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Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo III

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Capo III.

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CAPO TERZO.


(1579). Frà Paolo godeva di una estimazione così scevra d’invidia che nel Capitolo convocato in Verona nell’aprile del 1579 fu a pieni voti eletto provinciale, minore ancora di 27 anni, primo esempio in 350 anni da che durava l’Ordine de’ Servi che uomo così giovane fosse a quella dignità innalzato. Nella quale si fece distinguere per imparzialità e disinteresse e per assiduità, sì che malgrado le nuove incumbenze gli fu affidato eziandio l’incarico di reggente degli studi, e continuò a dettare le teologiche sue lezioni.

Ma se v’è una milizia difficile da governare, sono certamente i frati; e aveva ragione il cardinale Pallavicino scrivendo che se il papa li volesse ridurre al dovere, e’ si ribellerebbono tutti quanti. Una vita monotona, costretta, disoccupata, fra l’ozio, senza varietà di distrazioni, lascia un vacuo nella attività umana sempre bisognosa di esercizio; e però non avendo essi a far altro, vuoto il pensiero di cure, l’animo di affetti, se non possono tribolare il mondo e brigarsi con lui, passano il tempo in discordia fra di loro.

Dopo la riunione de’ Serviti esistevano assai mali umori fra le provincie che formavano l’abolita congregazione e la provincia di Firenze. Questa si governava a modo suo per privilegi speciali [p. 45 modifica]acconsentitile da’ pontefici; e quelle vantavano altri privilegi fattisi confermare dal concordato di unione, a cui per patto niuno rinunciare volevano. Da tale deformità di governo nasceva che le costituzioni dell’Ordine fossero spregiate, indi abusi e querele senza numero. La famiglia era divisa: con Firenze aderivano Roma, Bologna e Napoli; e con Venezia e Mantova consentiva Milano. I generali, scelti per lo più dalla fazione fiorentina, trovavano modo di farsi ripetutamente confermare nella loro carica, o passavano da una ad altra carica senza interpolazione di tempi, con danno di altri ambiziosi che vi aspiravano. La stessa mala pratica prevaleva nelle Provincie riguardo ai provinciali, per cui la repubblica fratesca era in mano di pochi oligarchi, donde provenivano emulazione fra’ due partiti e discordia in ciascuna famiglia. Era dunque necessario di riformare le costituzioni in modo che salvando le prerogative di ciascuno potessero le cariche essere distribuite con tale ordine e misura, che determinandole ad un tempo prescritto, e frapposto al loro esercizio una ragionevole vacanza, fossero tolte le parzialità, e a maggior numero d’individui fosse aperta la speranza di poterle conseguire. Era anco necessario di tutelare i subalterni dall’arbitrio dei giudizi, e stabilire su giuste basi le norme de’ processi, e le attribuzioni rispettive di ciascun magistrato. Anco il governo economico aveva bisogno di particolari provvedimenti, stante l’incuria o l’abuso degli amministratori. E infine conveniva conformare gli statuti dell’Ordine ai decreti dei concilio tridentino riguardanti il reggimento fratesco. Già da dieci [p. 46 modifica]anni si erano travagliati inutilmente e papa e cardinal protettore e prior generale, e mai non si venne ad alcuna conclusione. Infine dal generale Jacopo Tavanti fiorentino fu convocato, ai 26 di maggio 1579, un gran Capitolo a Parma, che fu celebratissimo negli annali de’ Serviti pel concorso fra i più dotti dei loro membri, molti de’ quali si fecero distinguere per eloquenza, predicando alternamente dai pergami; altri dalle cattedre disputando di filosofia e di teologia: e fra questi fu udito, presente il duca Ottavio Farnese, con sommo applauso, Frà Paolo. Compiuta questa nobile gara d’ingegno che durò tutta la quaresima, congregati i comizi, fu deliberato che a riformare le costituzioni si eleggessero tre fra i più distinti per sapere, dottrina e pratica delle cose. Il merito di Frà Paolo era già tanto cospicuo che innanzi a lui cedettero altri molti più anziani e che avevano coperte le più insigni cariche dell’Ordine. Al dotto giovine provinciale andarono compagni nell’opera altri rispettabili per veneranda canizie e per fama egregia, Alessandro di Scandiano provinciale della Lombardia e Cirillo di Bologna socio della provincia di Romagna; a cui furono aggiunti per la qualità dell’offizio Frà Jacopo, in quel Capitolo confermato nuovamente nel generalato, ed Antonio di Borgo San Sepolcro procuratore dell’Ordine: ed ebbero comandamento di portarsi a Roma a intendersela, per quello che dovevano fare, col cardinal protettore e col pontefice.

Partì Frà Paolo coi compagni verso la fine di giugno e restò a Roma quasi tutto il resto dell’anno. Oltre ai lavori in comune, a lui, intendentissimo [p. 47 modifica]della giurisprudenza civile e canonica, toccò in particolare di stendere tutto il capo che tratta de’ giudizi, ed è il xxvii delle costituzioni, che fece le meraviglie de’ giureconsulti più consumati, e, dice il Lomonaco, avrebbe fatto lo stupore della posterità, se egli anzichè essere il legislatore di un monastero lo fosse stato di un popolo. «Quanti uomini (continua) nelle picciole imprese mostrarono eminenza di sapere, eppure per la infelicità delle circostanze i nomi loro non pervennero a tardi nepoti! Al contrario, se i Licurghi, i Soloni, i Numa, anzichè essere ordinatori di repubbliche e duci di nazioni, fossero stati guardiani di convento, qual mostra avrebbero fatta negli annali della gloria?» Quando l’uomo è genio, lascia in ogni sua opera luminose scintille del suo fuoco; e fra quelle da me scorte nell’accennato lavoro di Frà Paolo, tralasciando la precisione, rara a que’ tempi nel definire le colpe o i delitti e il sensato metodo di procedura per conoscerli e vendicarli, mi piace di ricordare una sua massima riprodotta con più ampia luce filosofica da due illustri italiani, Beccaria e Filangieri, ed è che: «Il carcere debbe essere ad emendazione del reo, non a sua distruzione; ed il magistrato che contro di lui incrudelisce, debbe essere scacciato siccome indegno di esercitare pubblico ufficio». Ma fa dispiacere che a canto a così aurea massima si vegga l’altra ferrea di usare la tortura per conoscere la verità. Quantunque l’autore raccomandi la prudenza e insinui il pericolo che la ferità de’ tormenti non faccia dire all’incolpato quello che non è vero, è pur sempre un [p. 48 modifica]tributo che il mite animo di Frà Paolo pagava ai pregiudizi barbari del suo secolo, canonizzati primamente da un papa, Alessandro III, e distrutti dai due filosofi che ho sopra nominati.

Compiuta l’opera delle costituzioni, fu approvata da papa Gregorio XIII a’ 21 settembre e dal cardinale Farnese protettore, il quale risedava nella sua legazione di Viterbo, al primo di ottobre: dopo di che potè il Sarpi restituirsi in patria. E intanto benchè questa sua prima andata a Roma non gli fruttasse che disturbi, dovendo contentare tante teste e fare e rifare e quasi interrompere ogni lavoro, gli valse almeno la stima del generale Tavanti, del cardinal protettore, dello stesso pontefice col quale trattò in persona più volte; ma più particolarmente del cardinale Giulio Antonio Santorio, detto di Santa Severina, vice protettore; e diventato protettore l’anno dopo (1580) per la rinuncia del cardinale Farnese; e di più altri personaggi di quella corte, sì che dall’arduo impegno uscì con lode e accresciuta riputazione.

(1580-82). Tornato a Venezia, compiè il triennale suo ufficio con severità e giustizia non disgiunta da piacevolezza. Fece buone leggi per l’amministrazione interiore, levò le discordie, fece regnare la eguaglianza monastica e il buon ordine, fu mite cogli erranti per fragilità, rigido coi perversi, sprezzatore dei regali, sordo alle raccomandazioni, e talmente incorrotto e di buona fama che i suoi processi o sentenze non furono mai riformate a Roma: e quando alcuno ricorreva al protettore Santa Severina, esso era solito rispondere: «Farò quanto [p. 49 modifica]potrò per grazia, niente per giustizia, perchè i giudizi del vostro provinciale non ammettono replica». E alcuna volta domandatolo che usasse indulgenza verso alcuni suoi protetti, il Sarpi schiettamente rispose, non poterlo fare, perchè la giustizia non ammette accettazion di persone.

(1582-83). Uscito di carica nell’aprile del 1582, nel mese di maggio del seguente anno fu di nuovo mandato a Roma in qualità di definitore a rappresentare la sua provincia nella elezione del nuovo generale.

Nel 1585 fu dal Capitolo generale, convocato in Bologna alli 8 giugno, eletto, senza ch’egli nè lo chiedesse, nè lo desiderasse, procuratore nell’Ordine; e qui ancora fu fatta giustizia al suo merito essendo stato preferito a più altri che brigavano quella carica illustre. Andato adunque a Roma ad assumere il nuovo suo impiego, convien credere che vi soggiornasse sino a tutto il 1588; imperocchè dice egli stesso di esservi dimorato quattro anni di seguito, quantunque uscisse di carica ai 7 giugno di quell’anno, quando nei comizi di Cesena gli fu sostituito Lelio Baglioni. In quella capitale si cattivò l’affetto di Sisto V succeduto a Gregorio XIII nell’aprile del 1585, che fiero principe, ma conoscitore degli uomini, lo impiegò in varie congregazioni e trattava con lui con tanta famigliarità che eccitò la gelosa attenzione de’ cortegiani. Fra le altre, un giorno uscito il papa di palazzo e scontratosi col Sarpi, fece fermare la lettiga, lo chiamò a sè e lo trattenne a lungo ragionamento; il qual [p. 50 modifica]tratto fu avuto per indizio di prossimo cardinalato. E veramente, ove fosse stato ambizioso, a niun altro era così bene spianata la via alle prime dignità come a Frà Paolo; che oltre al sapere in lui non comune, godeva la stima e l’amore di principi e prelati insigni: e Sisto, pontefice scaltro, senza pregiudizi, versato negli affari, pratico delle cose e degli uomini, non era tale da farsi pregare a conferire la porpora ad un frate che in perspicacia d’ingegno e in fermezza di carattere tanto lo somigliava. Il Sarpi si era eziandio confermato nella benevolenza del cardinale Santa Severina, uomo difficile, assoluto, ambizioso della tiara che contese cinque anni dopo a Clemente VIII, e che pure con lui si mostrò sempre piacevole, cortese ed affabile; il che dimostra in Frà Paolo un’arte squisitissima di sapersi insinuare, e assai belle doti per cattivarsi il cuore altrui.

Strinse anco amicizia, dettata dalla conformità d’indole e di costumi, col cardinale Castagna genovese che fu poi papa Urbano VII: prelato mansuetissimo e di cuore integerrimo, ed uno di quelli che intervennero al concilio tridentino; col quale conversando Frà Paolo tesoreggiò assai notizie importanti, ed è del Castagna che parla in una sua lettera a Jacopo Leschassier (29 settembre 1609) dove dice: «Essendo io giovane interrogai l’arcivescovo di Rossano che fu poi papa Urbano VII e che essendo al concilio ebbe l’incarico di comporre i decreti, perchè, contro l’usato, al prefazio dei decreti del concilio le narrazioni e conclusioni fossero contrarie, o per lo meno non [p. 51 modifica]concordassero: rispose, che veramente tutto si faceva conforme, ma che portato nelle congregazioni di Trento o a Roma, il prefazio come quello che a niuno fastidiva, lo lasciavano passare; ma dei decreti toglievano o aggiungevano assai cose, finchè ciascuno se ne chiamasse soddisfatto».

Fu pure a Roma che conobbe il gesuita Bellarmino, poi cardinale, e il celebre dottore Navarro, spagnuolo, dal quale seppe assai cose intorno alla origine dei gesuiti di cui conobbe i fondatori, contando egli allora circa 95 anni; e dicevagli che ove Sant’Ignazio fosse venuto al mondo non avrebbe più riconosciuta la sua compagnia, tanto era fatta diversa da quella di prima.

Passò anco a Napoli in qualità di vice gerente o vicario generale per assistere ai Capitoli di quella provincia. Ed ivi rinnovò gli amichevoli vincoli con Giovan Battista della Porta, naturalista egregio, e primo tra i restauratori della filosofia sperimentale, da lui già conosciuto a Venezia; il quale confessa nel suo trattato della Magia Naturale di avere dal Sarpi appreso assai cose recondite, massime sui fenomeni magnetici, e lo chiama il maggiore enciclopedico da lui conosciuto.

In questo triennio Frà Paolo maneggiando con destrezza, integrità e lode gli affari del suo Ordine, non pretermise di erudirsi viepiù in tutte le facoltà che l’occasione propizia gli presentava. Studiò le antichità ecclesiastiche, la pratica della giurisprudenza romana, visitò biblioteche ed archivi quant’egli potè; conversando coi dotti raccolse documenti di storia, di critica e di erudizione in ogni [p. 52 modifica]genere. Poi, nelle ore libere si applicava alle favorite scienze fisiche, nelle quali vie più s’immerse dopochè finito il suo ufficio tornò a Venezia. Onde egli è tempo di dire ciò che fece e scrisse, e che ho voluto comprendere tutto in un capo onde non interrompere il filo de’ racconti.