Commedia (Buti)/Inferno/Canto X

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Inferno
Canto decimo

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Inferno - Canto IX Inferno - Canto XI
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C A N T O   X.



1Ora sen va per un secreto calle
      Tra il muro della terra e li martiri
      Lo mio Maestro, et io dopo le spalle.
4O virtù somma, che per li ampi giri1
      Mi volvi, cominciai, come a te piace,
      Parlami e satisfami a’ miei disiri.
7La gente, che per li sepolcri giace,
     Potrebbesi veder? Già son levati
     Tutti i coperchi, e nessun guardia face.
10Et elli a me: Tutti saran serrati,
     Quando di Giosafat qui torneranno
     Coi corpi, che lassù ànno lasciati.
13Suo cimitero da questa parte ànno
     Con Epicuro tutti i suoi seguaci,2
     Che l’anima col corpo morta fanno.
16Però alla domanda che mi faci
     Quinci entro satisfatto sarai tosto,3
     Et al disio ancor che tu mi taci.
19Et io: Buon Duca, non tengo nascosto
     A te mio cuor, se non per dicer poco,
     E tu m’ài non pur mo a ciò disposto.

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22O Tosco, che per la città del foco,
     Vivo ten vai così parlando onesto,
     Piacciati d’arrestarti in questo loco.
25La tua loquela ti fa manifesto
     Di quella nobil patria natio,
     Alla qual forse io fui troppo molesto.
28Subitamente questo suono uscio
     D’una dell’arche; però m’accostai,
     Temendo, un poco più al Duca mio.
31Et el mi disse: Volgiti, che fai?
     Vedi là Farinata, che s'è dritto:
     Dalla cintura in su tutto il vedrai.
34Io avea già il mio viso nel suo fìtto;
     Et ei surgea col petto e con la fronte,
     Come avesse lo inferno in gran dispitto.4
37E l'animose man del Duca e pronte
     Mi pinser tra le sepolture a lui,
     Dicendo: Le parole tue sien conte.
40Come io a piè della sua tomba fui,5
     Guardommi un poco, e poi quasi sdegnoso
     Mi dimandò: Chi fur li maggior tui?
43Io, ch’era d’ubbidir desideroso,
     Non gliel celai; ma tutto gliel apersi;
     Ond’ei levò le ciglia un poco in soso.6
46Poi disse: Fieramente furo avversi
     A me, et ai miei primi, et a mia parte;
     Sì che per due fiate li dispersi.
49Se fur cacciati, ei tornar d'ogni parte,
     Risposi io lui, l'una e l’altra fiata;
     Ma i vostri non appreser ben quell'arte.

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52Allor surse alla vista scoperchiata7
     Un'ombra lungo questa infino al mento:
     Credo che s'era in ginocchie levata.8
55D'intorno mi guardò, come talento
     Avesse di veder s'altri era meco;
     E poi che il sospecciar fu tutto spento,9
58Piangendo disse: Se per questo cieco
     Carcere vai per altezza d'ingegno,
     Mio figlio ov’è, e perchè non è teco?
61Et io a lui: Da me stesso non vegno:
     Colui, ch’attende là, per qui mi mena,
     Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.
64Le sue parole e il modo della pena
     M’avean di costui già letto il nome;
     Però fu la risposta così piena.
67Di subito drizzato gridò: Come
     Dicesti: Elli ebbe; non viv’elli ancora?
     Non fier nelli occhi suoi lo dolce lome?10
70Quando s’accorse d’alcuna dimora,
     Ch’io facea dinanzi alla risposta,
     Supin ricadde, e più non parve fora.
73Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
     Restato m’era, non mutò aspetto,
     Nè mosse collo, nè piegò sua costa.
76E se, continuando al primo detto,
     S’egli àn quell’arte, disse, male appresa,11
     Ciò mi tormenta più che questo letto.

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79Ma non cinquanta volte fia raccesa
     La faccia della donna, che qui regge,
     Che tu saprai quanto quell'arte pesa.
82E se tu mai nel dolce mondo regge,12
     Dimmi, perchè quel popolo è sì empio
     Incontra’ miei in ciascuna sua legge?
85Ond’io a lui: Lo strazio e il grande scempio,
     Che fece l’Arbia colorare in rosso,13
     Tal’orazion fa far nel nostro tempio.
88Poich’ebbe sospirando il capo mosso,
     A ciò non fu’ io sol, disse, nè certo
     Sanza cagion con li altri sarei mosso;
91Ma fu io sol colà dove sofferto
     Fu per ciascun di torre via Fiorenza,
     Colui che la difesi a viso aperto.
94Deh! se riposi mai vostra semenza,
     Pregai io lui, solvetemi quel nodo,
     Che tiene inviluppata mia sentenza.14
97El par, che voi veggiate, se ben odo,
     Dinanzi quel che il tempo seco adduce,
     E nel presente tenete altro modo.
100Noi veggiam come quei, ch’a mala luce,
     Le cose, disse, che ne son lontano:
     Cotanto ancor ne splende il sommo Duce.
103Quando s’appressan, o son, tutto è vano
     Nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,15
     Nulla sapem di vostro stato umano.16

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106Però comprender puoi, che tutta morta
     Fia nostra conoscenzia da quel punto,
     Che del futuro fia chiusa la porta.
109Allor, come di mia colpa compunto,
     Dissi: Or direte adunque a quel caduto,
     Che il suo nato è co’ vivi ancor congiunto.
112E s’io fui innanzi alla risposta muto,
     Fate i saper che il fei, perchè pensava17
     Già nell’error che m’avete soluto.
115E già il Maestro mio mi richiamava;
     Per ch'io pregai lo spirito più avaccio,
     Che mi dicesse chi con lui stava.
118Dissemi: Qui con più di mille giaccio:
     Qua dentro è lo secondo Federico,
     E il Cardinale e delli altri mi taccio.
121Indi s’ascose; et io in ver l'antico
     Poeta volsi i passi, ripensando
     A quel parlar che mi parea nimico.
124Elli si mosse, e poi così andando
     Mi disse: Perchè se’ tu sì smarrito?18
     Et io li satisfeci al suo dimando.
127La mente tua conservi quel che udito
     Ài contra te, mi comandò quel saggio,
     Et ora attendi qui, e drizzò il dito.
130Quando sarai dinanzi al dolce raggio
     Di quella, il cui bell'occhio tutto vede,
     Da lei saprai di tua vita il viaggio.

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133Appresso volse a man sinistra il piede;
     Lasciammo il muro, e gimmo in ver lo mezzo
     Per un sentiere, che a una valle fiede,19
136Che in fin lassù facea spiacer suo lezzo.20

  1. v. 4. per li empi giri
  2. v. 14. C. M. Come Epicuro
  3. v. 17. C. M. Qui dentro satisfatto serà tosto,
  4. v. 36. Dispitto per despitto, come disio per desio. E.
  5. v. 40. C. M. al
  6. v. 45. Soso o suso, ed oggi meglio su dal latino sursum e susum. E.
  7. v. 52. Vista; urna sepolcrale, potria derivare dal bustum de’ Latini scambiato al solito il b in v. E.
  8. v. 54. C. M. ginocchia
  9. v. 57. Sospecciare, o suspicare (come nel C. M.) vale qui attendere, sperare. E.
  10. v. 69. Non fiere li occhi ec. - Non fieron gli occhi suoi lo dolce lome? - Anche Cino da Pistoia usò di questa parola lome: e non dee recar maraviglia, se poi l’o si è mutato in u in parecchi vocaboli, perchè ciò segue ogni volta che gl’idiomi s’ingetiliscono. E.
  11. v. 77. C. M. Elli àn
  12. v. 82. Tu .... regge; riedi, tu torni. Qui è scambiato il d in gg come in cheggi, chiedi; veggi, vedi e simili. E.
  13. v. 86. C. M. colorata
  14. v. 96. Che qui à inviluppata
  15. v. 104. nol ci apporta,
  16. v. 105. Sapemo, cadenza originale, a cui ora è preferito sappiamo. E.
  17. v. 113. Fate i saper; cioè fate a luì sapere. I per gli, a lui. è accorciamento dell’illi latino. E.
  18. v. 125. C. M. Perchè se’ così smarrito?
  19. v. 135. C. M. ch’ad una valle siede,
  20. v. 136. spicciar


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C O M M E N T O


Ora sen va ec. In questo x canto intende l’autore compiere di trattar delli eretici, et apparecchiasi a scendere nell’altro cerchio; cioè nel settimo; e però lo canto si divide principalmente in due parti, perchè prima pone come prese la via da man ritta, e come trovò messer Farinata suo fiorentino, e messer Cavalcante de’ Cavalcanti; nella seconda, come messer Farinata profetoe 1 a Dante: quivi: Ma quell'altro magnanimo, ec. La prima si divide in otto parti: imperò che prima manifesta l’autore la via per la qual vanno; nella seconda si pone come Dante domanda Virgilio, quivi: O virtù somma ec.; nella terza, come Virgilio risponde a Dante, quivi: Et elli a me ec.; nella quarta, come messer Farinata parla a lui, quivi: O Tosco, che ec.; nella quinta parte pone come Virgilio lo conforta, e induce ad andare a parlare con messer Farinata, quivi: Et el mi disse ec.; nella sesta pone come messer Farinata domandando a lui parla, e come Dante li risponde, quivi: Com’io a piè ec.; nella settima pone come messer Cavalcante si levò a parlar con lui, quivi: Allor surse ec.; nella ottava pone com’elli risponde alla sua domanda, quivi: Et io a lui ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale, la quale è questa.

Prima à detto che Virgilio si volse a mano ritta e passarono tra’ martìri e li alti muri, ora continua così: Ora sen va lo mio maestro per una via segreta tra il muro della terra e li martìri; allora dice Dante che domandò, se si potesse vedere di coloro ch’erano per li sepolcri, poi che li sepolcri erano levati, e niuno facea guardia. Allora risponde Virgilio che li sepolcri saranno tutti serrati al di’ del giudicio, quando vi saranno rinchiusi li eretici con l’anime e con li corpi; e dice che da man ritta, onde sono iti, è sepolto Epicuro e’ suoi seguaci ch’ ebbono opinione, che l'anima morisse col corpo, e però 2 tosto sia satisfatto 3 alla domanda [p. 279 modifica]et al desiderio che tu mi taci. Onde Dante si scusa che se non l’à manifestato, l’à fatto per dir poco, come più volte ne l’à ammonito; ma non per celare lo suo desiderio; et in questo dice che udie una voce che uscì dell’una dell’arche, e disse che si facesse a lui che li volea parlare. Onde Dante temendo più s'accostò a Virgilio; onde Virgilio l’ammonisce che vada là, e diceli che è messer Farinata et ammoniscelo che parli chiaro e aperto. E quando Dante fu ito a lui, messer Farinata lo riguardò un poco, e poi parlamentò con lui della parte; onde Dante rispose bene, secondo ch’era stato ammonito. Allora si levò messer Cavalcante e vedendo che Dante era solo, lo domandò perchè Guido suo figliuolo, ch’era compagno di Dante, non era con lui; et allora Dante rispose che perciò non era con lui, perchè il suo figliuolo ebbe a dispetto colui che menava lui. Allora messer Cavalcante maravigliandosi della risposta, dubitò che fosse morto e domandò se vivea; e perchè Dante non rispose subito al suo dimando, cadde giuso e più non apparve; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo con l’allegorie o vero moralitadi.

C. X — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge che facesse a Virgilio una domanda di volere vedere di quelli, ch’erano per li sepolcri. Continuasi con quel che fu detto di sopra così: Poi che Virgilio si volse a man ritta, elli s'inviò per una segreta via tra le mura della terra e li sepolcri delli eretici, et elli lo seguitò, così dicendo: Ora sen va per un secreto calle; cioè via, Tra il muro della terra; del quale fu detto di sopra, e li martiri; che erano in quelli sepolcri, Lo mio Maestro; cioè Virgilio, et io dopo le spalle; cioè seguitandolo. E qui si può attendere una bella moralità; cioè che quando la ragion significata per Virgilio guida la sensualità significata per Dante per segreta via; cioè divisa e spartita da’ vizi, ella può andare sicuramente che non sarà impedita dal vizio et avrà notizia di lui; ma se la ragion si mettesse a passare per le mura, che significano ostinazione, e per li sepolcri che significano assorbimento della ragione nella falsa opinione (intanto che si crede far bene, che non è così nelli altri peccati come nella eresia; chè l’eretico si crede avere la verità e però sta fermo nella sua falsa opinione) allora sarebbe pericolo di rimanervi: imperò che chi è involto in ostinazione di peccato, o in eresia, non esce mai, se special grazia di Dio non ne ’l cava; e per tanto finge l’autore che andasse la ragion sua per un secreto calle, e la sensualità seguita in quanto narra queste cose per sì fatto modo che le fa sensibili: chè chi è che oda queste cose e questi ordini e disposizioni delli cerchi 4 che non [p. 280 modifica]li paia vedere tutta via con l’immaginazione? Seguita poi la domanda sua dicendo. O virtù somma. Ogni adiettivazione e denominazione, quantunque grande, si conviene a Virgilio, come detto è di sopra, che per li ampi giri; de’ cerchi dello inferno intende, li quali benché tutta via quanto più si scende più stringano; niente meno pur sono ancor ampi come si mosterrà nel cerchio ottavo. Può ancor dire il testo per li empi giri; cioè pieni d’empiezza 5 e di malizia. Mi volvi, cominciai; io Dante, come a te piace; cioè a te Virgilio, a man ritta et a man sinistra. E moralmente si può intendere, o ragion somma; cioè superiore che guidi l’inferiore e la sensualità, com’a te piace: imperò che, secondo la contemplazione che l’autore à avuto dello intendimento allegorico o morale, à posto lo passamente alcuna volta per lo lungo 6 un pezzo e non mai per tutto: ecco qui à posto che girassono verso mano ritta, perchè da quella pone fossono li Epicuri che teneano che non fosse altra vita che la mondana, e tra questi doveano trovare i suoi Fiorentini ch’ erano stati infetti di sì fatta eresia; e però finge che girasse da man ritta, e pose costoro da sì fatta mano per ch’ella significa operazione, e questa falsa opinione priva l'uomo d'ogni buona operazione; da man sinistra pone l’eresia che è contro la divinità, perchè priva l’uomo d’ogni divina 7 contemplazione. Parlami e satisfami a’ miei disiri; cioè ai miei desidèri, de’ quali alcuno manifesta et alcuno ne tiene celato; ma Virgilio di sotto risponderà a tutti. La gente, che per li sepolcri giace, Potrebbesi veder? Ecco l’uno desiderio dell’autore, et assegna la cagione perchè si deono poter vedere. Già son levati Tutti i coperchi; cioè de’sepolcri, sono alzati in su, e nessun guardia face. Ecco l'altra cagione, che nessuno demonio v’è posto a vietare che altrui non vada a vedere, et ancor che chi v’è dentro non si possa far fuori.

C. X — v. 10-21. In questi quattro ternari l’autor nostro finge la dichiaragione che Virgilio fa de’ suoi domandi, dichiarando eziandio quel che non domandava; ma avea desiderio di sapere, e però dice: Et elli; cioè Virgilio disse, a me; Dante: Tutti saran serrati; cioè li sepolcri che ora sono aperti, Quando di Giosafat qui torneranno Coi corpi che lassù ànno lasciati; cioè dopo il giudizio universale. Giosafat è una valle et è in Asia presso a Gerusalem, nella quale si ragunerà tutta l'umana generazione, resuscitata l’anima col corpo, e quivi discenderà Cristo a giudicare insieme con li apostoli, li buoni e li rei, mandando li rei alle pene dell’inferno, e chiamando li buoni alla gloria del paradiso, e questo sarà dopo la [p. 281 modifica]destruzione del mondo, la quale dè essere con fuoco; e però dice Virgilio che stanno ora aperti li sepolcri, perchè vi son pur l’anime: allora si chiuderanno quando vi sieno l’anime coi corpi, che non ve ne saranno 8 più ad entrare, perchè sarà consumato lo secolo; e questa è un’altra ragione oltra quella, che fu detta di sopra. Suo cimitero da questa parte ànno Con Epicuro tutti i suoi seguaci. Epicuro fu uno filosofo che rinnovò la setta d’Aristippo, e tenea che non vivesse l’anima dopo il corpo 9; e questa opinione è eretica, e però finge l’autore che tutti color che seguitano questa opinione insieme con Epicuro sieno sepolti in quelli sepolcri. Et è qui da notare che però finge l’autore che li eretici sieno sepolti: imperò che niuno peccato ammorta tanto la ragione, quanto l’eresia: imperò che nelli altri peccati l’uomo si può riconoscere che fa male; ma l’eretico, se Dio non ne ’l cava per special grazia, non si può riconoscere, perch’elli si crede avere la vera opinione. Che l’anima col corpo morta fanno; ecco la loro eresia per la quale sono dannati. Però alla domanda che mi faci 10 Quinci entro satisfatto sarai tosto. Qui risponde alla domanda che Dante fece dicendo, che tosto sarà certificato, se la gente che è per li sepolcri si potrebbe vedere: imperò che ne vedrà, come apparirà di sotto. Et al disio ancor che tu mi taci; cioè sarà ancora satisfatto al desiderio tuo, che non me lo manifesti; questo era, ch’elli desiderava di sapere particularmente, se v’era messer Farinata, e messer Cavalcante, li quali erano vivuti in sì fatta eresia, et elli ve li troverà, sì che ben fia satisfatto a questo desiderio. Potrebbesi qui dubitare dalla gente grossa, come indovinava Virgilio lo desiderio di Dante. A che si può rispondere che la ragione sa che la sensualità cerca di sapere le cose particulari, com’ella l’universali per le particulari, e ch’ella non può comprendere l’universalità, sì che benché Dante domandasse universalmente, quando disse: La gente, ec.; la intenzione sua era sapere particularmente, se vi erano de’ Fiorentini e chi erano quelli; e questa è fizione dell’autore. Et io; cioè Dante risposi: Buon Duca, non tengo nascosto A te mio cuor, se non per dicer poco; cioè per non dir troppo, quasi dica: S’io domandai generalmente, io lo feci per parlare brievemente: chè il mio cuor, tu sai, ch’io nol tengo occulto, E tu m’ài non pur mo a ciò disposto; cioè tu me n’ài ammaestrato ancora altra volta.

C. X — v. 22-30. in questi tre ternari l'autor nostro finge che come andava così parlando con Virgilio, egli udì uscire una voce di [p. 282 modifica]quelli sepolcri, per la quale spaventato s’accostò a Virgilio, e però dice: O Tosco; cioè o Toscano, che per la città del foco; cioè per la città Dite, ove è continuo foco, come detto fu di sopra, Vivo ten vai così parlando onesto; questo dice per la risposta che Dante avea fatta a Virgilio, che fu assai onesta, Piacciati d’arrestarti in questo loco; ad attendere un poco a me, dice la voce. La tua loquela ti fa manifesto Di quella nobil patria natio; quasi dica: Al parlar ti manifesti esser Fiorentino. E commenda qui l’autore la sua patria di nobiltà, perchè, disfatta Fiesole, nobili romani edificarono Fiorenza, come si dirà di sotto. Alla qual forse io fui troppo molesto. Accusasi questo che parla, che fu messer Farinata del quale si dirà di sotto, d’avere inquietato e molestato la pace della sua patria con le sue sette, e divisioni. Subitamente questo suono uscio D’una dell’arche. Parla ora Dante, notificando che le parole dette di sopra uscirono d’uno sepolcro. però m’accostai, Temendo, un poco più al Duca mio; cioè a Virgilio; e questo dice l’autore per mostrare ch’elli s’accostasse più alla ragione, avendo a parlare con suo Fiorentino parziale, avverso a lui, temendo che l’affezione nol movesse a parlare indebitamente.

C. X. — v. 31-39. In questi tre ternari l’autor nostro finge che poi s’accostò a Virgilio, spaurito della voce, Virgilio lo certificò chi era, e sospinselo là a lui, et ammonillo; e dice così: Et el; cioè Virgilio, mi disse; cioè a me Dante: Volgiti, che fai? Vedi là Farinata, che s’è dritto; cioè levato in piè: Dalla cintura in su tutto il vedrai; perchè apparirà fuor del sepolcro da indi in su. Questo fu messer Farinata delli Uberti, li quali furono grandi gentiluomini di Fiorenza, ghibellini, e per tanto fu contrario alli antichi di Dante come apparirà di sotto, e fu eretico che non credea essere altra vita che questa; e per questa eresia cadde nelli altri vizi, pigliando piacere delle cose del mondo più che non si convenia, e però di sopra nel canto vi ove tratta della gola, parlando con Ciacco dice: Farinata e il Tegghiaio, che fur sì degni; e Ciacco rispose: Diversa colpa giù li grava al fondo. Finge l’autore che si fosse levato in piè e fatto fuori del sepolcro, a significare che la sua eresia non tenea celata, anzi la pubblicava. Io avea già il mio viso nel suo fitto; dice Dante che, per riconoscerlo, già lo riguardava fiso; Et ei surgea col petto e con la fronte; cioè tenea il petto e la fronte alta, e per questo mostrava che dispregiasse l’inferno, e però dice: Come avesse lo inferno in 11 gran dispitto; et in questo si dimostrano la pertinacia e la rebellione che sono delle figliuole della superbia, e compagne dell’eresia, come fu detto di sopra al cap. ix; e queste furono in messer Farinata [p. 283 modifica]Farinata, lo quale publicamente approvava la sua eresia e dispregiava l’inferno, per ch’elli dicea che non era nè paradiso, nè purgatorio, nè inferno. E l'animose man del Duca e pronte: cioè di Virgilio, Mi pinser tra le sepolture a lui; cioè a messer Farinata, Dicendo: Le parole tue sien conte; parla apertamente e ordinatamente. E per questo vuol dimostrare che da franchezza e prontezza d’animo viene andare a parlare con li suoi avversari, e però l'ammonisce che le parole sue sieno conte, acciò che non escano del modo come suole alcuna volta fare l’odio; e questo è quanto al testo. Allegoricamente è, che con li eretici si vuol parlare apertamente et ordinatamente, sì che non abbino afferratoio alcuno, e che l’uomo non dee andare a parlare con loro, se non è mandato dalla ragione; cioè se non vi va bene informato della ragione.

C. X — v. 40-51. In questi quattro ternari l’autor nostro finge il ragionamento ch’elli ebbe con messer Farinata, nel qual ragionamento induce e improverò l’uno all’altro delle parti, onde dice: Come io; cioè Dante, a piè della sua tomba fui, Guardommi un poco; messer Farinata per riconoscermi, e poi quasi sdegnoso; et in questo mostrò la sua superbia, Mi dimandò: Chi fur li maggior tui; cioè li antichi tuoi? Io, ch’era d’ubbidir desideroso; cioè a Virgilio che m’avea detto: Le parole tue sien conte, Non gliel celai; ma tutto gliel apersi. L’antico di Dante fu messer Cacciaguida del Sesto di Porta Sampiero, et ebbe due fratelli; cioè Moronto e Eliseo, et ebbe donna che fu di Val di Pado, e di quindi furono detti 12 quelli di Val di Pado, et ebbe uno figliuolo che fu chiamato Allighieri che fu bisavolo di Dante, e di quindi furon detti li Allighieri di Val di Pado, e il padre di Dante ebbe nome Aldighiero. Or questi furon guelfi, gentili uomini et ebbono sempre buono stato nella loro città, sì che voleano che Firenze si reggesse sotto governo e reggimento comune e popolare; onde 13 sopra avvenendo le parti de’ guelfi e de’ ghibellini nella città, cominciarono a tiranneggiare per occupar la signoria, a fine di cacciar l’un l’altro; onde li Uberti, li Abbati, Lamberti con altri lor seguaci e capi di parte ghibellina e nobili e popolari, cacciarono fuori i guelfi et i lor seguaci, tra’ quali furono cacciati li antichi di Dante, vivente et operante a ciò messer Farinata ch’era capo della parte ghibellina. E poi che furon ritornati in Fiorenza per conci 14 et accordi, come è usanza, anche un’altra volta furon cacciati, onde ritornando poi quella seconda [p. 284 modifica]volta cacciarono messer Farinata e' suoi, e mai non vi tornarono che v’avessono stato. E quei di Dante ancor, vedendo poi usurpare la libertà comune e volendo contrastare, non v’ebbono mai buono stato; e però Dante non osava stare in Fiorenza, onde contando a messer Farinata il nome de’ suoi antichi, messer Farinata insuperbito, rimproverò a Dante e però dice: Ond’ei levò le ciglia un poco in soso; come fa il superbo. Poi disse: Fieramente furo avversi A me, et ai miei primi, et a mia parte; Sì che per due fiate li dispersi; come appare di sopra; onde Dante risponde: Se fur cacciati, ei tornar d’ogni parte, Risposi io lui, l’una e l’altra fiata; come è detto; Ma i vostri non appreser ben quell’arte: imperò che non vi tornaron mai.

C. X — v. 52-60. In questi tre ternari finge l’autore che in quel mezzo che parlamentava così, come di sopra è detto, con messer Farinata, venne a parlar con un’altra ombra ch’era in uno medesimo sepolcro con lui; onde dice: Allor; cioè quand’io diceva così, come detto è di sopra, surse alla vista scoperchiata; cioè alla bocca del sepolcro, Un’ombra lungo questa infino al mento; cioè allato a questa di messer Farinata appariva fuori infino al mento. Credo che s’era in ginocchie levata; dice Dante che al suo credere stava ginocchione. Questo fu messer Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di Guido, amico grande e compagno di Dante, lo quale fu della setta di messer Farinata in eresia, e però lo mette seco in un sepolcro; e non mostrò l’eresia sua sì palese, come messer Farinata, e però finge che non si mostri tanto fuori del sepolcro; e non fu ancor sì superbo, e però finge che si levasse in ginocchia e non ritto, come messer Farinata. D’intorno mi guardò; dice Dante, come se volesse vedere chi era meco, e però dice: come talento Avesse di veder s’altri era meco; e questo facea per vedere, se Guido suo figliuolo fosse con Dante. E poi che il sospecciar; che elli avea del figliuolo, fu tutto spento; che vide che non v’era, Piangendo disse; messer Cavalcante a me Dante: Se per questo cieco Carcere vai; tu Dante, per altezza d’ingegno; e per questo può essere manifesto ad ogni uomo del modo, per lo qual 15 Dante andò all’inferno; cioè con l’ingegno suo, Mio figlio; cioè Guido, ov’è, e perchè non è teco; quasi dicesse così: Era elli d’alto ingegno come tu, come non à fatto qualche opera simile come tu?

C. X — v. 61-72. In questi quattro ternari l’autor nostro finge la risposta ch’elli fece a messer Cavalcante alla domanda sua, e com’elli si ritornò a giacere. Dice così: Et io; cioè Dante, a lui; risposi, s’intende: Da me stesso non vegno; per questo carcer cieco, [p. 285 modifica]Colui, ch’attende là; cioè che m’aspetta colà, per qui mi mena; cioè me Dante: questi era Virgilio, Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno; questo dice l’autore perchè Guido dispregiava li poeti, e Virgilio come li altri; e dice forse, per parlare più onesto. Et è qui da notare che alcuna volta Virgilio in questa Comedia si pone pure per Virgilio come nel primo canto et ancor qui; et alcuna volta per la ragione pratica della poesia, come quando nella seconda cantica l’autor finge che Virgilio si parta da lui et abbandonilo; alcuna volta e per la ragione superiore et inferiore, et alcuna volta per l’una solamente; e però è necessario che lo lettore intenda secondo che è necessario al testo, e però ora 16, quando dice che Virgilio l’aspettava, vuole intendere che a parlamentare con questi suoi Fiorentini non usava la ragione pratica della poesia, perchè finge che parlassono di cose che non si stendevano a poesia; e così si dee intendere, quando dice che Guido ebbe a disdegno Virgilio. Le sue parole; cioè di messer Cavalcante, e il modo della pena: imperò che era come d’eretico, M’avean di costui già letto il nome; cioè m’aveano manifestato chi era, Però fu la risposta così piena: imperò che subitamente rispose. Di subito drizzato; qui si mostra la superbia: imperò che tutti li eretici, e quelli che sono dentro alla città Dite, sono sottoposti alla superbia, o alla invidia che è sua figliuola; e ritto subito messer Cavalcante, gridò: Come Dicesti: Elli ebbe; cioè tu dicesti: Ebbe a disdegno, che mostra che sia morto, e però domanda, non viv’elli ancora; parlando di Guido suo figliuolo? Non fier nelli occhi suoi lo dolce lome; cioè la chiarità del cielo e del sole? E per questo domanda quel ch’à detto di sopra. Altro testo dice: Non fieron li occhi suoi lo dolce lome? E questo s’intenderebbe, come dice nella Prospettiva, che li occhi veggono mettendo fuori li raggi visuali, e percossi nella cosa veduta, si riflettono alli occhi mediante la luce 17, e rapportano all’occhio. Quando s’accorse d’alcuna dimora, Ch’io facea dinanzi alla risposta; e questa dimora era, perchè Dante era entrato in altro pensieri, come apparirà di sotto: Supin ricadde; cioè ritornò rovescio com’era prima, e più non parve fora; cioè e più non si vide poi. E questo finge l’autore, perchè il superbo cade rovescio 18 e non boccone: imperò che tal cadere s’appartiene al superbo, che tanto si beva e spigne il petto 19 in fuori, che cade addietro; e però significa tal cadere superbia, come il cader boccone significa umiltà. [p. 286 modifica]Ma quell'altro ec. Questa è la seconda lezione del canto, nella quale si contiene ancora certo ragionamento con messer Farinata e lo passamento al settimo cerchio, la qual si divide in sei parti: imperò che prima pone come messer Farinata risponde ad alcun detto di Dante et annunciali danno, e domanda la cagione perchè lo popolo di Firenze era sì empio contra li suoi; nella seconda pone Dante la risposta sua, quivi: Ond’io a lui ec.; nella terza pone, come domanda messer Farinata d’alcuno dubbio, e com’elli lo solve, quivi: Deh! se riposi cc.; nella quarta pone come impose a messer Farinata che rispondesse a messer Cavalcante, e come Virgilio lo richiamò, e come messer Farinata li manifestò delli altri ch’erano con lui, quivi: Allor, come ec.; nella quinta pone come ritornato a Virgilio, Virgilio lo conforta, quivi: Indi s’ascose ec.; nella sesta pone lo suo processo inverso lo settimo cerchio, quivi: Appresso volse ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale, la quale è questa.

     Così cadde messer Cavalcante, come detto fu di sopra; ma quell'altro; cioè messer Farinata, non si mutò punto per quella caduta di messer Cavalcante, nè per le parole di Dante; e ritornando al parlare di prima disse: Li miei ànno male appreso l’arte del ritornare 20; di questo mi duole più che di questa mia pena; ma non passeranno cinquanta lunari, che, tu Dante, saprai quanto pesa quell’arte; e se mai torni nel mondo, dimmi perchè il popolo fiorentino è così empio contra’ miei in ciascuna sua legge ch’elli fa. Allora rispose Dante: Lo strazio e il grande scempio, che fece diventare l’Arbia sanguinosa, è cagione di questo. A questo messer Farinata sospirando e menando lo capo rispose, che a quel che detto fu per Dante elli non era stato solo, che altri era stato con lui cagione di questo, nè non fu sanza cagione lo movimento suo, e delli altri; ma dice: Io fui ben solo nel consiglio ove si determinava di toglier via Fiorenza, colui che la difesi a faccia aperta. E dopo questo disse Dante a lui pregandolo: Deh! se riposi mai vostra semenza, solvetemi un dubbio il quale io ò; che mi pare che voi passati del mondo vedete le cose future, e le presenti che sono nel mondo non comprendete. Et a questo risponde, che li passati veggono come colui ch’à mala luce, che vede le cose da lungi; ma non da presso: e così ellino veggono il futuro; ma non il presente. Et aggiugne una conclusione che seguita da questa; che quando fia finito questo mondo, non vedranno più alcuna cosa: imperò che non fia più futuro; ma fia presente. Allora dice Dante, come pentendosi di non aver risposto a messer Cavalcante, disse a messer Farinata che li dicesse, che il [p. 287 modifica]suo figliuolo Guido è ancor vivo, e che se io fui dinanti tardo a risponderli, diteli ch’io il feci perchè i’ era in pensieri dell’errore che m’avete sciolto; e dice Dante che già Virgilio lo richiamava, perch’elli pregò messer Farinata più tosto che gli dicesse quelli ch’erano con lui. Et allora disse ch’era con più di mille: ecci lo secondo Federigo e lo Cardinale, e delli altri mi taccio; e detto questo si tornò a giacere, perchè Dante si mosse tornando a Virgilio, col pensiere sopra quel che avea udito. Allora si mosse Virgilio, et andando domandando Dante per ch’era così smarrito, e Dante li disse la cagione; et allora Virgilio l’ammonisce ch’elli tenga a mente quel ch’à udito contra sè, e che quando sarà dinanzi a Beatrice sarà dichiarato del corso della sua vita; e poi si volse in verso mano sinistra, e lasciarono il muro della città e tennono verso il mezzo ad una valle, ove si discendea; che in fino lassù spuzzava; e qui finisce il canto. Ora è da vedere il testo con l’allegorie e moralitadi.

C. X — v. 73-84. In questi quattro ternari l’autor nostro fìnge, che messer Farinata rispondesse al suo detto et annunziasseli danno, e domandasse la cagione perchè il popolo di Firenze era sì empio contra di lui, e contra’ suoi, dicendo prima in che condizione rimase, dopo la caduta di messer Cavalcante, messer Farinata. Dice così: Ma quell altro magnanimo; cioè messer Farinata, a cui Dante avea risposto di sopra, a cui posta; cioè a posta del quale, Restato m’era; io Dante, non mutò aspetto; cioè non mutò vista, nè volto, Nè mosse collo; come suole muover l’uomo, quando ode quel che gli dispiace, nè piegò sua costa; quasi dica: Stette immobile. E qui è da notare le condizioni del magnanimo, che non si muta nelli atti di fuori, benché oda cosa che li dispiaccia, come lo pusillanimo; e notantemente tocca l’autore qui tre movimenti che fa l’uomo comunemente, quando ode cosa che li dispiace; lo primo si è che si muove nel volto e cambiasi, e questo intese prima quando disse: non mutò aspetto; lo secondo è quando disse poi: Nè mosse collo; lo terzo si è quando si muove tutto, e questo intese quando disse: nè piegò sua costa. Et è da notare che il secondo è maggior che il primo, e il terzo che il secondo; e chi si contiene dal terzo, non si contiene dal secondo; e chi si contiene dal secondo, non si contiene dal primo; e chi si contiene da tutti, à grande costanzia. E ancor è da notare che questa magnanimità era in messer Farinata per vizio e non per virtù; cioè per superbia: imperò che in inferno non può essere virtù. Ma continuò lo suo detto incominciato, onde dice: E se, continuando al primo detto; che detto fu di sopra, S’egli àn quell arte, disse; cioè del tornare e del cacciare, male appresa; cioè male apparata li miei, Ciò mi tormenta [p. 288 modifica]tormenta più che questo letto; cioè io n’òe 21 maggior dolore che dello star qui in questo sepolcr: imperò che vorrebbe che facessono come avea fatto elli; e qui si dimostra l’ostinazione de’ dannati che sempre vorrebbono il male che vollono in questa vita. Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna, che qui regge; cioè di Proserpina, la quale è reina dell’inferno, secondo che fingono i poeti, et è luna nel cielo, et allora si dice raccendere quando si congiugne col sole, che è ad ogni innovazione di luna, la quale si fa in di’ xxviii et ore, sì che vuole intendere; non passaranno mesi cinquanta. E per intendere questo si dee notare che li autori fingono che Proserpina fosse figliuola di Cerere ch’è idia della biada, e di Giove; la quale, quando era giovinetta con l’altre sue compagne cogliendo fiori in un bel prato di Sicilia, presso al monte che si chiama Etna, fu ratta da Plutone dio dell’inferno, e menatane nell’inferno per uno stagno che si chiama Ciane. Lo quale uscito dell’inferno per vedere come stava la Sicilia, che l’avea udita tremare sì, che dubitava che la terra si scoprisse quivi, e venisse meno lo suo regno, e’ fu saettato da Cupidine idio dell’amore a ciò che innamorasse di Proserpina. Onde Cerere, udito che la figliuola era stata rapita e non sapea da cui, andolla cercando per tutto il mondo e venendo a quello stagno ond’era discesa, vide la cintola di Proserpina nella sommità dell’acqua e per quella comprese che fosse stata rapita quindi, e non sappiendo da cui, per vendetta mise sterilità nelle biade in Sicilia; ond’è una fonte che si chiama Aretusa che fingono li poeti che fosse una femmina di Grecia mutata in fonte e che sotto il mare passi 22 in una isola che si chiama Ortigia o vero Delo, e di quindi passa sotto il mare in Cicilia; onde fingono che vada tanto sotto la terra ch’ella vada per l’inferno, e ch’ella quivi vedesse Proserpina, e disse a Cerere, a ciò che rimovesse la sterilità di Cicilia, che la sua figliuola era nell’inferno moglie di Plutone. Allora Cerere se n’andò a Giove 23, e domandò grazia di riavere la sua figliuola, ch’ella non volea che fosse moglie di Plutone. A che Giove rispose che la riaverebbe, se ella non avesse mangiato delle cose dell’inferno; onde Giove mandò a dire a Plutone che rendesse Proserpina: a che rispose che non la dovea rendere, ch’avea mangiato granella di melegrane 24 dell’orto dello inferno, e di questo l’accusò a Scalafo figliuolo d’Orne ninfa dell’inferno, e d’Acheronte fiume; e pertanto Proserpina [p. 289 modifica]li gittò dell’acqua della palude Stige addosso e mutollo in gufo, o vero in barbagianni. Allora Giove per contentare la figliuola e il fratello, trasse patto che la metà dell’anno dovesse stare di sotto nell’inferno, e l’altra metà di sopra; e però dicono che questa è la luna, che tanto sta nell’emisperio di sotto, quanto di sopra. Ma l’autor nostro per Proserpina allegoricamente intende la superbia, la quale è regina dell’inferno et è moglie del Lucifero: imperò che con lui sempre sta congiunta. Che tu; cioè Dante, saprai quanto quell’arte pesa; cioè del tornare e del cacciare; e questo dice per tanto: imperò che dal di’, che l’autore finge ch’avesse questa meditazione, non passarono tre anni e due mesi ch’elli e’ suoi furono cacciati di Firenze, sì che non vi tornarono, e perdè Dante tutto il suo. E se tu mai nel dolce mondo regge; cioè torni: priega messer Farinata e scongiura Dante che se mai ritorna nel mondo, li dica per che cagione il popolo di Firenze è sì empio contra li suoi in ogni legge ch’elli fa; e però dice: Dimmi, perchè quel popolo; cioè fiorentino, è sì empio Incontra’ miei; cioè contra li Uberti de’ quali era messer Farinata, in ciascuna sua legge? Questo dice perchè d’ogni legge che si facea a grazia delli usciti, li Uberti n’erano eccetti; e se si facea a danno, v’erano nominati; o forse in ogni legge diceano: Ad onore del presente stato, et a destruzione delli Uberti e lor seguaci; o Ad onore e stato di parte guelfa, et a male e destruzione di parte ghibellina, della quale i detti Uberti erano caporali.

C. X— v. 85-93. In questi tre ternari finge l’autore ch’elli desse risposta a messer Farinata alla sua domanda, dicendo: Ond’io; cioè Dante, a lui; cioè a messer Farinata dissi: Lo strazio e il grande scempio; fatto del popolo di Firenze, Che fece l’Arbia; cioè quel fiume, colorare in rosso; cioè in sangue. Et intorno a questo è da sapere ch’essendo messer Farinata con la sua parte e seguaci fuori di Firenze, accostossi con la parte di Toscana ghibellina e col conte Giordano vicario del re Manfredi; e combatterono nel terreno di Siena a Monte Aperti, presso a uno fiume chiamato Arbia col popolo di Fiorenza 25, e fu fatto grande strazio e scempio di loro; sicché per la grande uccisione e spargimento di sangue, l’Arbia diventò rossa, e pertanto dice che il popolo di Fiorenza era così empio contra messer Farinata e li suoi; e però soggiugne: Tal’orazion fa far nel nostro tempio; cioè a destruzion degli Uberti; e dice nel nostro tempio o per porre la parte per lo tutto, secondo quel colore retorico, che si chiama intellezione; cioè in Firenze: o perchè al vero le leggi e li statuti si soleano fare coi consigli, che si faceano [p. 290 modifica]nelle chiese anticamente per la moltitudine del popolo. Poich’ebbe sospirando il capo mosso 26; cioè messer Farinata, lo qual benchè stesse immobile alla prima risposta di Dante, come appare di sopra, qui non potèe 27 essere contenente; ma crollò il capo, lo qual fu segno d’arroganzia e di dispetto con dolore, come appare nel sospiro, e disse: A ciò non fu’ io sol, disse; quasi dica: Molt’altri furono meco; e questo dice perchè in quella sconfitta da Monte Aperti furono ancora li Abbati come li Uberti. I quali essendo col popolo di Firenze, messer Bocca delli Abbati tradìe il popolo di Firenze, come si dirà di sotto, nel xxxii Canto, nè certo Sanza cagion con li altri sarei mosso; e questo dice perchè era troppo perseguitato dalla parte ch’era dentro, sicchè li diè cagione d’esser contra il popolo fiorentino, e l’altra parte guelfa di Toscana. Ma fu’ io sol; dice messer Farinata, colà dove sofferto Fu per ciascun; di quelli della mia parte, di torre via Fiorenza, Colui che la difesi a viso aperto. Questo dice perchè una volta quelli della parte sua, vedendo che non poteano reggere la città come desideravano, feciono consiglio di mettere a ruba et ad incendio tutta la città, e disfarla e mettere al taglio della spada tutti coloro, che non fossono di lor setta, et andare ad edificare un’altra città pur di loro. Allora messer Farinata solo contradisse e difese che non si facesse; e chi dice che fu, quando tutta la ghibellina parte di Toscana si ragunarono e feciono consiglio di disfar Fiorenza, nel qual consiglio fu messer Farinata et i suoi, e li altri tutti lo consentivano, e messer Farinata solo contradisse.

C. X — v. 94-108. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come elli domandò messer Farinata d’un dubbio che li occorse, e come messer Farinata lo solve, quivi: Noi veggiam ec. Dice prima Dante, pregando messer Farinata: Deh! se riposi mai vostra semenza; quasi dica: Io vi prego per riposo de’ vostri, Pregai io lui; cioè io Dante, messer Farinata. E qui occorre uno dubbio testuale; se i dannati desiderano la salute de’ suoi parenti che sono nel mondo. E par che sì: imperò che Dante lo scongiura; per ciò lo contrario appare: però che i dannati non possono volere, se non male: però che sono ostinati in male, adunque non possono desiderare la salute di lor parenti. A questo si può rispondere, benchè il Maestro delle sen[p. 291 modifica]tenzie nel quarto libro nella fine non la determina, assegnando santo Agostino che l’anime dannate possono desiderare la salute de’ suoi vivi; e questo è loro a tormento: imperò che in ciò affliggono sè; e per tanto scongiura di ciò l’autore messer Farinata. Et alla ragion fatta in contrario si può rispondere, che i dannati non possono volere bene, che sia, loro meritorio; ma sì quello che cresce loro la pena, solvetemi quel nodo, Che tiene inviluppata mia sentenza; e questo nodo; cioè dubbio di sentenzia inviluppata, era nato in Dante e sì per quel ch’avea udito di sopra da Ciacco, e sì per quel che avea udito da messer Farinata delle cose, che dovea venire, e da messer Cavalcante udì che non sapea se Guido suo era vivo. E però finge Dante che non li desse risposta per lo dubbio che li occorse nel quale elli pensava: imperò che, poichè vedea che sapeano il futuro, pensava che dovessono sapere ancora il presente; e però soggiugne lo dubbio, dicendo: El par, che voi; cioè dannati, veggiate, se ben odo; io Dante, Dinnanzi quel che il tempo seco adduce; cioè vedete quel che dè venire dinanzi, E nel presente; cioè nel tempo presente, tenete altro modo: però che non pare che voi sappiate. A che risponde messer Farinata: Noi veggiam; cioè noi dannati, come quei, ch’à mala luce; cioè che à il mal vedere, Le cose, disse, che ne son lontano; cioè che sono dalla lungi: Cotanto ancor ne splende il sommo Duce; cioè Idio cotanto di splendore ancora dà a noi dannati, che noi sappiamo le cose future per le loro cagioni. Quando s’appressan, o son; cioè le cose, tutto è vano Nostro intelletto: imperò che non sappiamo le presenti, perchè siamo separati dalla conversazion 28 de’ vivi, se non in quanto ci fosse rivelato da’ demoni; e però dice: e s’altri non ci apporta; cioè a noi, Nulla sapem di vostro stato umano. E questo è perchè l’anima à altro modo di conoscere congiunta al corpo, che quando è separata: imperò che quando è congiunta, conosce per le virtù sensitive per conversione alle figure, e però non può sapere se non le presenti l’uomo, mentre che vive. E questo s’intende delle contingenti: chè delle necessarie future à l’uomo bene notizia; e separata à intendere per intelletto, e questo intendere non si stende alle cose particulari e presenti; ma solamente alle universali e future. E per questo possono sapere le cose future per le loro cagioni; ma non per sè medesimo: chè per sè medesimo non l’à altro che Idio; ma l’anime beate conoscono le presenti e le future, come dice santo Agostino: Quid est quod non videant, qui videntem omnia vident? E soggiugne messer Farinata una corollaria conclusione, dicendo: Però comprender puoi; tu Dante, dice messer Farinata, che tutta morta Fia nostra conoscenzia; cioè [p. 292 modifica]di noi dannati, da quel punto; cioè dal Giudicio innanzi, Che del futuro fia chiusa la porta: però che nulla sarà più futuro. Questa conclusione seguita dalle predette, che ogni conoscimento de’ dannati verrà meno dopo la giudicio 29: imperò che, se lo loro conoscimento non si estende se non al futuro e da indi in là non sarà più futuro: però che sarà vita eterna, seguita dunque che non conosceranno più alcuna cosa: imperò che non sarà se non presente.

C. X — v. 109-120. In questi quattro ternari finge l’autore che elli pregò messer Farinata che lo scusasse a messer Cavalcante, e come Virgilio lo richiamava e come domandò delli altri, e come messer Farinata li manifestò, dicendo così: Allor, come di mia colpa compunto, Dissi; io Dante: Or direte adunque; cioè voi, messer Farinata, a quel caduto; cioè a messer Cavalcante, Che il suo nato; cioè Guido, è co’ vivi; cioè nel mondo, ancor congiunto. E s’io; cioè Dante, fui innanzi alla risposta muto; cioè che non risposi, Fate i saper che il fei, perchè pensava Già nell’error che m’avete soluto; come detto fu di sopra. E già il Maestro mio; cioè Virgilio, mi richiamava; per ch’io tornassi a lui; Per ch’io 30; Dante, pregai lo spirito; cioè messer Farinata, più avaccio, Che mi dicesse chi con lui stava; cioè chi erano quelli ch’erano con lui in quel sepolcro: imperò che l’autor finge, come di sopra fu detto, che in ogni sepolcro fosse una spezie d’eresia, sicchè in quel di messer Farinata si punivano li eretici, ch’aveano tenuto che non fosse altra vita, e che l’anima morisse col corpo; e per volere nominare di quelli eretici, finge l’autore che ne domandasse, e fagli nominare a messer Farinata. Dissemi; cioè messer Farinata a me Dante: Qui; cioè in questo sepolcro, con più di mille giaccio: dimostra grande essere lo numero de’ così fatti eretici. Qua dentro è lo secondo Federico. Ecco che nomina lo imperador Federigo secondo, il quale fu di quella eresia; onde per pruova della sua eresia fece inchiudere uno dannato alla morte in una botte bene impeciata, onde lo misero, non potendo avere espiramento d’aere vi morì dentro, e in su la morte gridò forte tanto, che la voce s’udì dallo imperadore e dalli altri circustanti, e trovatolo poi morto, disse lo imperadore alli circustanti: Voi dite che l’anima vive dopo questa vita, onde uscì l’anima di costui della botte? Risposono li circustanti: Onde uscì la voce che voi udisti 31; e [p. 293 modifica]non di meno si rimase pure nella sua eresia. E il Cardinale; questo fu il Cardinale delli Ubaldini, lo quale fu eretico di simile eresia, e fu molto favoreggiatore di parte ghibellina, sì che per quella fece ogni cosa. Venendo a morte disse: Se anima è, per parte ghibellina l’ò perduta, e così morì 32, e delli altri mi taccio; quasi dica: Li altri non voglio nominare.

C. X. — v. 121-132. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come ritornò a Virgilio, e come Virgilio lo conforta sopra il pensier ch’avea preso dal tristo annunzio di messer Farinata, dicendo: Indi; cioè poi, s’ascose; messer Farinata nel sepolcro, et io; cioè Dante, in ver l’antico Poeta; cioè Virgilio, volsi i passi, ripensando A quel parlar; che m’avea fatto messer Farinata, che mi parea nimico: però ch’elli annunciava male. Elli; cioè Virgilio, si mosse; a seguire il cammino, e poi così andando Mi disse; cioè Virgilio a me Dante: Perchè se’ tu sì smarrito? Questo domanda, perchè Dante era impenserito di quel tristo annuncio. Et io; cioè Dante, li satisfeci al suo dimando; cioè li manifestai lo mio pensieri. Allora, quel saggio; cioè Virgilio, mi comandò: La mente tua; Dante, conservi quel che udito Ai contra te; da messer Farinata, Et ora attendi qui; disse Virgilio, e drizzò il dito; per maggior demostrazione d’alcuna special verità. Quando sarai dinanzi al dolce raggio; tu Dante, Di quella; cioè di Beatrice che significa la santa Teologia, la quale, raggia nelli cuori umani la verità della fede, il cui bell’occhio tutto vede: imperò che spirata 33, ogni cosa vede, Da lei saprai di tua vita il viaggio; cioè dalla santa Teologia saprai che corso dè aver la tua vita; e questo finge l’autore, perchè intende di sotto nella terza cantica inducere Beatrice a manifestarli il processo e il fine della sua vita.

C. X. — v. 133-136. In questo ternario e un verso l’autor nostro finge il suo processo verso il vii cerchio, dicendo così: Appresso; cioè dopo quel che disse di sopra, volse; Virgilio, a man sinistra; cioè a man 34 manca: imperò che essendo ito lungo il muro verso man ritta, volendosi partire dal muro, convenia che tenesse verso man manca. Lasciammo il muro; cioè Virgilio et io Dante, della città Dite, e gimmo in ver lo mezzo; del cerchio, Per un sentiere, che a una valle fiede; cioè che capita alla valle ove si discende nel vii cerchio, come la saetta che termina lo suo corso ove ella ferisce. Che in fin lassù; cioè dalla proda della valle, facea spiacer suo lezzo; cioè sua puzza e lo lezzo che uscia del vii cerchio. E qui finisce lo x canto.

Note

  1. C.M. Profeta a Dante
  2. Altrimenti - e per tanto tosto
  3. C. M. fia sodisfatto
  4. C. M. disposizioni delli eretici che
  5. Altrimenti - d’impietà
  6. C. M. per lo traverso del cerchio, alcuna volta per lo di lungo un pezzo
  7. C. M. d’ogni buona contemplazione.
  8. C. M. quando fino l’anime col corpo, che non ve ne fi più
  9. C. M. dopo il corpo; ma morisse insieme col corpo; e questa
  10. Faci, face, cadenze primitive e regolari dal verbo facere, alle quali ora si preferisce fai, fa. E.
  11. C. M. a gran dispitto;
  12. C. M. funno ditti li discendenti quelli
  13. C. M. onde avvenendo che i guelfi di Fiorenza occuponno la signoria et incomicionno a tiranneggiare. Mossensi li Uberti, li Abati, li Lamberti et altri casati ghibellini, coi quali funno li populi che caccionno li guelfi fuori e i lor seguaci, e così caccionno li antichi di Dante,
  14. C. M. concie
  15. C. M. manifesto ad ognuno lo modo, nel quale andò Dante nello inferno;
  16. C. M. però avale, quando
  17. C. M. e così fiereno la luce, e rapportano
  18. C. M. cade riverto e non boccone:
  19. Il Codice nostro à peccato che abbiamo corretto con la lezione del M.; come più sotto si è aggiunto - con messer Farinata - sino - al settimo. E.
  20. C. M. del cacciare; me ne duole
  21. Òe, voce ancora viva presso alcuni popoli della nostra penisola, ove direi che non piace molto il finire le parole con accento. I pratici delle vetuste lingue italiche chiamo arbitri di questa proposizione. E.
  22. C. M. passi una isola
  23. Da - Allora - a Giove, - sono parole del Magliabechiano. E.
  24. C. M. melingrano
  25. C. M. di Fiorensa, dove fu sconfìtto lo populo fiorentino, e fu fatto
  26. Nella sentenza letterale è detto che Farinata menò il capo, e qui che lo crollò; il perchè saria da leggere col Landino ed altri “Poi ch’ebbe sospirando il capo scosso”. Vindelino, Nidobeato, il Bargigi riportano mosso e noi pure li seguitiamo anche per una tal quale fedeltà al nostro testo. E.
  27. Per una certa liscezza di lingua gli antichi aggiugnevano un’e alle parole terminate con accento; e questo costumasi anche al presente dal popolo toscano, che pronunzia mene, tene, sine, per me, te, si ec. E.
  28. C. M. dalla condizione de’ vivi,
  29. Il Cod. M. à — dopo il iudicio — ed il nostro — dopo la giudicio — che noi riportiamo: perocchè potrebb’essere che ancora il nome giudicio fosse adoperato feminilmente, come, la metodo, la sinodo ed altri. E.
  30. C. M. Perch’io; cioè per la qual cosa io Dante,
  31. voi udisti. Tale fu l’uscita primitiva e regolare delle seconde persone plurali, venuta direttamente dalle latine auditis, audiebatis, audivistis o audistis ec. Ora però codeste persone si vogliono terminare in e; ed in i quelle del singolare. E.
  32. C. M. l’abbo perduta, e così moritte,
  33. C. M. ispirata dallo Spirito Santo, ogni cosa
  34. C. M. a mano manca il piede; e questo si convenia: imperò
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