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Busto Arsizio - Notizie storico statistiche/Parte I/III

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Parte I - II Parte I - IV
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III.


Battaglia di Legnano — Condizioni civili —
Altri fatti fino al chiudersi del secolo XIV.


E quì la celebrità dell’avvenimento mi richiama al pensiero il Congresso di Pontida, ove le città lombarde fecero senno, ammaestrate dalla trista esperienza della lor divisione. Adottata la stessa politica e li ordinamenti stessi per cooperare con forze unite a scacciar di Lombardia il Barbarossa, là si strinse una lega d’interessi, i quali, ravvivando il sentimento nazionale, gittarono semi di energia anche in quella classe di popolo che è condannata all’ignoranza e alla fatica materiale. Ciascun sasso, ciascuna zolla, che pur poc’anzi calpestava indifferente il terriere di Legnano, di Borsano e di Busto, parla di quella battaglia sì famosa negli annali milanesi, che tanto elevò il nostro valore sopra le armi del temuto Enobarbo.

I Milanesi, presentendo che l’imperatore circondato da principi tedeschi stava per recarsi da Como a Pavia, città devote alla causa imperiale, adunarono un grosso esercito composto anche di milizie bresciane, veronesi, piacentine, novaresi, vercellesi e lodigiane. Con queste forze e co’l loro carroccio s’avviarono a Legnano, a fine d’impedire che le truppe imperiali e comasche s’unissero colle pavesi. Infatti l’imperatore, movendosi da Cairate il 29 di maggio del 1176 co’l suo esercito alla [p. 11 modifica]volta del Ticino, si scontrò coi Milanesi tra Busto Arsizio e Borsano e quivi si venne a battaglia1.

I nostri, armati di alabarde, non intimoriscono innanzi alla milizia imperiale coperta di ferro, chè anzi, fatti per così dire più cauti dall’esito infelice della prima mischia, si tengono su le difese. Ormai da qualche ora versavasi sangue, e la vittoria pareva inclinata agl’Imperiali. Ouand’ecco una coorte di magnanimi in numero di 700, detti della morte, deliberati di vincere o morire, si scaglia su’l nimico nell’istante che la sorte de’ Lombardi era quasi decisa, si serra intorno al carroccio, lo difende valorosamente, mette in disordine e in fuga i nemici e fa sonare da ogni lato il grido della vittoria. Quì l’imperatore perdette i suoi più preziosi ornamenti, lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia, quì la cassa militare cadde in potere de’ vincitori in un con tutto lo spoglio dei vinti. Notabile fu il numero de’ morti e de’ feriti, e tra i prigionieri si contò il duca Bertoldo, nipote dell’imperatore, ed il fratello dell’arcivescovo di Colonia. Dopo la battaglia alcuni andarono in traccia de’ parenti e de’ compagni feriti o morti, ed i Bustesi non mancarono in quest’occasione di prodigare ogni maniera di pietosi offici a quelli cui speravano di serbare in vita. Poco invero potevano giovare a que’ martiri della libertà, ma la presenza amica, una parola di refrigerio, rese a taluno di loro meno acerbo lo spasimo delle ferite e meno tetra la morte.

Questa vittoria sì rinomata, che consolò l’Italia da tante sventure, dicesi communemente di Legnano, e, secondo il Verri (Capo viii), di Busto Arsizio o di [p. 12 modifica]Legnano2. Essa segna uno dei fatti più gloriosi delle Republiche Lombarde. Non mai più forte amor di patria accese i nostri guerrieri, nè più singolare valore fu dimostrato per una causa sì giusta. Di quì ebbe vita il governo municipale, e guadagnarono nerbo e fermezza le città lombarde. Le quali furono rette non da principi assoluti, ma da vicarj imperiali sino al 1396, epoca in cui l’imperatore Venceslao concedette a Giovanni Galeazzo Visconti il titolo di Duca, lasciando nel [p. 13 modifica]pristino stato, anzi confermando alle nostre città ed a’ paesi dipendenti le loro regalie.

La libertà, che fu sempre riguardata come uno de’ primi elementi dell’esistenza, andò suggetta nel medio evo a diverse vicende. Essa vendevasi come una proprietà e si potea vincolare per tutta la vita, e per un tempo determinato. Avveniva sovente che persone libere, cadute in miseria, vendevano la libertà. Alcuni erano ridutti in servitù o per forza o per inganno, altri, oppressi dai feudatarj, rinunciavano a questi spontaneamente la libertà, stimando minor sciagura l’obedire ad un polente patrocinatore, che vivere in una indipendenza mal sicura. Frequenti poi furono i casi di persone che, non potendo sodisfare i loro debiti, davano in pegno al creditore la propria libertà. Ora questo facile passaggio dalla libertà alla servitù somministra una ragione di sostegno al riflesso suggerito dalle pergamene dal IX al XII secolo, dove trovasi di rado l’espressione di uomo libero. Per lo che si viene a sempre più assodare l’opinione, che la classe de’ servi (la più numerosa ne’ villaggi di Lombardia) non componeasi già solamente di contadini, ma altresì di artigiani. Non debbonsi però confundere i servi della gleba co’ veri schiavi. La terra di Busto allora contava parecchi servi e giornalieri addetti alla cultura de’ campi. La classe però degli uomini liberi non progrediva verso la civiltà che lentamente. È solo dopo il secolo XII che in Busto trovansi tracce del commercio del ferro e della lana, e più tardi di quello della bambagia; è in allora che i piccoli proprietarii e li artigiani dei Communi lombardi, non ancora indipendenti, cominciano a sentire i benefici effetti delle arti, e a procurarsi con l’industria la libertà. Di quì divenne frequente il costume di affrancare i servi, il quale era [p. 14 modifica]tuttavia in vigore su la fine del secolo XII3. Una ricca e pia donna della terra di Velate presso Varese, chiamata Biriana, nel donare alla chiesa del Sacro Monte la sustanza ereditata dal marito, diede la libertà ad un servo e ad un’ancella (Così in una pergamena del 1184, 21 di luglio, spettante al monastero del Monte sopra Varese).

Dopo la pace di Costanza4 avvenuta nel 1183, le terre lombarde, divise già in contadi rurali, borgate, signorie e castelli, incominciarono a regolarsi indipendentemente dalle città. Imitandosi a vicenda nella forma di governo, almeno riguardo alle magistrature, richiamarono coll’appellazione di consoli un’idea romana, e colla parola podestà convertirono un’idea astratta in un titolo meramente personale. Di quì poi sorse l’autonomia, o libertà de’ Communi, che fu la condizione di quasi tutta l’Italia dalla seconda metà del sec. XII al XVI.

Uno de’ primi atti, donde si manifesta il reggimento a commune in una terra poco distante da Busto, è una dichiarazione del 1198, per la quale i massai dell’arcipretura della chiesa sopra il Monte di Varese furono sciolti dall’obligo di concorrere co’l commune di Velate a sostenere il peso delle publiche imposte.

Busto, che fin d’allora era una terra considerevole, non fu però delle prime ad accettare la forma del [p. 15 modifica]governo democratico. E ciò appar manifesto dal trovarsi menzione di un messo regio verso la metà del sec. XIII. I messi regi e i giudici, nelle cui mani stava la giustizia civile e punitiva, scomparvero a poco a poco all’introdursi dei consoli, i quali diedero un notabile crollo anche all’autorità dei conti rurali. In allora ogni terra, quantunque piccola, ma a certa distanza dalle altre, procurava di darsi sollecite le leggi, di reggersi con codici o statuti particolari, e di formare una communità. Il terrazzano Bustese e così li altri non si prendevano pensiero che di ciò che risguardava esclusivamente il loro territorio. L’affetto era tutto alla famiglia ed al Commune ed ogni terra consideravasi quasi straniera alle vicine. Di quì la ragione delle strade quasi impraticabili, dei molti pesi e delle misure, varie da un luogo all’altro, e dei continui dazii che al por piede in ciascun territorio incagliavano il commercio. Ma i Communi che già sentivano il bisogno di crescere d’abitatori e di fortificarsi, si cinsero di fossa, di mura e di palizzate, e concedettero franchigie a quelli uomini che piantavano soggiorno entro il loro recinto.

È noto che nel medio evo le donne di nazione e legge longobarda non potevano far testamento, donazione, vendita o permuta, o qualsivoglia altro contralto senza il consenso di qualcuno de’ più prossimi in ragione di sangue, e la dichiarazione espressa di non esservi state costrette. Nel caso poi che le medesime non avessero avuto parenti vicini o lontani, dovevano dipendere da un ministro regio. E quì a confermare il fatto mi torna opportuna una pergamena5 del 13 di dicembre dell’anno [p. 16 modifica] 1243 (Doc. N.º 1), da cui raccogliesi che in Busto risiedeva certo Engheresco Brozio (de burgo6 Busti Arsitii) in qualità di messo dell’imperatore Ottone IV, il quale concesse a certa Piubella, previo l’assenso di suo marito Ottone dal Pozzo, la facultà di vendere a donna Rosa, ministra ed anziana delle Umiliate in Busto, un podere per lire tre e soldi sei terzoli, e che per la validità del contratto fu necessario il consenso del messo imperiale, il quale interrogò la donna se ciò avesse fatto di suo moto proprio, o vero di forza. Le donne longobarde per natali, o per elezione di legge, ove fossero passate ad un contratto insieme co’l marito, non erano vincolate di più, che se lo avessero stipulato da sole, giacchè in qualunque età e condizione trovavansi sempre suggette al mundio, o tutela. Diritto che si vendea per denaro anche ad un estraneo mundualdo, chè donzelle o vedove non potevano nè maritarsi, nè passare a seconde nozze senza il permesso de’ parenti, perocchè chi s’arbitrava sposarle altrimenti, tuttochè libero cittadino longobardo, dovea pagar 30 soldi ai parenti per la cessazione della faida o inimicizia, e 20 altri per l’anagrip, o sia pena dell’alto suo arbitrario. Nè deve recar meraviglia che per così piccola somma, qual è quella di lire tre e soldi sei terzoli, si alienassero dei beni stabili, giacchè è noto come a’ que tempi l’oro e l’argento fossero metalli assai rari e preziosi, e quindi molto alto il pregio loro, e come il primo soltanto dopo la scoperta dell’America gradatamente si abbassasse. Il veder poi Busto nominato ben quattro volte nella citata pergamena, [p. 17 modifica] ma una sola co’l titolo di borgo, mi fa sospettare che l’uso di questa seconda denominazione non fosse ancora officialmente stabilito. Ed il dubio si accosta alla certezza, trovandosi in documenti posteriori continuata l’indicazione in loco Busti.

Una pergamena del 1264, mutila dal lato destro del riguardante, contiene una donazione di certo Pagano milanese al frate Jacopo, e per esso alle monache Umiliate di Busto della metà d’un sedime. Come al solito, il donatario offre al donatore il launechild7, che quì è un lembo di mantello (lempum unum mantelli nomine lanici). Oltre a ciò, non solo il donatore rinunziava del tutto al possesso su la parte del nominato podere, ma aggiungeva la condizione di guarentire al donatario il dono compartito co’l vincolare tutti i suoi beni. Una tal clausola è quella stessa che solevasi apporre negli atti di vendita dal venditore, perchè meglio fosse assicurata all’acquirente la cosa venduta, salvo che in questi s’ingiungeva una penale ai violatori del contratto.

Da un atto poi di donazione inter vivos del 1278, del 30 di dicembre (Doc. N.º 2), si rileva che al cospetto di Petracio Portela, console di Giustizia in Busto Arsizio, una Beldia, vedova di maestro Jacopo Beligozzi, fu interrogata da Pietro e Gregorio Gallazio detto Cozza, parenti di lei, se nel donare alcuni beni a Donna Verda ministra della casa delle Umiliate di Busto, ella avesse operato con spontaneità, o per violenza. Dopo di che i congiunti accordarono il loro consenso. Ponendo con [p. 18 modifica]questo a confronto l’atto del 1243, si nota che nel primo chi interrogò la donna fu il messo regio, e nel secondo furono due parenti della donatrice, se bene vi fosse presente il console di giustizia del luogo. Tale differenza non istarebbe (a mio avviso) fuorchè nella ragione della legge, poichè l’atto di donazione, siccome meramente grazioso, aveva bisogno di una tutela maggiore di quella che si richiedeva negli atti onerosi. Or dunque questa protezione della legge negli atti di donazione consisteva nella pratica che il mundoaldo o tutore, il quale era sovente parte interessata, interrogasse la donna invece del messo regio, del console, od altro officiale presente all’atto, e ne approvasse il contenuto.

Quest’ultimo documento non mi chiarisce quanti fossero in Busto i consoli, i limiti dell’autorità loro, le condizioni necessarie alla nomina, le solennità dell’elezione, e la durata del ministero, se bene si possa inferire da altre pergamene dell’Archivio Diplomatico di Milano, la facultà ai medesimi di radunare li abitanti per li affari communali, di deciderne le contese, di assistere alle donazioni, ed agli altri atti inter vivos, di assegnar mundualdi, o sia tutori ai pupilli, ecc.

Perchè poi in quest’atto del 1278 trovinsi ancora i riti e le formole proprie delle persone professanti la legge longobarda, io non saprei scoprirne il motivo che in una tradizione di famiglia, o nel tacito consentimento de’ notai, o nella continuazione dell’uso, o per dir meglio in un sentimento patrio per dimostrare da quali avi discendevano le parti contraenti. La legge longobarda durò presso di noi più lungamente di quello che hanno opinato li scrittori più competenti in questi studii.

Parecchi esempi di tal legge rinvengonsi nelle pergamene del secolo XIV spettanti al Bergamasco, e se ne [p. 19 modifica] ha traccia persino nel XV, come, a mo’ d’esempio, rilevasi da una pergamena del convento di Pontida del 5 d’ottobre del 1422. Oltre questa legge, che si mantenne in vigore più tardi delle leggi salica, ripuaria ed alemanna, v’era la romana che verso il XV secolo venne a fundersi interamente nei codici statutarj dei varii paesi. Se un miscuglio di tante leggi su lo stesso suolo nocesse alla giustizia, è disputa che esce dai confini del mio assunto. Io mi limiterò a dire che ciascuno era tenuto seguire la legge sotto cui nasceva. Così, a tacer d’altro, i Ripuarii, immigrati in Italia, erano giudicati secondo la legge loro originaria, non già secondo la territoriale. In alcuni casi però potevasi abbandonare la legge propria per seguire un’altra. Ma ciò non permettevasi che nelle forme legali; insomma non era una facultà libera a chiunque, ma un privilegio che veniva concesso dalla publica autorità.

Anche la Religione era per molte pratiche così fissa ne’ cuori, che nessuno si lasciava morire senza l’adempimento di certe determinate consuetudini ereditarie.

Un atto del 1127, spettante alla collegiata di S. Giorgio al Palazzo in Milano, m’insegna che certo Mirano Busti8 aveva legato lire 10 a quel capitolo coll’obligo di un anniversario con dodici preti, oltre i canonici, volendo però che questi facessero, luminariam super sepultura illius pro duabus quadrageximis, silicet in adventu domini et in majori. In allora era commune l’uso di farsi celebrare l’anniversario della morte con elemosine o pasti a’ sacerdoti, e ai poveri, e consideravasi come un atto di religiosa pietà il fornir olio per le [p. 20 modifica]lampade delle chiese e alle tombe degli estinti. La pratica di tener lampade continuamente accese sui sepolcri de’ più segnalati personaggi dura ancora non solo ne’ paesi di religione catolica, ma per fino in quelli suggetti all’islamismo. Questo costume, se bene in parte modificato, è seguito ancor oggi a Genova nel giorno de’ morti, in cui veggonsi nelle chiese e per le vie parecchi ragazzi con candele accese, credendo con ciò di suffragare maggiormente le anime de’ defunti.

Era del pari talmente radicato l’uso de’ legati pii, che, se il defunto se ne fosse scordato, o per impotenza avesse omesso di statuirne alcuno nel suo testamento, vi supplivano talvolta li eredi. Basti, per un esempio fra i diversi che se ne hanno per la Lombardia, addurre il seguente. Morto nel 1106 d’improviso un Goffredo d’Oreno, che però nihil pro anima sua minime judicare potuit, la vedova assegnò a tale scopo alcuni poderi nel territorio di Oreno al Capitolo di Vimercate. Il qual allo suppletorio fu steso in Oreno stesso, super corpus ejus Gotefredi quando mortuus in grabato jacebat9.

Tuttavia, in mezzo all’osservanza scrupolosa di sì fatte pratiche pie, sorsero, nell’esordire del secolo XI, parecchie sette religiose coi diversi nomi di Cattari, Pattarini, Antropomorfiti, Manichei, Vanni, Concorezi, Fursci, le quali sparsero i semi della eresia nelle terre lombarde, e crebbero a tanto rigoglio, che diedero origine in Milano al Tribunale dell’inquisizione assistito in allora anche dal braccio secolare. Questo tribunale, intraprese le più scrupolose ricerche per iscoprire i settarii, li puniva severamente. Erano credute sì dannose le eterodosse dottrine, che il podestà di Milano stabilì nel [p. 21 modifica]1254 di mettere una grave imposta sopra i borghi e i castelli infetti d’eresia. I castelli di Mozzanica, di Cattedo e di Corte Nuova nel Bergamasco furono per tal motivo distrutti. Ma che in Busto Arsizio dominasse allora l’eresia, si può con certezza negare, tuttochè consti che fosse penetrata in Sesto Calende, distante da Busto 12 milia soltanto.10.

L’arcivescovo Ottone Visconti, elevato nel 1277 alla signoria di Milano, s’occupò, dopo aver sistemate le cose della città, a migliorare la condizione di alcuni luoghi della campagna. La rôcca di Busto, che aveva sofferto non pochi guasti più per le guerre che per l’incuria de’ signori, e per l’incessante lima del tempo, fu da quel prelato ristorata. Cooperandovi Alberto Confalonieri, podestà di Milano, il Visconti nel 1285 cinse il borgo di una fossa più profonda, lo munì di fortilizii, ed accrebbe il numero delle porte11. Tali lavori si eseguirono in parte dai Bustesi e in parte dai terrieri vicini. Il nostro castello sorgerebbe ancora, se li odii civili e le frequenti lotte seguíte fra i Torriani e i Visconti non lo avessero quasi interamente distrutto.

A questi giorni Castel Seprio, che era in potere di Guido da Castiglione, ligio ai Torriani ed ai Comaschi, fu assediato dai Milanesi. Il podestà condusse quindi a [p. 22 modifica]Rho, e poi a Gallarate l’esercito, il quale per maggior speditezza nelle mosse, invece del Carroccio, fece uso di un grande stendardo coll’imagine di Sant’Ambrogio e l’insegna della città12. I Milanesi, impadronitisi del Seprio, lo misero a sacco, dopo aver intimato agli abitanti di uscirne fra tre giorni. Se non che dopo un consiglio militare, il podestà ordinò che l’esercito fosse condutto a Busto, dove, al ritirarsi, lasciò a custodia della terra buon nerbo di fanti e di arcieri.


  1. Vedi il Muratori, Annali d’Italia, sotto l’anno 1176
  2. In documenti dei secoli XV e XVI si trovano nomi di località a vigna dette campere tra Legnano e Busto, e propriamente nei dintorni della cascina Mazzafame, forse così chiamate dagli accampamenti ivi posti dall’esercito della Lega Lombarda. I Milanesi vincitori entrarono in Legnano per una via che fu detta per ciò della Vittoria. In appresso, durante il dominio Austriaco, quella via fu denominata invece Pan di melica; ma, ridonato nel 1859 il paese alla libertà, riassunse l’antico nome.
    Il sacerdote Gaspare Maineri, domiciliato in Legnano, spinto da sentimenti patriotici e dai voti espressi dalla publica opinione, massime dalla maggioranza di que’ communisti, iniziava in Legnano stesso il 12 d’agosto del 1863 una sottoscrizione (che poi si effettuò in piccola scala) per erigere un monumento commemorativo di quella battaglia. In brevissimo tempo raccolse da 71 terrieri e dalli alunni dell’Istituto Bernocchi italiane lire 171.45, che trasmetteva a quel Municipio, invitandolo a continuare con publico impegno l’opera in tal modo intrapresa e a deliberare un programma per le ulteriori soscrizioni, chiamando a concorso non solo le città Lombarde, ma Italia tutta. Se non che il Consiglio di Legnano in adunanza del 27 di settembre di quell’anno risolveva di eseguire un tal progetto a giorni migliori “cioè quando l’Italia sarà totalmente padrona di sè stessa.” Intanto il Maineri, mediante libretto del 26 d’agosto, N. 122,228, intitolato Terrieri di Legnano, depositava le suddette It. lire 171.45 presso la Cassa di Risparmio in Milano, e quasi ad un tempo ne informava la Società d’Archeologia e Belle Arti di questa città, perchè rivolgesse i suoi studii e le sue cure all’erezione di un così caro e glorioso monumento. La quale Società, nominata una commissione per li studii richiesti ad accertare il luogo preciso della battaglia, adottò l’idea del Maineri di difundere un programma facendo appello a tutti li Italiani; ma si rivolse anzi tutto di bel nuovo alla Giunta Municipale di Legnano, chiedendole adesione ed appoggio morale. Al che questa favorevolmente rescrisse, offrendo eziandio di dar l’area che verrebbe prescelta all’indicato fine.
  3. Un altro motivo, che induceva i signori a dare la libertà ai servi, era una legge la quale proibiva di venderli fuori del loro territorio. La pratica del codice romano di indicare lo stato de’ servi quando si vendevano, scorgesi ancora in vigore nel secolo XI. In un atto del 27 di maggio del 1023, vendendosi una serva, si dichiara, che è italiana di nazione, e sana di mente e di corpo.
  4. Il Congresso di Pontida, la Battaglia di Legnano, e la Pace di Costanza, aspettano insieme un degno epico che le illustri.
  5. Proveniente dal suppresso monastero di S. Maria Maddalena e di S. Girolamo in Busto Arsizio.
  6. Allorchè si trattava d’inalzare alla dignità di borgo qualche terra, si convocava il consiglio di duecento uomini, dal quale era escluso chi aveva sostenuto la carica di console.
  7. Questo vocabolo corrispondente all’odierno tedesco lohngeld (compenso in denaro) fu storpiato in molte guise, leggendosi alternatamente: laoneghild, lunechild, lonachild, e per fino lanici, come nell’or citata pergamena. Consisteva per lo più o in un paio di guanti, o in una veste corta detta paludello, o in una camicia, o in un panno
  8. In un documento del 1264, il nome Mirano (da cui ebbero origine li odierni Milani) compare tra i cognomi di Busto Arsizio.
  9. Così in una pergamena proveniente dalla Collegiata di Vimercate
  10. Una pergamena del 1 di novembre del 1303, publicata sotto il N. XLIII nei Documenti diplomatici tratti dagli Archivi Milanesi, ora in corso di stampa, ci narra che il commune di Sesto Calende abjurò l’eresia e rinunciò al difendere e dar ricetto agli eretici di qualsivoglia setta. È però da notarsi che erano ormai l’ultime reliquie di essi, che si ritiravano verso le valli subalpine.
  11. Siccome nel medio evo fu di stile che i borghi e i villaggi murati e muniti di fossa si chiudessero la notte, così è verosimile che anche i Bustesi avessero appena fuori dell’abitato qualche ospizio, in cui si accogliesse il peregrino che non giungeva in tempo alla sua destinazione.
  12. Tuttavia, nel novembre del 1448, i capitani e i difensori della libertà milanese affidarono a Bertola Novati, abilissimo architetto d’allora, la costruzione di un Carroccio. Vedi Dozio, Notizie di Brivio e sua pieve, a pagina 132.