Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro II/Capitolo VI
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO SESTO
§ I.
L’ammiraglio non poteva lasciare impuniti gli assassinii commessi da Guatiguana: d’altronde le ostilità degl’indigeni non cessavano. In quel tempo stesso il capitano Luiz de Artiaga si trovava strettamente bloccato nella fortezza della Maddalena. Prevedendo Colombo che una più lunga mausuetudine cagionerebbe un maggiore spargimento di sangue, diede l’ordine di attaccare improvvisamente il cacico Guatiguana, e contemporaneamente di liberare dal blocco la fortezza. Le soldatesche del cacico andarono rotte e dissipata. I prigionieri furono imbarcati sulle navi che Antonio de Torres doveva ricondurre in Ispagna.
Al tempo stesso l’ammiraglio cercò di rompere la lega dei gran cacichi, distaccando da essa Guarionex, il quale regnava sul magnifico paese della Vega. Lo chiamò a se: lo assicurò che la punizion data a Guatiguana era un affar personale, e che i misfatti commessi dagli Spagnuoli, mentre egli era stato assente, sarebbero egualmente puniti. In questo abboccamento l’ammiraglio acquistò un tale ascendente sopra Guarionex, che lo determinò a dare sua sorella in matrimonio al lucaiano Diego Colombo, l’interprete battezzato, che serviva con gran fedeltà, ed a lasciar costruire in mezzo a’ suoi dominii una fortezza, che dedicò alla Vergine sotto il nome di Concezione: per mezzo di questa assicurava le sue comunicazioni colla plaga delle miniere d’oro, e poteva reprimere qualunque sollevazione. Da quel punto la lega indebolita si riduceva a Caonabo, al suo cognato Betrechio, ed al sovrano dell’Higuey; i quali due ultimi non avrebbero intrapresa cosa veruna senza l’aiuto del Signore della casa d’oro.
Ponendo Caonabo nella impossibilità di nuocere, la pacificazione dell’isola si trovava sicurata: ma non era facile ricacciarlo nelle sue montagne, ove le asprezze del suolo gli fornivano naturali difese. D’altra parte, non conveniva restar esposti a’ suoi colpi improvvisi. L’ammiraglio pensò di combattere il guerriero Caraiba colle armi ch’egli stesso usava, la frode o malizia indigena, gli stratagemmi indiani. Comunico la sua idea al capitano Alonzo de Ojeda, e lo incaricò di mandarla ad esecuzione. Si trattava di andare a trovar Caonabo a casa sua, discosto più di sessanta leghe, pigliarlo da mezzo del suo popolo, e condurlo prigioniero all’Isabella. Ad impresa sì ardua bisognavano pochi, perocchè i molti avrebbero suscitato diffidenza. Ojeda elesse nove cavalieri, del cui valore e della cui vigoria era certo, e prese la via della Maguana. Egli portava al «signore della casa d’oro« un ricco presente da parte dell’ammiraglio. Non diffidando punto delle loro intenzioni, a motivo del piccolo numero de’ visitatori, Caonabo ricevette con piacere il dono che gli recavano.
Precedentemente, mentre Caonabo si aggirava intorno l‘Isabella, macchinando la distruzione della nascente città, un romore sconosciuto, sonoro, dalle vibrazioni penetranti, aveva percosse i suoi orecchi la sera sul tramonto, la mattina al levar del sole: era la campana che sonava l’Ave Maria, o come dicon altri popoli, l’Angelus: aveva veduto, che, subito dopo, gli Spagnoli andavano verso la chiesa, e si figurò che questa voce misteriosa li facesse obbedire: avrebbe data ogni cosa per possedere quella voce nelle sue montagne: e ne aveva manifestato il desiderio. Conoscendo questa circostanza, Ojeda invitò il cacico a venire all’Isabella per fare amicizia col Guamiquina, o gran capo degli Spagnoli, e fecegli credere, che il Guamiquina gli farebbe dono del Jurey di Biscaglia, (questo e il nome che gli isolani davano alla campana): essi chiamavano eziandio Jurey il cielo, e le cose celesti.
ll Signore della casa d’oro non pote resistere a quell’allettativa: si dispose a partire, ma voleva menar seco il fiore delle sue genti. Sull’osservazione di Ojeda, che non si fanno visite alla testa d’un esercito, rispose alteramente, non essere cosa degna del «Signore della casa d’oro» viaggiare con minore scorta. Ojeda mostrò di arrendersi a questo motivo, e si posero in cammino. Quando il corteo giunse al fiume Yaque, Ojeda trasse dalla sua valigia delle manette d’acciaio molto belle, la cui lucentezza conquise il cacico. Caonabo chiese a qual uso servissero: Ojeda gli rispose ch’erano braccialetti di cerimonia, che venivano dal Jurey di Biscaglia, e che i sovrani di Castiglia mettevano nelle grandi occasioni, e nelle danze solenni: proposegli di adornarsene, e di mostrarsi agli occhi del suo esercito, montato sopra il suo cavallo, come un re del Jurey. L’idea di farsi vedere al suo popolo con quell’adornamento lo trasportò di gioia. Non potendo sospettare di correre alcun rischio in mezzo al suo esercito, da parte di soli dieci cavalieri, allontanate alquanto le sue genti, fece un bagno, indi ornandosi delle brillanti manette, montò a cavallo, il groppa all’Ojeda, coi piedi e le mani strette di quegl’ornamenti d’acciaio. Ojeda fece allora volteggiare il suo cavallo, allargando sempre più il circolo delle sue prove, e gl’Indiani, com’era naturale, indietreggiavano davanti a quel galleggiare del cavaliero. Giunto sul lembo della foresta, Ojeda prese a galoppare: i suoi cavalli lo raggiunsero a briglia sciolta: allora gli Spagnoli, sguainando le loro sciabole, minacciarono Caonabo di metterlo in pezzi se faceva un moto, o metteva un grido: ed ei fu costretto a lasciarsi legar sodamente con funi dall’Ojeda, e incontanente i cavalieri partirono velocissimi alla volta dell’Isabella.
Ell’era distante ancora più di cinquanta leghe, e per cansare diversi villaggi indiani, si dovevano fare lunghi giri: bisognava vegliar sempre attenti su tutti i moti del prigioniero. l rapitori dovettero passare a nuoto torrenti e fiumi; traversare paludi, valicare montagne rotti dalla veglia e dalle fatiche, e rifiniti della fame. l cavalli erano estenuati. Finalmente giunsero all’Isabella. Ojeda teneva sempre in groppa il suo prigioniero legato. Questo piccolo stuolo giunse dinanzi alla casa del governo, stanza dell’ammiraglio, al quale consegnò la sua preda. Lietissimo di questo bel fatto, l’ammiraglio comandò di usar risguardi al prigioniero, assegnando in a carcere la sua propria casa: nondimeno ebbe cura che si aggiungessero catene alle brillanti manette, che lo avevano affascinato; senza la qual precauzione il caraiba sarebbe sicuramente fuggito.
Anzichè mostrarsi avvilito dalla prigionia, il Signore della casa d’oro faceva minacce, si atteggiava alteramente, cercando d’irritare l’orgoglio castigliano, si vantava di aver trucidato Spagnuoli, distrutto il fortino e preparata la medesima sorte agli abitanti dell’Isabella. Quando l’ammiraglio entrava nella sua camera, il cacico fingeva di non vederlo, e non si moveva. Se, per lo contrario, andava a lui l’Ojeda, incontanente lo salutava con rispettosa sommissione. ll fatto audace, eseguito dall’Ojeda, era così conforme agli stratagemmi di guerra de’ Caraibi, che, il Signore della casa d’oro provava un’ammirazione involontaria pel suo vincitore: trovava eroica l’insidìa a lui tesa; e quando gli era detto ch’era prigioniero dell’ammiraglio e non di Ojeda, e che perciò doveva rispettare davantaggio l’ammiraglio, rispondeva che Ojeda era quello che lo aveva preso; e che l’ammiraglio non avrebbe osato di venirlo a prendere in mezzo al suo popolo.
Tuttavia, il ratto del Signore della casa d’oro, il gran Caonabo, aveva a bella prima percossa di stupore l’isola; tutta la popolazione vi andò compresa di spavento.
ll cacico aveva tre fratelli. Uno d’essi, rinomato per valore e guercio, Manicatex, riunì un corpo di cinquemila arcieri, e mandò emissari ai diversi cacichi per fare una leva generale contro gli Spagnuoli. Cercando di vendicarsi con uno stratagemma, Caonabo si lamentò coll’ammiraglio che durante la sua cattività i cacichi vicini a’ suoi Stati maltrattavangli i sudditi, e lo pregò di volerli difendere mandando alcuni soldati su diversi punti del suo territorio: sperava che Manicatex li sorprenderebbe, e li farebbe prigionieri, per ottenere poi uno scambio, e liberarlo; o che almeno li truciderebbe, ciò che renderebbe più facile lo sterminio del rimanente degli stranieri. Ma Colombo ebbe cura di spedire, invece di uomini isolati, una forte schiera sotto gli ordini di Ojeda; il che mandò a vuoto il disegno del caraiba.
L’ammiraglio sapeva, che, ad eccezione di Guacanagari tutta l’isola doveva levarsi in armi; e perciò risolvette di non rimanere più lungamente immobile.
ll 24 marzo, quantunque ancor cagionevole della salute, si mise in campo con dugento fanti e venti cavalli, seguiti da alcuni cani corsi. L’inoffensivo Guacanagari, alla testa de’ suoi guerrieri, lo accompagnava secondo la sua promessa. L’ammiraglio formò in due corpi questa poca gente, affine di dividere la moltitudine di nemici, che ammontava, corse voce, ad oltre centomila uomini. Dal canto suo Manicatex aveva abilmente divise le sue genti in cinque corpi di esercito, che dovevano occupare le cinque entrate nella pianura, appoggiarsi e riunirsi quando il piccol numero di Spagnuoli, movendo contra di loro, sarebbe entrato nello spazio lasciato libero; allora sviluppandosi, essi avrebbero attorniato e oppresso colla loro moltitudine quella piccola schiera nemica.
La mossa dell’ammiraglio fece riuscir vana l’abile tattica del guerriero Manicatex: don Bartolomeo Colombo affrontò risolutamente gl’indigeni con cento uomini, mentre altri caricavano impetuosamente l’ala sinistra, e l’intrepido Ojeda irrompeva furiosamente co’ suoi venti cavalli sul principale corpo di esercito. La foga de’ cavalli ruppe tutte le linee; il fuoco degli archibugi, le terribili ferite delle spade spagnuole rendettero generale la rotta: i cani corsi la compierono col loro abbaiare, e coi loro morsi. Gl’Indiani, pieni di terrore, si gettavano in ginocchio chiedendo mercede: uno de’ fratelli di Caonabo fu preso, e andò a dividere la sorte del Signore della casa d’oro. Gli Spagnuoli condussero all’Isabella molti prigionieri.
Questa giornata assicurò per qualche tempo la tranquillità generale, ispirando tal idea della possanza degli stranieri, che, poco dopo, quando uno Spagnuolo isolato ed inerme passava in paesi fuor di mano, gl’Indiani si prostravano davanti a lui, ed erano solleciti a porsi sotto i suoi ordini.
§ II.
L’ammiraglio continuò la sua marcia vittoriosa in più parti dell’Isola, mantenendo fra’ suoi soldati la disciplina militare, mostrandosi giusto agli indigeni, cui la sua presenza, d’altronde, proteggeva da ogni insulto. Indi, per guarentirsi da nuove cospirazioni dei cacichi, risolvette di costruire tre altre fortezze nelle località più importanti della Vega: ne disegnò il piano, e lor diede i nomi di Catterina, di Speranza e di Concezione: quest’ultima, sopratutto, doveva essere formidabile. Eccettuato Behechio, cognato del Signore della casa d’oro, il quale se ne rimaneva tranquillo nella sua lontana dimora, i gran cacichi avevano fatto la loro sommissione, e si offrivano di pagare un tributo alla Castiglia: aspettavansi qualche contribuzione in vegetabili od in giornate di lavoro per le costruzioni intraprese dagli Spagnuoli.
Ma il tesoro della Castiglia voleva essere ristorato delle spese anticipate per le due spedizioni. L’ammiraglio doveva provare che il padre Boil, Firmin Zedo, il saggiatore di metalli, Pedro Margarit e lo sciame de’ disertori mentivano fatti ed evidenza. Mandar oro era il modo di incoraggiare i Re a proseguire la scoperta delle regioni sconosciute, e di raccogliere il prezzo del riscatto de’ Luoghi Santi. Colombo decreto, pertanto, la seguente imposta: ogni abitante del distretto di Cibao e della Vega, di quattordici anni compiuti, doveva ogni tre mesi pagare al ricevitore dei diritti regi una quantità di polvere o di granelli d’oro da capire in un sonaglio da falco: solo il guercio Manicatex, fratello del Signore della casa d’oro, era, inoltre, obbligato di pagare, ogni tre mesi, una misura d’oro, che rappresentava il valore di circa cinquecento scudi. Nelle provincie che non possedevano miniere, il tributo trimestrale consisteva in venticinque libbre di cotone per ogni persona. Guarionex, re della Vega, offrì di pagare le sue imposizioni in cereali invece d’oro, sotto il pretesto che i suoi sudditi non sapevano raccoglierlo ne’ fiumi de’ suoi stati.
Ma Cristoforo Colombo non vi consentì e mantenne l’imposta in oro.
Per questo fatto alcuni storici hanno notato di rigore e di imprevidente avidità i balzelli imposti da Colombo. Nel suo ardore per la difesa degli Indiani, Las Casas non poteva trattenersi dal gridare contro la prima imposta che dovettero sostenere. Egli fa notare i vantaggi della proposizione di Guarionex, disposto a porre in coltura una pianura fertile di uno spazio di cinquantacinque leghe, la quale avrebbe potuto alimentare tutta la Castiglia per dieci anni. Ma le biade non costituivano il bisogno della Castiglia. Il re Ferdinando voleva oro e non granaglie; e il pretesto dato da Guarionex, che i suoi sudditi non sapevano raccoglier l’oro ne’ suoi fiumi, non er’ammissibile , ed anche ai dì nostri, nessun amministratore si aquieterebbe a simile profferta.
L’ammiraglio era costretto a cercare e ottener oro. Lo storiografo reale Herrera comprendeva perfettamente le difficoltà della sua situazione. «Siccome l’ammiraglio, dice, era straniero, solo, poco favorito dai ministri dei Re Cattolici, ne seguiva che dovea curare anzitutto le ricchezze; perciò faceva molto maggior caso dell’oro che di ogni altra cosa. Rispetto al rimanente, mostravasi vero cristiano, temente Dio, in- guisa che moderò i tributi, ecc.» Di fatto ei li ridusse della metà. Non furono quinc’innanzi obbligati che a riempiere la metà del sonaglio.
Non ostante questo alleviamento dell’imposta, una cupa mestizia si stendeva sulla maggior parte di Hispaniola.
l lavori che i cacichi esigevano dai loro sudditi erano sempre di breve durata, e si ristringevano ad alcuni leggeri diritti di caccia e di pesca, ad un po’ di cassave, di cotone ed al servizio in tempo di guerra: alimenti quasi esclusivamente vegetali non davan alcun vigore agl’indigeni; non sottostavano ad alcuna penosa fatica, perchè la natura provvedeva essa medesima ai loro principali bisogni: in gran parte passavano il tempo nel riposo, ne’ giuochi e nelle danze: que’ del litorale se ne rimanevano assorti in una sterile contemplazione in riva al mare, mentre gli abitanti delle valli e delle montagne dell’interno consumavano le loro ore sotto ombre deliziose, occupati a ciarlare e giocare: avevano poeti e novellieri che narravano loro le avventure de’ Caraibi e le storie degli stregoni, trovatori che traducevano nei diversi idiomi dell’isola le poesie della celebre Anacoana, il cui nome significava «Fior d’oro.»
La regina Anacoana, bella, e ingegnosa creatrice di balli e poemi conosciuti sotto il titolo d’Areytos, sedotta dal coraggio dell’avventuriere Caonabo, che, per confessione di Colombo possedeva molto spirito, gli aveva conceduta la sua mano in premio della prodezza. Il suo nome simbolico non giungeva agli Spagnuoli che attraverso la misteriosa lontananza delle foreste di Xaragua, in cui la regina si era ritratta presso al re Behechio, suo fratello, dopochè il valoroso sposo erale stato rapito. Le danze occupavano gran parte della vita degli isolani; diverse secondo i distretti, presentavano un carattere nazionale e nomi espressivi: Anacoana aveva cresciuta grandemente la loro importanza per la parte letteraria e scenica che aveva lor attribuita.
Se il lavoro era penoso a costituzioni molli, che partecipavano della fragil esistenza dei fiori e degli uccelli, la regolarità delle fatiche non era meno odiosa a que’ popoli nemici d’ogni violenza. ne’ quali l’ignavia non costituiva ne un vizio nè un difetto, sibbene il modo medesimo d’esistere. Gli indigeni chiedevano candidamente agli Spagnuoli quando pensavano di ritornare al Jurey: tuttavia vedendoli rizzare lor edifizii di pietra, notando che rimandavano lor navi senza rimbarcarsi, compresero che avevano intenzione di stabilirsi nel loro paese, si riconobbero minacciati di schiavitù, e caddero in profonda malinconia.
Non dissimulandosi la loro impotenza a scacciarli colle armi, imaginarono per finirla di farli morir di fame. Siccome gli Spagnuoli erano gran mangiatori, e da lungo tempo non avevano ricevuto viveri, gl’indigeni credettero distruggerli abbandonandoli a se medesimi: cessarono, pertanto, di coltivare la terra; ne strapparono perfino gli alberi da frutti, e si ritrassero nelle montagne, sperando di trovar quivi un nutrimento sufficiente, avuto riguardo alla loro abituale sobrietà.
Questo complotto dell’astenzione e dell’allontanamento si eseguì senza ostacolo, ma a solo danno di coloro che l’avevano concepito. Si eran essi ritirati sulle alture boscate: l’aria più fredda e più umida aumentava ilor bisogni: non potevano stabilirvisi in parte alcuna, e passavano le notti esposti all’inclemenza del clima. Le radici, i frutti spontanei che raccoglievano qua e là mal potevano bastare a nodrire quelle popolazioni che fuggivano senza posa, cacciate dal timore degli Spagnuoli. Le privazioni, le fatiche e l’insalubrità di quelle foreste, in cui l’eccesso della vegetazione guasta l’aria lungo la notte, ingenerarono malattie di una natura epidemica, che rapirono moltissimi, mentre gli Spagnuoli trovavano modi di vivere nella pesca sulle rive del mare, alla foce de’ fiumi e nelle provvigioni che loro giunsero improvvisamente dalla Castiglia.