Costantino Beltrami da Bergamo, notizie e lettere/Viaggi e scoperte
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GABRIELE ROSA
VIAGGI E SCOPERTE
DI
COSTANTINO BELTRAMI
I rivolgimenti politici dell’Italia, se spesso ne spensero e sperperarono le arti e le dottrine, sovente balestrando per molteplici casi i suoi figli fuori della terra natìa, col pungolo della sventura e della necessità ne volsero le forze a fatti, a pensieri grandi e nuovi, laonde la storia delle emigrazioni italiane è segnata dai lumi di uomini egregi nell’opere e nelle idee, che confortano il triste quadro e deplorato di un cumulo di stenti, di sfinimenti, di disperazioni. Le emigrazioni italiane recarono alla Francia l’arte della seta, le cognizioni cambiarie, ed a tutto il mondo frutti di scoperte, di civiltà, di creazioni artistiche, o di progressi scientifici; laonde se sono vere le leggi universali de’ compensi e delle azioni e reazioni, questa terra donde tre volte coi romani, coi cristiani, cogli esuli irradiarono benefici all’umanità, deve pure un tempo raccoglierne retribuzione.
Intanto che ciò avvenga, carità patria ne muove a rintracciare sulla superficie del globo quelli dei nostri che vi perirono od obbliati od oppressi o non celebrati degnamente, ed a comporre loro monumento, che valga di compenso alle lotte loro, di conforto e di ammonizione ai connazionali, di difesa contro l’imperversare della fortuna. La storia delle nostre conquiste civili, e dei nostri uomini distinti è il patrimonio nostro, e dobbiamo affrettarci a raccoglierlo, onde ne frutti nobili emulazioni.
Uno dei rivolgimenti recenti, che disseminò pel mondo grande copia di eletti italiani, fu quello del 1821, dalle emigrazioni del quale spiccarono Rossi, Melloni, Libri, Rossetti, Orioli, Collegno, Gioberti, Berchet, Tommaseo, G. Ugoni, Mamiani, Pecchio, Gio. Arrivabene ed eziandio Giacomo Costantino Beltrami, il quale, specialmente in Italia, non fu conosciuto sino ad ora per le sue imprese, pelle sue scoperte e pei suoi libri.
Giacomo Costantino Beltrami nacque a Bergamo nell’anno 1779 da Giambattista Beltrami e da Catterina Carozzi da Pontida. Il padre era venerando d’aspetto e molto popolare per modi cortesi, e perchè doganiere generale della repubblica Veneta a Bergamo. Ebbe dieci figli, sei maschi e quattro femmine, e di questi il primo Lorenzo, fu Intendente di Finanza a Bergamo pel governo francese, ed ebbe tre figli, Lorenzo, Alessandro, e Battista, già capitano austriaco, ora erede dello zio Costantino. Due altri fur cadetti austriaci durante il regime veneto, due si resero frati, una sorella fu monaca, altra bella di cuore e di aspetto fu maritata Fontana. Giacomo Costantino fu educato alle leggi, e quantunque avesse l’indole inquieta, bramosa di avventure e fosse tenuto in continuo sussulto dalle grandi e nuove commozioni pubbliche che incominciarono a scuotere l’Europa quando toccava ai dieci anni, pure l’ingegno naturale gli permise di erudirsi delle lettere latine e greche, alle quali poscia per l’esperienza di cose pubbliche, aggiunse ricca suppellettile geografica, e poi quella pratica cosmopolitica di lingue e costumi che distingue gli uomini versatissimi ne’ sociali commerci. Dai suoi scritti si raccoglie, essere stata tradizione nella famiglia Beltrami che discendesse da Beltrand des Goths fuggito da Parigi alla S. Barthelemy nel 1572, e riparato a Bergamo sotto le provvide ali della Repubblica Veneta, modello per que’ tempi di tolleranza politica e religiosa.
L’ardire e la costanza avventurosa, che a 24 anni brillarono in lui, nel vigore giovanile lo spinsero a fuggire dalla casa paterna per le cose militari, e raccomandato ad ufficiali superiori amici della famiglia, e tosto apertasi via coll’ingegno, diventò Vice-Ispettore delle armate, ma disgustato di quelle occupazioni che non adempivano alla nobiltà di sue aspirazioni, si rivolse agli impieghi civili. A 28 anni nel 1807 lo troviamo Cancelliere nel Dipartimento del Taro, indi ad Udine, poscia Giudice a Macerata, della cui corte di Giustizia dal Vicerè d’Italia negli ultimi giorni di quel dominio fu proposto Presidente. Troviamo che nel 1812 il ministro di Giustizia accordò a Beltrami per malattia vacanza, per la quale si condusse a Firenze, dove strinse relazione col Duca di Monteleone, e colla Contessa di Albany, l’amica di Alfieri e di Foscolo, che poscia nelle tempeste pubbliche protesse dei suoi consigli e della sua influenza il periclitante Beltrami, il quale quando gli austriaci occuparono le Marche si dimise, e si ritrasse ne’ suoi poderi a Filotrano poco lungi da Macerata, donde dal 1816 al 19 fece escursioni per Napoli, per Roma e per Firenze. Pare che in qualche modo fosse inviluppato nel carbonarismo, perchè del 1821, ancorchè ammalato e male reggentesi in piedi, dovette sgombrare dalla Romagna, ed andò pellegrinando, come egli dice, per la Francia e la Germania a Londra, donde sospinto da inquieta bramosia di fare qualche cosa che lo raccomandasse alla fama e di scoprire nei modi di vivere de’ varii popoli, qualche conforto a sè ed alla patria, veleggiò agli Stati Uniti d’America. Dove giunse nel principio del 1823, ed ivi tosto pubblicò una breve relazione de’ suoi viaggi per la Francia ed Inghilterra coll’opuscolo Deux mots sur des promenades de Paris a Liverpool (Filadelfia 1823). Gli spettacoli imponenti di quel nuovo mondo, e le opere gigantesche del magnanimo popolo che ne intraprendeva il conquisto colle imprese della civiltà, gli accesero fuoco secreto nella fantasia di penetrarvi le regioni remote e vergini; e continuando le tradizioni gloriose degli Italiani scopritori dell’America, associare il suo al nome loro. E sentendo quanto maraviglioso fiume fosse il Mississipì quanta parte ne restasse ignota verso le sorgenti rimontanti al cuore settentrionale dell’America in regioni favolose, ed avendo opportunità di condurvisi, deliberò intraprendere una spedizione su quello, senza altro sussidio che le sue forze fisiche e morali.
La velocità colla quale gli emigrati europei dai ricchi elementi naturali degli Stati Uniti coi migliori strumenti della civiltà del mondo antico applicati liberamente cavarono frutti prodigiosi, è il più bello e grandioso spettacolo sociale.
Fra il 1000 ed il 1100 alcuni missionari, seguendo le tracce de’ venturieri normanni, che aveano colonizzato l’Islanda e scoperto la Groenlandia sino dal 873 penetrarono alle coste del Canadà. Alle quali pervenuto nel 1497 per l’Inghilterra il veneziano Gio. Cabota co’ suoi figli Lodovico, Sebastiano, Santo visitò le coste di Terra-Nuova, del Labrador e della Florida.
Poco dopo, nel 1501 Gasparo Cortereal da Lisbona perlustrò più lungamente il Labrador e ne rapì 57 selvaggi. Nel 1524 poi il fiorentino Giovanni Verazzano per la Francia scoprì le coste della Terra Nuova e dei Stati Uniti del nord, dove dieci anni dopo penetrò pel S. Lorenzo nel Canadà Gio. Cartier pure per la Francia. Li sbocchi del Mississipì furono veduti primamente dallo spagnuolo De Soto nel 1541, ma il di lui corso interno restò ignorato ancora lungamente.
Prima dal Canadà penetrò allo sbocco in lui del Missouri il padre Marquette nel 1673, e poco appresso Tolliet, Marquette e La Salle pure dal Canadà si spinsero fino al Mississipì nella bassa Luigiana, dove nel 1699 giunse pure Iberville rimontando il fiume; al quale nelle parti superiori nel 1680 era giunto il padre Hannepin, che scoprì la cascata di S. Antonio, oltre la quale penetrò per 65 miglia. Allora fu scoperta tutta la Luigiana che i francesi cedettero all’Inghilterra col Canadà nel 1762, quando ancora non si conosceva il corso dell’Ohio, tutto coperto di selve popolate di bufali, di orsi, di lupi, di pantere, a cacciare i quali nel 1770 s’innoltrò Boon con una banda, e tre anni dopo Vood e Kenton si avventurarono sui canotti a discendere quel fiume grande tributario del Mississipì. Sul quale gli Americani andarono avanzando grado a grado prendendo possesso de’ luoghi scoperti coll’erezione di forti che diventavano colonie di caccia e di commerci, ed alla cascata del Mississipì, che è a 960 miglia dalle di lui sorgenti, costrussero il forte di S. Antonio, rimasto sino al 1823 estremo confine verso le regioni selvagge. Oltre il quale pel fiume Pik nel 1805 penetrò sino al lago delle sanguisughe, Schoolkraft nel 1819 si spinse al lago del Cedro rosso, dove poi giunse poco dopo l’astronomo francese Nicollet, e Beltrami nel 1823 cento miglia più oltre.
L’incremento poi di questi paesi fu sì rapido che Nuova Orleans agli sbocchi del Mississipì, fondata nel 1717, nel 1823 avea 45 mila abitanti, e nel 1851 ne contava già 119 mila; e S. Luigi che nel 23 ne avea 7 mila, nel 52 toccava alli 83 mila, e Cincinnati che nel 1800 avea non più di 500 abitanti, nel 1854 ne numerava 180 mila, mentre Nuova York che nel 1709, epoca della fondazione di Pietroburgo, ne contava 5 mila, ora ne novera 750 mila come Costantinopoli, mentre la capitale russa salì a 500 mila come Napoli.
Se poi consideriamo che solo nel 1854 l’Europa e l’Asia versarono negli Stati Uniti dell’America 450 mila emigrati, e che quella Confederazione nel 1860 sarà percorsa da 33 mila miglia di ferrovie, e da flotte a vapore pel S. Lorenzo ed il Mississipì di oltre i tre mila miglia di corso ciascheduno, e per molti altri fiumi e canali, e tutta collegata da fili telegrafici che si connetteranno anche con Londra, possiamo argomentare che i passi dello sviluppo di quello stato prodigioso accelerano ognora più su quegli spazii vastissimi, dei quali pure nel 1823 restavano selvagge ancora diciotto ventesime parti. Laonde quell’eloquenza, che scaturisce da confronti, ne consiglia e conforta a rintracciare specialmente sulle orme del nostro Beltrami le condizioni e le comparse dei primi germi di coltura europea fra l’aborigena selvatichezza di quel continente, ed a raccogliere studiosamente le non lontane testimonianze della vita silvestre delle solinghe tribù indigene, che già se non sono scomparse, sono quasi trasformate al contatto nostro così da serbare poche tracce sincere della storia e del genuino carattere loro.
Il nostro viaggiatore da Filadelfia, ora popolata come Napoli, per terra venne al picciol forte francese Quesne nella Pensilvania, ora Pittsburg, che allora contava 12 mila abitanti, ora saliti a 60 mila. Qui due correnti si fondono a formare l’Ohio (bel fiume) che dopo un corso di 960 miglia dalle fonti si versa nel Mississipì. Fu a Pittsburg che gli uomini videro nel 1811 il primo battello spinto dal vapore solcare i flutti, e d’allora al 1855 in 44 anni i battelli a vapore sul Mississipì e confluenti salirono a 1300. Da queste industriosissime città scese pel fiume a Columbus, a Cincinnati, a S. Luigi, altre città ora floridissime e grandi, e che i vecchi avranno potuto vedere nel germe sorte faticosamente tra le foreste. Così entrò nel seno al grande Mississipì o Mississibì che nella lingua alconchina vale padre de’ fiumi. Ed infatti ne raccoglie e trae seco 57 maggiori, fra i quali il Missouri che si versa in lui dopo un corso di 2540 miglia.
Sul Mississipì incontrò il piroscafo Virginia capitanato da Peston, spedito dagli Stati Uniti d’America a fare la prima navigazione a ritroso del fiume sino alla cascata del forte S. Antonio, con una compagnia di scienziati e con diplomatici per le trattative coi selvaggi che mandavano deputazioni al forte, e per lo studio di quelle regioni. La società esploratrice americana, nella quale era altro italiano Tagliaferro, si inoltrò per studii oltre S. Antonio sino a Pembenar, ove era uno stabilimento della baia di Hudson, ed egli solo colle armi e con poche provvigioni s’avventurò a ritroso del fiume ancora sino dove poteva andare, col secreto ed intenso proposito degli uomini atti a grandi cose, di penetrare sino alle di lui sorgenti, che infatti scopri a 950 miglia di cammino oltre il forte. Dal quale partì il 7 luglio 1823 sopra un canotto in compagnia di alcuni selvaggi Cipovai e di un canadese maritato ad una selvaggia, di quelli intrepidissimi europei inselvatichiti, che altri chiamano legni bruciati, che da sè s’appellano uomini liberi, che s’avventurano a spedizioni di caccia di parecchi mesi di viaggio, e che scoprirono tutto il settentrione dell’America. Nelle quali imprese furono emulati dai fratelli Moravi, dai Normanni, e specialmente da quelli americani dell’interno detti Yankei, ai quali per abitudine s’apprese tale aquilina fierezza di vita solinga, che racconta il Beltrami, come il colonnello Boom per 40 anni tramutò sempre stabilimenti a luoghi più romiti, fastidendogli vicinanza colta di 40 miglia.
Quella mirabile attività che danno gli urgenti bisogni, e le vivide speranze di conquistare qualche cosa che valga immortalità aveano in breve addomesticato il Beltrami con quei selvaggi d’America dispersi sulla sua via; divenne amico e confidente di parecchi capi, e potè meglio di molti altri conoscerne l’indole, la storia, i bisogni.
L’essere egli solo, il non appartenere alla razza degli oppressori, il non avere commissioni governative toglieva i sospetti, e l’alta e svelta e nobile persona, e la dignità coraggiosa ed imperturbata dell’aspetto, e le cognizioni sue delle cose dei selvaggi gli conciliavano quel rispetto che tante volte apre la via fra molti pericoli ad inermi missionari. Noi non lo seguiremo nelle pittoresche descrizioni di spettacoli veramente sorprendenti sempre ed a tutti, maggiormente a lui che avea la coscienza essere il primo scrittore che li contemplasse e che ne potesse recare novelle alle nazioni; di quelle selve intatte, altissime e svariate, ove pompeggiano cipressi, pini, aceri, platani, querce; meravigliosi per grandezza e vetustà, cingenti i grandi errori del fiume, di quelle praterie naturali, ove s’estollono in mirabili gruppi fiori vaghissimi, di quei meandri e labirinti di laghi, di rivi, di stagni. Cooper e Chateaubriand ne trassero materia e colori per le splendide loro descrizioni, emulate testè da quelle di Longfellow, che cantò le sue impressioni d’altri spettacoli simili di quella sorprendente terra americana.
Dopo cinque giorni di viaggio da Pembenar uccise un orso bianco, unica bestia feroce che incontrasse, oltre i lupi che non assaliscono, ed andò approvvigionandosi di selvaggina e di riso silvestre e di qualche altra frutta.
In certo luogo i selvaggi suoi compagni che ritornavano fra i loro, per accorciare la via con traversata, lo abbandonarono solo col canotto, ed allora il nostro Beltrami, come il supposto Robinson, si vide affatto solingo, senza traccia umana intorno, in luogo misterioso. Quella immensa solitudine, quell’unico dominio della natura qualche volta gli parve sublime e gli lasciò le più profonde impressioni della sua vita.
Per quattro giorni con una costanza indomabile, trascinò solo in mezzo a mille traversie il suo canotto, e legatoselo al piede mentre si sdrajava a dormire, una notte fu desto da un lupo che gli mangiava le provvigioni, e lo uccise. Finalmente trovò altri selvaggi che allettò a farglisi compagni, e per quelli, scoperto altro canadese che miseramente traeva la vita relegato qual sentinella perduta in quelle solitudini, passò il lago del Cedro rosso ed altri grandi laghi e rivi sparsi per regione piana e tutto intersecata da acque pullulanti e coperta da paludi, giunse verso il 49 di latitudine boreale ad un colle pel quale da un lato si versano le prime fonti del grande Mississipì, dall’altro scendono rigagnoli tributarii dei fiumi della Baia d’Hudson. È più facile immaginare che dire l’alto orgoglio e la nobile compiacenza del nostro Beltrami, quando dalla cima del poggio dominante il corso delle scaturigini del padre dei fiumi contemplava primo quelle contrade, e concentrava in un punto di meditazione col volo della fantasia il cammino percorso, il bacino del massimo fiume, la sua fama futura. Dal nome venerato della contessa d’Albany, che stimava altamente, chiamò Giulie quelle sorgenti, e sperò giustamente rendere accettato ed immortale quel nome. Ma sia l’umile e straniera sua condizione, sia la mancanza di osservazioni e determinazioni scientifiche, che accompagnassero quella scoperta, non pare che sino ad ora quel nome sia stato ammesso come doveva almeno nell’Europa, giacchè pure nel 1855 Cannabich nella 17.ª edizione della diligentissima geografia pubblicata a Veimar spinge le sorgenti del Mississipì solamente al lago Slasia, e la Biche seguendo Schoolkraft, molto indietro dal termine del Beltrami. La scoperta del quale, e perchè annunciata troppo pomposamente senza corredo di dimostrazioni scientifiche, e perchè veramente non descritta esattamente, incontrò gravi opposizioni nell’Inghilterra e nella stessa America, dove non ancora è accettata dalle società geografiche.
Il ritorno al forte S. Antonio fu molto più spedito e riposato. Si pose in compagnia di alcuni capi selvaggi, che scendevano per appiccare relazioni politico-commerciali cogli Americani. Erano alcuni canotti, e fecero viaggio a seconda della corrente molto tranquillo, e come furono vicini al forte Beltrami, pulitosi, come seppe meglio, la persona, ricomparve improvviso fra amici e conoscenti, i quali avendolo creduto morto restarono stupefatti e gli fecero commoventissima accoglienza. In tre mesi avea fatto tutto quel viaggio e quella scoperta, e per tutto quel tempo non avea mai veduto persona civile e non avea più che pochi laceri avanzi de’ suoi vestiti. Ritornava con cappello di corteccia di betulla fatto da sè, con scarpe di pelli di animali selvaggi, ed avea ancora serbato il suo canotto e l’ombrella di seta rossa, e riportava molti utensili ed ornamenti ed istrumenti musicali di legno, e collane di artigli d’aquile bianche, e grembiali di donne di pelli lavorate finamente, ed un modello d’un canotto da selvaggio che gli fece in Cipove, e frecce ed archi di varie qualità.1 Il canotto gli andò spezzato a bordo di un vapore in un urto, ma gli altri oggetti tutti furono da lui religiosamente serbati, e pur nel passato anno 1855 vennero donati dal di lui nipote ed erede Antonio Beltrami alla biblioteca di Bergamo, insieme ai di lui passaporti, a parecchi manoscritti ed a lettere autografe a lui di parecchi, fra quali distinguonsi Chateaubriand, Beniamino Constant, Lafitte, Lammennais, Appony.
I primi selvaggi che gli accadde vedere furono i Saukis già numerosi e potenti, quindi ridotti al solo numero di 4800 per strage che ne menarono altri selvaggi eccitati dagli Inglesi. Trovolli commisti coi cani, i più nati da lupi, con orsatti, ed anche con lontre, così famigliarmente da mangiare insieme sulla nuda terra. Di tutti i selvaggi poi rimasti lungo il Mississipì trovò più numerosi, potenti ed industri li Scioux, i quali ed i Cherokei hanno tipo che molto s’avvicina al classico europeo. Essi al modo di parecchi popoli dell’antico mondo venerano i serpenti non già perchè li credano numi benefici, ma perchè li temono, e sospettano che debbano loro essere molto più infesti se li perseguitano. Però ne danno la chiave di molte strane adorazioni dei popoli antichi, ai quali somigliano eziandio per lustrazioni e purificazioni, che in giorni solenni procurano col fuoco e coll’acqua in antro venerato. Li Scioux stanno dispersi dal Mississipì al Missouri, dalle sorgenti del quale alla Baia d’Hudson s’accampano li Assiniboini loro affini, perchè ambidue rami dei Dacotas, che Beltrami scoperse essere venuti dal Messico da circa duecent’anni per sottrarsi alle persecuzioni degli Spagnuoli. Li Assiniboini sopra spazio sì vasto non oltrepassano li 25 mila, dei quali un quinto sono guerrieri, e li assottigliano specialmente le pugne frequenti e distruggitrici che alimentano fra loro gelosie e vendette. Beltrami, sempre seguendo gli studii da lui fatti fra selvaggi, dice che gl’Indiani del nord parlano lingue affini, delle quali si distinguono quattro gruppi, l’algonchino, il cherokeo, l’irochese, il narcotano.2 Somiglianti pure gli parvero tutti di tipo fisico, di tradizioni, di coltura, di costumi, e irrise a quelli che delle idee ed usi ed indole loro traggono sistemi che li fanno o fierissimi o dolci e mansueti. Giacchè trovò fra loro grandi contradizioni, irregolarità e mutabilità, ed è ben naturale. La loro semplicità di vita fa che gli istinti, l’attività nervosa trovino debolissimo freno e contrappeso nel raziocinio, e però soggiacciono a rapidi passaggi dalla quiete e dalla dolcezza alla più violenta irritazione, alla crudeltà, e, come quelli che hanno tutto mutabile, che posseggono pochissimo, e che sono sempre spinti da urgenti necessità personali, poco attendono a legami di famiglia e di società, hanno poco rispetto per le donne, delle quali si giovano per lavori più duri ed abbietti, come istrumenti più economici. Mutabili e capricciosi sono anche nelle idee e nelle pratiche di religione, come nelle altre cose, e Beltrami si convinse non essere vero che abbiano una cognizione determinata e generale di un ente supremo. Appo loro il feticismo è in pieno vigore, adorano quando cose nocevoli, quando cose utili, quando oggetti strani come detta la fantasia di ciascuno, e la loro religione è tutta mista di fattucchierie colle quali curano anche le malattie. Piangono lungamente i morti per rito non per vero dolore, e li seppelliscono volti ad oriente. Mischiano le cose sacre alle profane, principiano e finiscono ogni cerimonia colla danza, ed inframmettono le mense ai riti, ed alle deliberazioni politiche, delle quali incidono memorie nelle cortecce degli alberi. Preferiscono accamparsi sui fiumi per comodità di viaggi a pesca e caccia, e per essere più pronti a scampare dai nemici. Fabbricansi canotti ingegnosissimi, leggerissimi, ed impenetrabili all’acqua, perchè involti esternamente di corteccia di betulla, e con canotti rovesciati e coll’architettura de’ canotti fanno loro capanne pure coperte di cortecce. Intrecciano reti di corteccia, e preparano abiti di pelli con muscoli di bufalo ed altri ingegnosi utensili di cortecce e di pelli. Il cane, compagno dell’uomo su tutta la superficie della terra, sotto tutti i climi, ed indispensabile nelle regioni artiche, è pure socio costante dei selvaggi del Mississipì, i quali gli sono poco grati dei molti servigi, perchè spesso lo mangiano e lo sacrificano. Nel verno fanno lunghe spedizioni di caccia tutti insieme in cerca del castoro e del topo mosca, della lontra, della donnola, del gatto selvaggio, del lupo cerviero, della volpe grigia, gialla e rossa, degli orsi neri, gialli e bianchi, dei caprioli, de’ daini, delle renne, della pecora selvaggia, dell’antilope, del puzzolente, del blaireau, del racoon e del bufalo. Alla caccia del quale, cosa curiosissima, talvolta accorrono frotte di lupi in sussidio degli uomini per sbandare le mandre e separarne qualche vitello, sul quale si gettano poi, o per isolare o stancare una bufala, per assalirla poi chi alle poppe, chi al collo contemporaneamente.
Il Beltrami, che non avea idee preconcette sui selvaggi nè stimolo di setta o di partito, od interesse politico, e per essere solo fra quelli dovette mantenersi con loro in contatto incessante e molteplice, aiutato anche da quel buon senso naturale che in lui era vivissimo, potè giudicarli molto finamente. Egli mostra con sagacissime ragioni la falsità delle due opposte dottrine, di quella degli utopisti che intendono educare i selvaggi per via di raziocinio per ispirazioni intellettuali; di quella degli egoisti mercanti, despoti e dottrinarii, che pretendono essere naturalmente impossibile il graduale incivilimento de’ selvaggi. Infatti, sinchè gli Europei li abbrutirono colla seduzione dei liquori, o li irritarono colla slealtà e colla violenza, o solamente ne esaltarono o ne sorpresero l’immaginazione momentaneamente con prestigi d’arte e con idee spirituali, troppo superiori e lontane dall’ordine dei loro raziocinii, nulla profittarono. Gli antichi Greci e Fenicj e Romani, come squisitamente mostra Sismondi, furono eccellenti dirozzatori e colonizzatori, perchè seppero fondere i selvaggi ne’ civili mediante continui benefici di questi su quelli e vicende di mutue influenze mercantili ed industriali. Ciò che agli antichi insegnò la pratica Beltrami indovinò e consigliò per raziocinio e buon senso, e già i progressi civili che a’ giorni nostri si manifestano fra i selvaggi Cherokei dell’America del nord, che incominciano persino ad aver giornali, e de’ negri della repubblica Liberia sulle coste della Guinea, e di quelli di S. Domingo, ed Hayti, dimostrano essere possibile un graduale incivilimento anche nelle razze africane ed americane, e questo conseguirsi mediante semplici mezzi.
Da S. Antonio, Beltrami scese a seconda del fiume sino a Nuova Orlèans, che ne giace presso le foci, e così percorse tutto quel corso d’acque superiore ad ogni altro non tanto per la copia, quanto per la sublime varietà delle sponde. A Nuova Orlèans pubblicò nel principio del 1824 col titolo La dècouverte des sources du Mississipì in forma di lettera alla contessa Compagnoni nata Passeri una relazione de’ suoi primi viaggi nel Nuovo Mondo per nove mesi, ne’ quali percorse intorno a due mila leghe. Le descrizioni che diede delle regioni selvagge, ed anche delle colte da lui discorse negli Stati Uniti d’America, erano non solo nuove in gran parte, ma sufficienti pei tempi suoi, quando non vedendosi generalmente il mirabile avvenire di quella nazione, poco si studiava. Ora gli Europei s’affrettano a ricattarsi del tempo perduto, e già ne’ due anni 1854 e 1855 comparvero fra noi tre descrizioni degli Stati Uniti d’America, Vagner und Scherzen Reisen im America nel 1852-1853 Lipsia 1855 — Busch Peregrination entre le Hudson et le Mississipì en 1851-1852 Stuttgard. 1854 — Baxter America and the Americans. Londra 1855, e gli studii di Buschmann Ueber die aztekischen Ortsnumen, e di G. I. Muller Unterauchungen über die Geschichte der Amerikanischen Urreligionen.
Il largo compenso morale alle fatiche del suo primo grande viaggio eccitò Beltrami a nuove imprese, laonde lo troviamo già al principiare del maggio di quell’anno 1824 imbarcato in una tartana pel Messico. Dove scampato miracolosamente ad un assalto di febbre gialla andò vagando, com’era sua indole, studiando i costumi, e le idee de’ varii popoli. Da un piano ardente popolato da vaghissimi uccelli, da coccodrilli e da boa, andò salendo la cordilliera di Tartamanga da scaglione a scaglione, e contemplati dalla cima i due opposti oceani, scese verso la California sino alla Sonora altrice dei più grandi alberi del mondo, dove incontrò indiani identici agli Scioux quindi riedette. Studiassi specialmente rintracciare e coordinare notizie per una storia delle gesta del famoso capitano Mina spagnuolo, che dopo essere stato il terrore dei francesi in patria, irritato andò nel Messico, dove servì con pari prodezza, prima all’Inghilterra, indi alla causa più liberale degli Stati Uniti. Alle imprese di Mina Beltrami viene intrecciando i fatti della lunga guerra del Messico per l’indipendenza dalla turpe tirannide spagnuola militare e religiosa, e questa allora era storia affatto nuova e di grande interesse, e le osservazioni ed i fatti raccolti dal nostro scrittore dovranno sempre venire consultati da chi imprenderà narrare le origini delle libertà messicane. Il sentimento del suo valore e la rettitudine e forza del suo buon senso lo irritano ad ogni tratto contro le tradizioni ed i segni di violenza e di sterminio degli Europei negli aborigeni, e le brutalità del regime spagnuolo nell’America. Egli si fece il paladino dei miseri aborigeni, laonde raccoglie anche religiosamente le memorie di que’ rari filantropi che li ammansarono beneficandoli, e fra questi e primi di tutti ricorda i Francescani, che penetrando senza burbanza militare o saccente fra i selvaggi del Messico ne aveano iniziata la civiltà. Ma presto anche gli ordini religiosi nell’America, per gli esempi e gli incoraggiamenti dei governi, sia per le ricchezze acquistatevi e la lontananza dalle fonti della disciplina, vi si occuparono più delle cose temporali che delle spirituali, e vi rinnovarono gli esempi della corruzione e della rilassatezza de’ peggiori tempi del medio evo nell’Europa.
Fra i primi venuti di questi santi frati se ne distinguono due, de’ quali Beltrami fu avventurato di trovare e venire in possesso di opere, che bastano a rendere immortale il suo viaggio nel Messico. Mentre Cortez conquistava il Messico circa il 1518, ci venne frate Martino da Valenza con 12 Serafini, fra i quali era il padre Toribio di Benevento che divenne Provinciale col titolo di Montonilla.
Egli, raccolti alcuni de’ superstiti sacerdoti e dotti messicani, mentre li educava alla fede ed alle arti cristiane, fece loro sotto i suoi occhi disegnare a geroglifici e figure ciò che stimavano più necessario tramandare alla posterità di loro storia tradizionale. Così ne vennero quattordici quadretti su papiro d’agave di palma che sia, i quali contengono quel sunto della storia dei Messicani dai tempi di Maometto a Caanktemoc ultimo governatore dopo Montezuma. Il che ripeterono poi Clavigero ed Alessandro Humboldt ed altri, giacchè questo libro è la principale fonte delle origini tradizionali messicane, tanto che Torquemada lo disse reliquia unica, e lo consultarono Humboldt, e Lord Kingborough per la sua grande opera sui geroglifici messicani. Secondo questo il Messico si chiamava Anahuac, e nel VII. secolo conteneva poche tribù nomadi. Le nuove popolazioni ci vennero da sette caverne del nord, i primi furono i Tultechas, i quali dopo una divagazione di cento anni fondarono Tula nel Messico ai tempi di Maometto. Essi aveano qualche nozione astronomica, e vi lasciarono un calendario. Dalla stessa plaga, circa i tempi di Federico Barbarossa, ci vennero prima i Chichimecas, indi i Nabuatlacas (Lagisti) in varie genti, finalmente li Aztecas, detti poi Mexeti (Messicani), partiti dall’alta California circa il 1160. Queste sacre tradizioni vennero pur testè confermate dagli studii e dalle scoperte di Squier, il quale nell’opera Ancient monuments of the Mississipì Valley (1848), mostra avere sul Mississipì e sull’Ohio rintracciato almeno dieci mila tumuli e mille chiostri tutti uguali, de’ quali nessuno esiste sugli ultimi interramenti formati dalle alluvioni dell’Ohio. Egli nel 1855, combattendo la supposta derivazione scandinava de’ Messicani, scrisse all’abate Brasseur da Bourbourg fra l’altre cose così:
Perchè tenteremo noi derivare la razza americana dall’Europa e dall’Asia piuttosto che dall’America? Nessun sapiente più perde suo tempo a voler dimostrare che i Caucasiani derivino dagli Indiani o dai Negri; e perchè non accorderemo noi pari indipendenza agli Americani rispetto a stirpe e derivazione? Si può dirittamente dubitare se questa domanda della discendenza sia per ottenere soluzione soddisfacente. Certo il quesito intorno agli indiani d’America nel presente stato dell’archeologia americana non vuol essere trattato in fretta, ed io sono convinto che i veri amici della scienza in tutto il mondo accoglieranno con molto maggiore riconoscenza una serie di fatti ben maturati rispetto alle lingue, ai costumi, all’organizzazione, ai monumenti dell’America centrale, che tutte le ipotesi, per quanto brillanti appariscano, quantunque basino su plausibili speculazioni e concordino con teorie prestabilite e pregiudizii diffusi.
Ciò che io posso accertare è, che dopo un soggiorno più che triennale nell’America centrale, dopo che io vi discorsi per migliaia di miglia, e vi studiai le popolazioni, le lingue, i monumenti, le tradizioni, in tutte le mie ricerche non ho scoperto pure un solo fatto, che mostri o l’origine scandinava o qualunque altra non americana degli aborigeni di questa regione. Frattanto io ammetto ben volentieri che fra le schiatte originarie dell’America e quelle del continente, che suolsi chiamare antico, esistono molte somiglianze che in taluni casi si elevano sino ad assoluta identità. Ma lo spirito filosofico esiterà a dedurre parità di origine o parentela da questa somiglianza, prima di avere indagato sino a qual punto per queste condizioni, come per somiglianza di qualità spirituali, morali e fisiche, le instituzioni, le regioni, i monumenti ponno ottenere un simile o comune tipo. Si può quasi senza esitanza sostenere, che nel campo della fisiologia e filologia nulla fu scoperto, che (fatto eccezione degli Eschimesi) identifichi le schiatte americane con alcuna del continente antico.
Come dissi, si trova molta somiglianza nella cosmogonia, nell’una o nell’altra parte delle superstizioni religiose, in alcuni simboli, negli edificii, nei segni e nelle osservazioni astronomiche. Ma se questi ravvicinamenti accennassero ad una comunicazione, questa si dovrebbe rimandare nella più lontana antichità, giacchè i punti di corrispondenza sono indubbiamente quelli che appartengono alla storia più rimota dell’umanità. Nelle generali instituzioni e ne’ costumi, come nell’arte, i punti di coincidenza, che si scorgono fra le nazioni americane e quelle dell’antico mondo, cadono manifestamente nelle necessità della vita umana. (Das Ausland 1855 N. 3). =
Anche Prescott americano sino dal 1843 nella Storia della Conquista del Messico discorrendo diffusamente nell’Appendice sulle origini messicane, asserisce che i tratti essenziali della civiltà messicana si ponno dire particolari ed indigeni.
Brantz Mayer poi in profondo articolo col titolo Mexican History and Archeology nel Smithsonian Contributions to Knowledge. Vol. 9. Washington 1857 mostra, che i Toltechi giunsero ad Haehnctlalpallan nell’anno 387, trovarono Tula nel 498, giunsero nella valle del Messico nel 1141, fondarono la città del 1324. Mostra la massima civiltà messicana essere fiorita fra i 10 ed i 25 gradi di latitudine nord, quella del Perù fra i 10 ed i 25 sud. Trovò magnifiche piramidi ed altri avanzi messicani a Mitla in Oajaca, i cui abitanti oppressi dai re del Messico aveano chiesto protezione a Cortez. Disse quelle costruzioni essere puramente messicane, spiegò la analogia con alcune del vecchio mondo pella somiglianza dello spirito umano, il quale genera invenzioni simili nelle più separate condizioni sociali, ed aggiunge: i costruttori degli edifici di Uxmal, Palenche, Copan, Chichen, Itza erano molto lontani dalle condizioni delle tribù nomadi.3
Dopo che questi monumenti vennero abbandonati li invasero le selve, ed ora si trovano sopra loro alberi di ottocento anni sui resti d’altri alberi padri. Se poi, oltre il tempo del loro abbandono, si pensa a quello in cui furono abitati, a quello in cui furono fatti, a quello necessario per ottenere la parità in tanto spazio, si argomenta una antichità che forse conduce ai Faraoni, ed infatti a quelle remote età accennano gli scheletri che si polverizzano al contatto dell’aria. Squier poi, avendo trovato in questi monumenti prodotti naturali d’ogni regione dell’America tra l’equatore e l’artico, argomentò che il popolo costruttore avesse vaste corrispondenze commerciali. S’accostano alle argomentazioni di Squier, le narrazioni dì Ixtlilxochitì istoriografo di Tezemo, secondo il quale ai tempi di Cristo, quando comparve Quetzaleoatì nel Messico, già esisteva la piramide di Cholula, e Tula, la città sacra, venne fondata 558 anni dopo Cristo. Ora poi Scherzer e Vagner, pubblicando la descrizione delle rovine di Quirigna nel Messico, simili a quelle di Capan, dimostrano, che l’arte di quelle costruzioni è tutta propria dell’America e diversa da tutte l’altre de’ popoli dell’antico continente. E l’abate Brasseur de Bourbourg, in lettere pubblicate nel novembre del 1855 a Nuova York, descrivendo le ruine di Cakin da lui scoperte nel 1855 a Rabinal presso Guatemala, dice: leggesi nella storia originale Je’ Quichi di Ximenes, redatta da lui e da Scherzer, che i Quichi discesero dal nord est, che passarono anche mari e luoghi nebulosi, e che trovarono colà civiltà antica.
Nel 1721 il Padre Francesco Ximenes, Provinciale dei Domenicani nella Provincia di Guatemala, ridusse in buon castigliano e commentò una antica storia dell’origine degli Indiani di Guatemala scritta in lingua guica. Quel lavoro, che gli avea aumentata la fama del sapere, era andato perduto, e ne scoperse parte il dott. Scherzer del 1854 nella biblioteca di S. Cario a Guatemala in carattere difficilissimo a leggere. Lo Scherzer lo copiò diligentemente e lo fece pubblicare dall’Accademia delle scienze a Vienna del 1857 col titolo Las Historias del Origen de las Indios de esta Provincia de Guatemala.
Queste preziose storie originali dell’America centrale dicono creati in quel continente gli animali e gli uomini, e fondato il regno da indigeni, e non corrispondono al giudizio che ne recò Bourbourg.
Contemporaneo del padre Montonilla e cooperatore alla benedetta opera di schermire i Messicani dalle violenze dei conquistatori fu Bernardino Ribeira, uno di quelli la cui santità splende di luce più pura. Nato a Salamanca da famiglia illustre, si rese francescano sotto il nome di Bernardino di Sahagun, e coll’abito religioso venne al Messico nel 1529. Il suo vivo zelo per que’ popoli e pella religione, gli fece tosto sentire il bisogno di penetrare nell’intimo loro, mediante l’uso famigliare di loro lingua. Onde studiò l’azteco sì indefessamente ed amorosamente che Torquemada asserì: nessuno averlo studiato e scritto sì diligentemente, ninguno tanto se ha occupado en iscribér in ella come èl Sahagun. Egli sussidiato dal saggio D. Antonio de Mendoza Vice-re, fondò un collegio per gli Indiani, e vi accolse oltre cento giovani, e fra loro il figlio di Montezuma II, e quello del re di Tesemo uniche e miserande reliquie di quelle illustri schiatte spente dalla brutale politica de’ conquistatori. L’ottimo Sahagun aiutato dal reali suoi scolari tradusse in azteco per l’uso degli allievi le lettere apostoliche e gli evangeli delle domeniche con postille e sermoni, e li scrisse con bella calligrafia latina in libro su fogli grandi di agave più consistente del papiro, di 250 pagine, sul quale leggesi anche il nome di Bernardino Sahagun colla data 1532. Anche questo libro venne in possesso di Beltrami e poi come l’altro passò agli eredi, insieme a molti oggetti curiosissimi di arti primitive e di storia naturale dell’America. Esso è prezioso per la storia, ma specialmente per la linguistica, giacchè forse è il solo ampio documento dell’azteco antico, ed è facilmente riscontrabile, perchè ogni capitolo porta l’intestazione latina. Squier poi nell’autunno del 1855 a Parigi trovò nella biblioteca reale un manoscritto messicano che sembra contemporaneo e concorde a questo del Beltrami.
Ora l’originale del Beltrami è posseduto da Bernardo Biondelli direttore del Museo Numismatico di Milano, il quale nel 1860 lo pubblicò con questo titolo Evangelarium, Epistolarium et Lectionarium Axtecum. Mediolani. Bernardoni, e lo arricchì d’interpretazioni, annotazioni e glossario. Vedi Politecnico N. 50-51 p. 191.
L’invidia ed i piccoli interessi che rovinarono Colombo e Cortez, fecero disperdere anche il collegio Azteco, ed obliare quegli studii, onde si deve grande riconoscenza a Beltrami di avere disseppellito e resa conta reliquia tanto importante. Egli, che trovò cose sì riposte nel Messico, potè spargere molta luce pure sulla storia della conquista di quell’impero. E nell’opera Le Mexique dedicata ai Sovrani, che pubblicò a Parigi coi tipi Crevot nel 1830 in due volumi in 8, in forma di lettere come la precedente, dimostrò con fino criterio, che le abbominate carnificine per sacrifici de’ Messicani sono molto esagerate e che la caduta dell’impero del Messico e la facile vittoria di Cortez si devono specialmente alla irritazione delle popolazioni messicane, contro il fastoso dispotismo teocratico militare, delle cui sollevazioni Cortez molto si giovò.
È mirabile vedere come Beltrami pel solo buon senso abbia prevenuto alcuni de’ giudizii sulle origini americane che la scienza va ora componendo. Egli rigetta le grandi analogie che si vollero trovare fra gli Americani e li abitatori del vecchio mondo, ed osservando come essi Americani hanno lo stesso tipo fisico, diverso da quello dei popoli dell’altro mondo, argomenta sieno di una sola e speciale razza. Riferendo poi loro tradizioni dice che scamparono da un diluvio, e che da Iztas Mixcuatl escirono sei figli che sono capi stipite alle sei nazioni americane: i Chirignana (Brasile) li Iscacinga (Chilì) i Tampa (Perù) i Chichimeca (Messico) li Algonchini (Alto Mississipì) i Cherokei (Basso Mississipì).
Beltrami nel 1826 ottenne un passo per all’isola Hayti ma poi non ci andò, e l’anno appresso dagli Stati Uniti riedette a Londra, dove nel 1828 coi tipi Hunt e Clarke pubblicò in due grossi volumi in 8.° una relazione in inglese dei suoi viaggi col titolo A Pilgrimage in Europe and America, partendo dal 25 novembre 1821, e dedicollo al bel sesso, e questa fu poscia tradotta in francese ed in tedesco. La rivoluzione del luglio chiamollo a Parigi, dove tosto lo troviamo in relazione epistolare amichevole col conte d’Appony ambasciatore austriaco, al quale con lettera 10 agosto 1830, di pochi giorni posteriore al rivolgimento, offre servigi per migliorare la condizione della sua patria. Nel tempo stesso provoca corrispondenze con Beniamino Costant, con Lafayette, con Lafitte. Egli partecipava alle teorie de’ napoleonidi del tempo suo, e quindi aspirava a far risorgere le nazioni e specialmente l’Italia ch’egli chiama Fenice, ghibellinescamente. Però nel 1834 pubblicò a Parigi un opuscolo col titolo l’Italie et l’Europe e dedicollo ad un re saggio e cittadino, in cui pare accennasse Luigi Filippo. E ne mandò una copia a Chateaubriand, il quale risposegli fra l’altre cose queste per lui memorabili parole. «Nessuno brama più di me l’affrancazione della terra classica della libertà, ma io non spero nulla dalle attuali generazioni. La vecchia società perisce e nel travaglio della decomposizione e della trasformazione nazionale non si può attendere ciò che deve essere il risultato d’una lenta metamorfosi. Il disgusto ed il disprezzo profondo che mi si apprese per tutto che è nell’Europa e re e popoli, mi gettò nella solitudine.» Dove si sente lo sdegno nobile e mesto di un saggio legittimista deluso.
L’indole inquieta, le delusioni, le ostinate opposizioni che gli suscitavano i suoi modi bruschi e baldanzosi, ed il disgusto di una vita che non gli aumentava il pascolo della fama, presto lo stancò di Parigi, come l’avea fastidito la metropoli britanna, ad onta dei favori che vi trovò nel governo, e nei dotti che lo nominarono della società medica botanica. Dopo una escursione ai Pirenei, donde recò una lucerta bicefela che gli valse crude polemiche coll’accademia delle scienze a Parigi, venne nella Germania ed acquistò una villa con castelluccio ad Heidelberg e la tenne parecchi anni. Nel 1837 lo troviamo a Vienna, e di là poco stante a Roma, e così quando qua, quando là si trasse insino oltre il 1850, quando sentendosi aggravare dal peso degli anni, si ridusse in porto nei suoi poderi di Filotrano, fra vecchi e semplici amici, in mezzo alle memorie della gioventù e de’ suoi viaggi, ed ivi morì nel febbrajo 1855, avendo compiti i 75 anni.
Fu di alta, snella e dignitosa persona, di volto aperto per tratti grandi, e colorito vivace, d’occhi biancastri e vivi, di capelli castani. Era sì animoso ed impetuoso che trovandosi da giovine a Milano in un albergo, a notte avanzata sentendo un grande tafferuglio sotto le sue finestre, non potendo escire, perchè l’albergo era chiuso, balzò dal balcone, vi si gettò in mezzo colla canna e dissipollo.
Le sue antipatie, eccitate specialmente da vivacità di carattere ed alimentate dalla vita avventurosa e capricciosa, si manifestano ad ogni tratto nelle sue opere, piene di declamazioni contro le ipocrisie, contro il gesuitismo, contro le borie letterarie, contro le burbanze magistrali. Egli ricco di buon senso ed affettante superiorità di spirito e fierezza selvaggia, non s’avvede che spesso le allusioni alla vanità dottrinale tradiscono in lui l’ambizione di dividere la gloria, ed i vantaggi degli scienziati. Donde gli veniva la lena di rigonfiare le sue lettere schiccherando di tutto, e sciorinando artatamente tutto che poteva dar colore alle sue gesta. Scrisse in lingue straniere per essere letto dai più, ma conobbe di fare mala prova, però osserva saggiamente essere difficile che un italiano pensi in altra lingua che la sua. Nondimeno anche prescindendo dai vezzi e dal sapore della lingua, il suo stile è ruvido e brusco e balzano come l’indole e l’educazione sua. Ma Giacomo Costantino Beltrami non vuol essere giudicato come scrittore, ed egli stesso non ci pretendeva, ma dev’essere posto nella schiera degli arditi ed intelligenti scopritori italiani dei quali estese le glorie continuando le tradizioni. Se nel secolo scorso per sciagurate condizioni politiche sembrarono languire e spegnersi le belle emulazioni italiane, al contatto di nuovi stimoli si risvegliarono, onde alla serie dei Polo, di Cadamosto, di Colombo, di Zeno, di Pigafetta, di Cabota, di Verazzano, d’Americo Vespucci, di Filippo Sassetti, che finisce col secolo XVII, nel XIX si collega quella di Giambattista Brocchi di Bassano, morto nel 1826 nel Sennaár dopo aver visitato l’Egitto, l’Arabia; di Belzoni da Padova, famoso scopritore di monumenti egiziani, che morì nel 1823, mentre Beltrami scopriva il Mississipì, di De Vecchi da Milano dotto viaggiatore nella Siria, nella Persia e nell’Egitto, di Gaetano Osculati da Monza, che dal 1846 al 1848 studiò e descrisse accuratamente le regioni equatoriali dell’America, di Codazzi da Lugo che prode ufficiale d’artiglieria negli eserciti Napoleonici si trasferiva nell’America del Sud, ove qual colonnello del Genio al servizio della Venezuola e della Nuova Granada, tanto ampliava il campo della geografia positiva di quelle regioni.
Note
- ↑ La maggior parte di queste cose serbasi ora nella Biblioteca pubblica di Bergamo.
- ↑ Enrico Schoolkraft nel 1850 mostrò che negli Stati Uniti, compresi Texas, Utah, Nuovo Messico, e California di fresco annessi, stanno ancora 450 mila indiani aggruppati in 140 tribù, distinte in 7 classi di dialetti: li Appalasiani, li Achelachi, i Cherocei, li Irochesi, i Dacota, li Shoshoni, li Alzenchini.
- ↑ I monumenti di Uxmal e di Mitla fotografati da Désiré Chamay, vennero pubblicati ed illustrati a Parigi nel 1861 da Leduc e Denis.
- Testi in cui è citato Vittorio Alfieri
- Testi in cui è citato Ugo Foscolo
- Testi in cui è citato James Fenimore Cooper
- Testi in cui è citato François-René de Chateaubriand
- Testi in cui è citato Henry Wadsworth Longfellow
- Testi in cui è citato Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi
- Testi in cui è citato Alexander von Humboldt
- Testi in cui è citato William H. Prescott
- Testi in cui è citato Brantz Mayer
- Testi in cui è citato Hernán Cortés
- Testi in cui è citato Bernardino Biondelli
- Testi in cui è citato Gian Battista Brocchi
- Testi in cui è citato Giovanni Battista Belzoni
- Testi SAL 100%
- Testi di Gabriele Rosa