Catullo e Lesbia/Annotazioni/5. - VII
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Pag. 164. Quam magnus numerus Libyssæ harenæ.
Vuoi saper quanti baci io voglio da te? Numera i granelli d’arena dei deserti di Libia. È presto detto. Gl’ innamorati han sempre detto di grosse bombe. I Petrarchisti e poi gli Arcadi si deliziarono di simili iperboli. Il cardinal Bembo ci andava, come si dice, a mezza gamba.
Libyci velit æquoris idem |
Basta da nobis Diadumene pressa; quot inquis |
E lo stesso Catullo, altrove:,
Illa pulveris Eretrii |
Libyssæ invece di Libycæ; come in Lucano:
Terræque in fine Libyessæ |
e in Silio Italico:
Magnumque Libyssæ |
Pag. 164. Laserpiciferis iacet Cyrenis.
Catullo ha la mania degli accessorii e dli epiteti, in cui riesce qualche volta veramente felice. (Vedi Lehmann, De adject. compos. apud Catul., etc.) Sul laserpiciferis ci sarebbe da scrivere una dissertazione. Peccato ch’io non sono accademico! pas même academicien! Altrimenti, sentireste che sproloquii!
La città di Cirene fu edificata d Aristeo o Aristotele detto anche Batto, il quale le diede quel nome da una figlia del re di Tessaglia, rapita da Apollo e portata in quel loco, dove ne ebbe quattro figli. Callimaco si vantò discendente da Batto, per cui il nostro poeta ed Ovidio lo chiamarono Battiade:
Nec tibi, Battiade, nocuit quod sæpe legenti |
Nelle campagne di Cirene si produce quell’erba famosa che i Greci chiamavano σίλφιος, a cui venivano attribuite delle preziose qualità medicinali. Il succo della pianta fu detto laser; quello delle radicii, rhizias; quello estratto dagli steli, caulias. La foglia, detta maspetum, somigliava a quelle dell’apio, di cui s’incoronavano i vincitori dei giochi olimpici. Altre particolarità intorno al laserpicio enumera Plinio nel libro XIX della Storia naturale.
Ibidem. Oraclum Jovis inter æstuosi.
Intende certamente l’oracolo di Giove Ammone, una delle famose meraviglie dell’antichità, di cui scrisse con molta dottrina Quinto Curzio, e con molta eloquenza Lucano. Distava da Cirene non meno di quattrocento miglia; ma il poeta se ne cura poco: bisognava sciorinare a ogni costo la sua erudizione.
Come se le povere stelle, occhi della notte, fossero attaccate a bella posta all’azzurra soffitta del cielo per fare da testimonî e reggere il lume a noialtri!
Giovenale ha messo anche in mezzo la luna, questa benedetta vittima dei poeti romantici, che a forza d’invocazioni antiflogistiche son riesciti a staccarla dal cielo e a farla entrare nelle nostre tasche:
Sed luna videt, sed sidera testes |
E Properzio:
Me mediæ noctes me sidera piena tuentur |
Papinio fa sorridere le stelle ed arrossire la luna alla vista d’una fanciulla, a cui veniva tolta la verginità:
Risii chorus ab alio |
al contrario d’un moderno, che fa nasconder la faccia alla luna indispettita da una scena d’amore:
Pag. 164. Tam te basia mulla bastare.
Basia basiare; quanta voluttà! Non dice osculum, ch’è il bacio che si dà ai figli; non suavium, ch’è il bacio delle baldracche: ma basium, il bacio degli amanti, la parola della passione. Cosi in una lirica attribuita a Cornelio Gallo:
Porrige labra, labra corallina, |
dove l’amentis animi corrisponde al vesano Catullo del Nostro. Vesano, cioè male sano, non ob amoris impotentiam, come spiega il Partenio, ma piuttosto ob amoris incendium furenti, come interpreta il Fusco.
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