n dodici figliuoi breve e fallace
piacer mi diè, poi che venuta è manco
già la parte maggior di tutti, ed io
in vita resto ancor per danno mio.

Fu nel passare il mar da Lancilotto,
che in tormento di me nel mondo è nato,
in un punto medesmo a fin condotto
Ercole il forte e ’l caro mio Dentato.
Poscia, allor che Grifon fugato e rotto
fu presso all’Era al suo sinistro lato,
lassò il verde terren di rosso tinto
per l’istessa sua man Decimo e Quinto;

ch’or volge il Sesto sole allor ch’avea
di nuovo aurato pel fiorito il volto
l’uno e l’altro di lor, sì che parea
nel più cortese april germe ben colto.
L’altr’anno appresso per fortuna rea
il mio dolce Settimio mi fu tolto
dall’arme di Baven crudele e fera
sopra il lito fatal dell’empia Cera.

Nonio non molto poi da Lïonello,
del maladetto seme anch’ei di Gave,
pur qui vicino al suo paterno ostello
restò impiagato da percossa grave
nell’osso della fronte ch’al cervello
fa di sopra e di fuor coperchio e chiave:
e senza il gran valor di Palamede
gli dimorava in man tra l’altre prede.

Ma difeso da lui, di polve e sangue
le giovinette chiome e ’l volto pieno,
mi fu portato, oimè, pallido essangue,
ch’omai poco di spirto aveva in seno.
Poi, qual vermiglio fior che colto langue,
fra queste braccia misere vien meno,
e mi tenn’io crudel, che ’n quella vista
non andai innanzi a lui dogliosa e trista.

Ma son rimasa ancor, per quel ch’io temo
e già vidi per prova, a peggior sorte,
però che acerbo allor di vita scemo
il poverello Albin fece Boorte:
ché, perch’ei fu di tutti il parto estremo,
troppo il cielo accusai della sua morte,
e perch’oltre al voler del pio marito
del medesmo mio latte era nutrito.

Così l’unica figlia Claudïana
e cinque altri di voi mi restan soli,
che mi parea d’ogn’altra esser sovrana
in numero e beltà di tai figliuoli.
E ch’io sia di timor venuta insana
che ’l mio fero destin voi non m’involi,
mi riprenda colei che se ne truova
sette volte, com’io, già stata in pruova.

Io non veggio arrivar mai messaggiero
inviato dal campo in questa parte
ch’io non senta agghiacciar l’alma e ’l pensiero
e ’l core sbigottirse, e batter parte:
ché mi par sempre udir che ’l destin fero,
congiurato al mio mal con l’empio Marte,
per aggiungermi ogn’or tormenti a doglie
voi, che primier portai, del mondo spoglie.

Però, dolce figliuol, per gli ultim’anni
ch’a squarciare il mio vel son presti omai,
per quelli antichi già sofferti affanni
che del peso di voi gravosa andai:
il simulato oprar, gli ascosi inganni
che i Britannici e i Franchi a i nostri guai
tesson la notte e ’l dì saggio schivate,
né vi dia troppo ardir la verde etate”.

Con tai parole alfin gli occhi e la fronte
d’amarissime lagrime gli inonda,
come suol sotto speco ombrosa fonte
che larga stille dall’erbosa sponda.
L’affannato Clodin con le più pronte
parole ch’al dolor la lingua infonda
dice: “Omai son finite, o dolce madre,
l’ore de i vostri ben rapaci e ladre.

Sperate pur, che doppo oscura pioggia
si suol vago e seren vedere il cielo,
che non serva ad ognor l’usata foggia
come non sempre è caldo o sempre è gielo.
Ora il nome d’Avarco illustre poggia
cui gran tempo oscurò gravoso velo,
e chi vive de i vostri in gloria, e ’n pace
vedrete e ’n sommo onor chi morto giace.

E vi prometto poi, per quello amore
che ’n verso madre tal conviene a figlio,
che i veraci ricordi in mezzo il core
mi staran sempre, e ’l vostro pio consiglio”.
Qui baciando la man con dritto onore
e mostrando ver lei pietoso il ciglio,
altresì poscia alla sorella pia,
dietro al suo Seguran ratto s’invia.