Cenere/Parte II/IV

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Parte II - Capitolo IV

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IV.


Roma, 1.° giugno.


          «Margherita mia,

«Ricevo in questo momento la tua lettera e rispondo subito. Sono un po’ stordito; in questi giorni ho almeno una ventina di volte preso in mano la penna per scriverti, senza riuscirci. Eppure ho tante cose da dirti. Ho cambiato casa: sto presso una signora sarda che dice di esser nata a Nuoro, è una buona donna, simpatica, molto devota; ha per me delle cure veramente materne, tanto che mi ha dato la sua camera in attesa della partenza d’una bellissima signorina inglese che deve cedermi la sua.

«Questa Miss rassomiglia a te in modo straordinario; ti scongiuro però di non esser gelosa: 1.° perchè io sono pazzamente innamorato di una signorina nuorese; 2.° perchè Miss deve partire fra otto giorni; 3.° perchè è matta da [p. 197 modifica]legare; 4.° perchè è fidanzata; 5.° perchè io sono sotto la salvaguardia di tutte le sante ed i santi del cielo appesi alle pareti della mia camera, nonchè delle Anime Sante del Purgatorio illuminate giorno e notte da una mariposa.

«Presso la mia nuova padrona abitano altri stranieri che vanno e vengono, e un sarto piemontese, elegantissimo e coltissimo, e un commesso viaggiatore, che per le bugie che dice mi ricorda il colendissimo signor Francesco Carchide di Nuoro, tuo sfortunato pretendente.

«La signora Obinu tiene poi una vecchia cuoca sarda, che sta a Roma da oltre trent’anni ed ancora non ha appreso l’italiano. Povera vecchia zia Varvara! Essa è nera e piccina come una jana1: conserva gelosamente nel baule il suo costume natio, ma veste un ridicolo abito comprato a Campo di Fiori. Spesso io vado a trovarla, nella cucina buia e torrida, ed essa mi domanda notizie delle persone del suo paese, e crede che il mare sia sempre in tempesta come l’unica volta in cui ella lo attraversò. Per lei Roma è un luogo dove tutte le cose son care, e dove si può morire da un momento all’altro investiti da una vettura. Mi domandò se da noi si fa ancora il pane in casa; risposi di sì ed essa si mise a piangere, ricordando gli scherzi e il divertimento dei giorni nei quali si cuoceva il pane, a casa sua. Poi volle sapere se i pastori mangiano ancora seduti per terra, [p. 198 modifica]sotto gli alberi. Come sospirava ricordando un banchetto di Pasqua, a cui prese parte quaranta anni or sono, in un ovile del Goceano!

«Qui fa già molto caldo, ma verso sera, di solito, l’aria si rinfresca: io passeggio lungo le rive del Tevere, e sto ore ed ore a guardare l’acqua corrente, rivolgendo a me stesso delle domande perfettamente inutili. Nelle sere tranquille il gran fiume è tutto latteo, e riflette i lumi, i ponti, la luna, come un marmo levigato. Io rassomiglio il corso perenne dell’acqua al mio amore per te; così, continuo, silenzioso, travolgente, inesauribile. Perchè, perchè tu non sei qui con me, Margherita mia? Già tutte le cose mi sembrano più interessanti quando io le guardo pensando a te; ah, come dunque mi parrebbero belle se potessi vederle riflesse dai tuoi occhi adorati! Ma quando dunque, ma quando si potrà avverare il sogno tormentoso e delizioso delle anime nostre? In certi momenti mi pare impossibile che io possa vivere ancora tanto tempo diviso da te, ed uno spasimo indicibile mi fa tremare il cuore; poi trasalisco di gioia al pensare che fra due mesi ci rivedremo.

«O mia Margherita, mio fiore adorato, io non so esprimerti ciò che sento, e mi pare che nessuna parola umana potrebbe esprimerlo. È un fuoco continuo che mi arde e mi divora, è una sete inesprimibile che una sola fontana potrà estinguere. Io sono così solo nel mondo, Margherita! Tu sei tutto il mio mondo, e [p. 199 modifica]quando io mi smarrisco tra la folla, in un mare di gente sconosciuta, basta che pensi a te perchè l’anima mia vibri d’amore per tutti gli ignoti esseri che mi circondano, e intorno a me senta vibrare l’anima della moltitudine, come un mare sonoro.

«Quando ricevo le tue lettere, provo una felicità così intensa che mi dà le vertigini; mi pare d’essere giunto alla cima d’una montagna, e che debba appena stender la mano per sfiorare le stelle. È troppo... è troppo... ho quasi paura; paura di precipitare in un abisso, paura di essere incenerito dal contatto degli astri vicini. Che accadrebbe di me se tu mi venissi a mancare? Ah, tu non sai, tu non puoi capire che bestemmia pronunzi quando mi scrivi che sei gelosa delle donne che io posso incontrare qui a Roma. Nessuna donna può essere, può rappresentare per me ciò che tu sei e rappresenti. Sei la mia vita stessa, sei il passato, la patria, la razza, il sogno.»

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«Riprendo la lettera, tutto stordito da una confidenza fattami da zia Varvara pochi minuti or sono. La vecchietta entrò qui con la scusa di portare dell’acqua: era tutta arrabbiata con la padrona e cominciò a parlar male di lei. Mi disse che la Obinu ha un passato tenebroso, che ha abbandonato in Sardegna due suoi figliuoli, e che adesso continua ad avere qualche relazione equivoca....» [p. 200 modifica]

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Egli interruppe di nuovo la lettera, di cui aveva scritto le ultime righe sotto l’impulso d’un improvviso stordimento.

— Sì, — pensò, — io sono troppo vicino alle stelle.... e non vedo l’abisso dove ineluttabilmente devo cadere.... No, no, no! — disse poi a voce alta, disperatamente, scuotendo la testa. — Perchè mi ostino? Essa può essere mia madre, e non si rivela a me per continuare a vivere nel vizio!

Egli singhiozzava senza lagrime, balbettando parole sconnesse e scuotendo follemente il capo; ma ad un tratto balzò in piedi, pallido, rigido, con gli occhi vitrei

— Bisogna uscirne, bisogna che io sappia. Ma perchè questa lampada accesa, perchè questi quadretti, perchè le continue preghiere? Ebbene, appunto per ciò. Ma io ti saprò smascherare, anima perduta, io ti ucciderò!

I suoi occhi balenavano d’odio, ma all’improvviso tremò, si lasciò nuovamente cadere seduto e battè la fronte sul tavolo: oh, avrebbe voluto spaccarsi la testa, non pensare più, dimenticare, annullarsi....

Si sentì vile, gli parve d’essere viscido e nero; d’essere carne della carne venduta di sua madre, anch’egli delinquente, misero, abbietto. Ricordi tumultuosi gli passarono nella mente; rammentò i generosi propositi tante volte accarezzati, il sogno di cercarla e di redimerla, [p. 201 modifica]la pietà infinita per l’incoscienza e la irresponsabilità di lei, l’orgoglio che egli provava nel sentirsi così pietoso, la sete di sacrifizio....

Tutto menzogna. Basta un vago indizio, dato da una vecchia rimbambita, per ridestargli nell’anima una tempesta di fango, e suggerirgli l’idea del delitto!

Tutto illusione, tutto sogno in «questa cosa strana» che è la vita.

— E se fosse illusione anche ciò che penso adesso? Se io mi ingannassi? Se Maria non fosse lei? Ebbene, se non Maria è un’altra, — concluse disperato; — vicina o lontana, ella esiste e mi chiama, ed io devo ritornare sui miei passi, ricominciare, ritrovarla, viva o morta. Oh, fosse morta!

Attese il ritorno della padrona, e per calmarsi cercò di analizzare la strana passione che lo tormentava, ripetendo a sè stesso che la maggior sua pena proveniva dal crudele contrasto dei due esseri che formavano lo sdoppiamento del suo io.

Uno di questi due esseri era un bambino fantastico, appassionato e triste, col sangue malato; era ancora lo stesso bambino che scendeva la montagna natia sognando un mondo misterioso; lo stesso che nella casa del mugnaio aveva per lunghi anni meditato la fuga senza compierla mai; lo stesso che a Cagliari aveva pianto credendo che Maria-Rosa potesse essere sua madre: l’altro essere, normale e cosciente, cresciuto accanto al bambino incurabile, vedeva la [p. 202 modifica]inconsistenza dei fantasmi e dei mostri che tormentavano il suo compagno, ma per quanto combattesse e gridasse non riusciva a liberarlo dalla sua ossessione, a guarirlo dalla sua follia.

Una lotta continua, un crudele contrasto agitava notte e giorno i due esseri; e il bambino fantastico e illogico, vittima e tiranno, riusciva sempre vincitore. Egli voleva sapere, voleva scoprire, voleva raggiungere il suo intento; e soffriva della vanità della sua ricerca e della speranza di arrivare al suo scopo. Molte volle Anania si era chiesto se, libero dall’amore per Margherita, egli avrebbe sofferto egualmenle in questa sua triste ricerca. E sempre s’era risposto di sì.

La Obinu rientrò verso sera.

— Signora Maria, — disse Anania, aprendo l’uscio, — venga; devo dirle una cosa.

Ella entrò e si buttò a sedere accanto a lui: ansava per le scale salite di corsa, era insolitamente rossa, con la fronte lucente di sudore.

— Perchè sta al buio? Che cosa ha da dirmi, signor Anania? Si sente male?

La sua voce era tranquilla: e di nuovo egli sentì cadere i suoi sospetti, e gli parve ridicolo fare una scena a quella donna stanca che doveva apparecchiare la tavola per i suoi pensionanti.

  1. Fata nana delle tradizioni sarde.