Dal Trentino al Carso/La titanica lotta nel Trentino/Dopo l'assalto
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DOPO L’ASSALTO.
Dalla fronte, luglio.
Gli ufficiali della brigata lo chiamavano «il nostro papà», ed i soldati lo amavano con quella dedizione veneratrice che essi hanno sempre per i capi che conducono alla vittoria. Era un generale dal volto fiero, burbero, oscuro, pieno di volontà, di energia, di decisione, con una luce di bontà negli occhi accigliati. Gli uomini erano conquistati da quell’affetto chiuso che li seguiva nell’azione dal profondo del suo sguardo, come un testimonio silenzioso e appassionato, ed hanno fatto delle cose magnifiche, segnando col loro sangue e con la loro carne le dure tappe delle avanzate vittoriose. Il generale è morto.
Lo ha ucciso una granata lanciata alla cieca nel bosco, mentre la truppa che egli comandava, espugnata una formidabile ridotta austriaca, mandava giù per i viottoli oscuri lunghe carovane di prigionieri.
Piccoli drappelli della brigata scendono ora nella valletta dalle posizioni. Portano le badiere dei loro reggimenti: vengono a dire addio alla salma del generale che sparisce.
Sbucano dai bordi della foresta nell’angusto lembo di prateria che la strada attraversa, in fondo alla gola. Arrivando nel sole, scintillano improvvisamente le loro baionette inastate, forbite di fresco, che finiscono per formare una siepe di bagliori lungo la via polverosa.
In rango i soldati aspettano l’ultima rivista.
Non hanno avuto il tempo di rammendare gli strappi più recenti fatti dai reticolati nemici alle loro uniformi; sono venuti giù come il combattimento li ha lasciati, un po’ sdruciti, sporchi perchè non c’è acqua, con delle macchie indelebili di terra umida ai ginocchi e ai gomiti, ma impettiti, rigidi, marziali. Sono in assetto di battaglia; le giberne piene pesano sulla loro larga cintura grigia e tendono le bretelle.
Una volta schierati questi uomini non parlano, non sussurrano, non si muovono; una gravità solenne è sui loro visi barbuti, arruffati, irrozziti dalle intemperie e dalle fatiche, sui quali il largo bordo dei morioni di acciaio, ammaccati dalle pallette di shrapnell e dalle schegge, mette la sua ombra.
Hanno un’aria di altri tempi sotto quell’elmo antico, e non è possibile immaginare che cosa fosse, quale fisionomia avesse ognuno di loro nell’epoca di pace. La guerra li ha martellati, li ha riplasmati; pare che siano stati sempre dei combattenti; hanno una indicibile espressione guerriera, dura come una corazza. Qualche piccola fasciatura biancheggia nei ranghi; alcuni hanno le mani leggermente ferite: i reticolati austriaci non hanno lacerato soltanto delle uniformi. Avanti alla truppa sta un ufficiale magro, pensoso, dalla fisionomia tagliente e risoluta, che porta anche lui l’elmo da soldato: è un maggiore divenuto comandante della valorosa brigata sul campo, il successore temporaneo del morto.
Un camion viene su oscillando e rombando. È il carro funebre.
Si ferma; sei ufficiali ne tolgono il feretro, avvolto nel tricolore e coperto da una grande corona fatta dai soldati con fronde di pino strappate alla selva contesa. Lo depongono su delle pietre. Le bandiere dei reggimenti, tutte scolorate dalle piogge, si inchinano, ondeggiando alla brezza profumata di resina. La truppa presenta le armi.
Un grande silenzio.
Non si ode che il rimbombo delle cannonate, l’eco fragorosa e lunga delle esplosioni, e, di tanto in tanto, l’affannoso e inverosimile lamento dei grossi proiettili che passano nel ciclo sereno.
Tutto intorno precipitano le balze scoscese dei monti coperte di antichi boschi, attraverso i quali la battaglia è passata, irti di abeti e di pini, folti come una smisurata e tenebrosa pelliccia. Qualche vetta rocciosa emerge dalle foreste, nuda, grigia, dominante, severa.
Fra le piante più basse, all’orlo della selva, nell’ombroso e gigantesco colonnato de’ tronchi s’intravvedono degli accampamenti: una pittoresca confusione di tende, di baracchette coperte di corteccia d’albero, di botti disposte in fila fra macigni e travi — per i depositi dell’acqua — e che fanno pensare a preparativi di straordinarie vendemmie, una folla di carrette con le stanghe in aria, in un atteggiamento di riposo, le ruote posate sul muscoloso serpeggiare delle radici, un agitarsi di cavalli e di muli allineati alla catena tra fusto e fusto, su lettiere di frasche, in mezzo a cumuli di foraggi e ammonticchiamenti di casse.
Più in alto, in qualche punto, la foresta appare diradata, schiantata, come calpestata da un piede immane, e negli spiazzi scoperti e sterrati corre il solco sinuoso di trincee sconvolte, circondate da uno sparpagliamento di tronchi abbattuti. L’ondata della battaglia ha lasciato così il segno dei suoi vortici. Sulla valle angusta il cielo è incorniciato dal frastagliamento delle cime e dei costoni, sui quali la moltitudine delle conifere irrompe in miriadi di guglie sottili ed erette, piene di slancio, che dànno a questi monti dei profili imponenti e strani da cattedrali favolose, immense e fosche.
Dagli accampamenti silvani una massa di soldati è discesa sul velluto verde del prato inondato di sole, e aggruppata qua e là, taciturna e reverente, assiste al funerale eroico.
Non è possibile ridire la grandiosità che assume la cerimonia semplice di questo addio nella selvaggia e truce maestà della montagna, mentre il cannone tuona come per le esequie di un re.
Una batteria non lontana da una boscaglia apre il fuoco. Nessuno si volge. L’affollamento delle truppe è fermo e muto. Ascolta ora una voce che si spande nella quiete luminosa. Un ufficiale evoca sulla salma del generale tutti i morti della brigata.
Egli fa i nomi degli ufficiali caduti, e pare che li chiami, ad uno ad uno, in un appello solenne. Ed essi sorgono alla chiamata e passano alla memoria degli uomini schierati. Ad ogni nome, echeggia nel cuore di quei fieri soldati una voce inaudibile e nota che risponde: Presente!
Sono voci lontane, che vengono dal Mrzli, che vengono dall’Altipiano di Folgaria, che vengono dal Monte Baldo, che vengono dal Monte Zebio: più nette queste, più vibranti, più vicine alla vita, voci di ieri. E ricordi di assalti e di mischie arrivano portando ogni risposta in una folata di battaglia: combattimenti fra le rocce, combattimenti sulle nevi, combattimenti nei boschi. I soldati, all’appello dei morti, rivivono la loro epopea di tappa in tappa.
L’ultima lotta, dalla quale queste truppe sono appena discese, è stata appunto al Monte Zebio, a nord del Mosciagh, fra la valle di Nos e la valle Galmarara.
Durante il funerale, la posizione del Zebio è indicata da rimbombi profondi che si succedono a intervalli regolari. Il cannone batte la vetta, che abbiamo preso, perduto, ripreso, riperduto.
È una delle vette nude che si sollevano al di sopra della zona dei boschi, senza arrivare ancora a quella della sterilità. Salendo da Asiago, è la terza montagna della catena che noi assaliamo, una catena che dal Monte Interrotto, sulla Conca di Asiago, fino alla Cima Dodici, sul ciglione dell’Altipiano precipitante nella valle del Brenta, allinea delle vette con una regolarità singolare, quasi equidistanti, ma una più alta dell’altra di due o trecento metri. Le ultime sorpassano le altitudini delle vegetazioni, balzano su scheletrite, sassose, tutte macigni e pareti a picco, e la Cima Dodici, l’ultima, turrita, dirupata e grigia, raccoglie ancora un candore di nevi nell’ombra dei suoi canaloni.
Dopo avere incalzato il nemico da valle a valle, battendosi sempre, la brigata che ha perduto ieri il suo comandante, provata duramente ma incurante delle perdite, ha iniziato l’attacco dello Zebio. Essa saliva ed assaliva, entro la foresta, snidando il nemico da posizioni sempre dominanti, ricacciandolo in su da trincea a trincea, finché lo ha respinto fuori dalle ultime boscaglie, sul cucuzzolo erboso. Gli austriaci si sono rifugiati nell’ultimo trinceramento, il più forte, alla sommità del monte preparata a difesa, casamattata, cinta di reticolati profondi, munita di mitragliatrici.
L’assalto, tentato e ritentato, arrivava alle trincee ma non poteva aggrapparvisi. La cima prativa, liscia, era come uno spalto di fortezza, spazzato dal fuoco radente. Erano duecento metri di ripida salita che bisognava percorrere allo scoperto, senza un riparo, e l’attacco si sgranava e si sfiniva nel duro cammino battuto dalle raffiche di piombo. Ma i nostri si accanivano alla conquista, ostinati, indomiti. L’ultimo assalto è avvenuto l’altro ieri, durante la ripresa violenta dell’offensiva.
Gl’italiani erano trincerati fra gli ultimi e magri alberi della foresta. Alle sette del mattino sono balzati fuori ed hanno ricominciato l’ascesa. Il declivio era soleggiato. Essi salivano per plotoni affiancati. Gli austriaci che avevano indietreggiato nei rifugi sotto alle cannonate della preparazione, rioccupate le loro trincee, hanno aperto il fuoco. I plotoni grigi salivano sempre, urlando. Le mitragliatrici nemiche martellanti aprivano sul pendio i loro ventagli di morte. E i plotoni, benché diradati, salivano, salivano, salivano. Sono arrivati a gettarsi sotto ai reticolati, divelti qua e là dalle granate, e si sono ammassati lì, dove un lieve salto del terreno formava un angolo morto.
Ma nessuno poteva sollevare la testa. Il tiro delle mitragliatrici rasentava gli elmetti degli assalitori coricati. Come fare l’ultimo balzo? Come superare quei trenta passi sotto la falce dei colpi a bruciapelo? Un ordine era arrivato dal basso: Tenetevi fermi e pronti! — Ed erano pronti i nostri, tesi e aspettanti, col fucile stretto nel pugno. Gli austriaci dovevano veder fremere sull’erba le punte balenanti delle baionette.
Le ore passavano. Un’ora, due, tre.... Ad un tratto, delle detonazioni vicine hanno urlato nella boscaglia e un urlo lacerante di granate è passato sulle teste dei nostri. Dei pezzi da montagna erano stati portati su alla prima linea e battevano in pieno le trincee austriache.
I nostri non hanno indugiato. Dopo la prima salva sono scattati in piedi e si sono gettati nel fumo e nel polverone degli scoppi, urlando con frenesia. Cosa importava loro il rischio di qualche granata nostra? Era il buon momento. Cannonate e baionettate sono arrivate sul nemico quasi insieme.
Da tutte le parti gli austriaci sopraffatti hanno gettato le armi e sollevato le mani gridando quell’odioso «Boni taliani!» che è il grido di grazia di tutti i nostri nemici, dai beduini del Senusso, ai beduini di Francesco Giuseppe, il segno del riconoscimento mondiale di una mitezza sulla quale si fa assegnamento in guerra. E pare che ci gridino in faccia: Imbecilli!
A centinaia i prigionieri furono avviati alla valle. Non avevamo mai catturato dei nemici così lerci, stracciati, affamati. Alcuni barcollavano per la debolezza. Hanno dichiarato che da trentadue ore non mangiavano. Avevano preso un caffè la mattina avanti e poi più niente. Baciavano il pane che i nostri soldati porgevano loro, e benedicevano la cattura. «Perchè non vi siete arresi prima?» — è stato chiesto loro. — «Perchè — hanno risposto — avevamo paura delle pistole dei nostri ufficiali, che tirano giusto, e credevamo che voi ci massacraste».
Tirano giusto gli ufficiali austriaci. Dopo la resa, infatti, alcuni di loro, imbucati nei nascondigli, seguitavano a pistolettare i nostri soldati. Dovevamo stanarli come bestie feroci.
Ma nel pomeriggio la posizione, cannoneggiata da tutte le parti, fu investita da un attacco sul fianco sinistro che la prendeva d’infilata, e dovemmo ridiscendere al bordo del bosco. Fu durante il bombardamento che il generale venne colpito. Intorno a lui tutti furono feriti dalla stessa granata.
Ecco là, vicino al feretro, l’aiutante di campo, pallido, commosso, l’occhio febbricitante, la testa avviluppata di bende, il collo e la spalla fasciati. Non ha voluto restare all’ospedale. Sorretto da un soldato, continua a seguire il suo generale. Un cappellano militare, barbuto e cereo, ferito anche lui, col braccio al collo, la tunica da ufficiale gettata di traverso sulle spalle, fa il saluto militare, si avanza e parla:
«Soldati, voi amavate il vostro capo, caduto al fuoco. In nome di questo amore egli qui vi comanda di ubbidire al suo successore come obbedivate a lui, ricordandovi — e a queste parole la sua voce si è gonfiata di emozione — ricordandovi che in questa obbedienza riposano i destini della Patria!».
Il prete soldato porta di nuovo la mano, alla visiera e si ritrae.
Il cannoneggiamento si fa più intenso. Una nuova batteria entra in azione e il fumo dei suoi colpi, azzurro e lieve come una nebbia, sorge fra gli alberi.
Lontano, in basso, una processione di barelle attraversa la strada.
La folla dei soldati rimane immobile. Una quiete profonda, strana, triste, colma la valle.
Un nitrito di cavallo arriva dal fondo della gola, piena d’ombra, e nel silenzio umano esso passa chiaro e gaio come uno squillo di tromba. Sciami fitti di insetti minuscoli volano al sole turbinosi e vibranti.
Con voce ferma, il comandante del corpo d’armata legge ora alla truppa l’ordine del giorno di elogio alla brigata e la motivazione con la quale viene conferita la medaglia d’argento al valore al generale caduto. Poi egli toglie dall’astuccio di marocchino la medaglia scintillante, si volge, si china sulla bara e decora il morto.
Sul feretro, in mezzo al bianco della bandiera, spicca il distintivo degli eroi.
Allora avviene qualche cosa di straordinario, di grande. I soldati, rigidi nel saluto, piangono.
Dai loro occhi bagnati, delle lacrime, grosse lacrime amare e preziose da uomo, scendono sui volti fieri, scorrono lentamente lungo le gote bronzate dai venti, imperlano le barbe ispide e polverose. Delle spalle hanno un sussulto leggero di singhiozzi repressi. Lo sforzo per contenersi torce le bocche, aggrotta gli occhi e dà alle facce una espressione che pare quasi feroce.
Voltandosi, il comandante del corpo di armata vede questo maschio dolore che si reprime. Fermo, guarda un istante e, levata una mano, con voce dolce e grave dice:
«Piangete pure, soldati! Gli occhi che hanno guardato in faccia il nemico possono piangere. Le loro lacrime non sono segno di debolezza. Una nuova forza è in voi. Vincerete! Vincerete e vendicherete i vostri compagni caduti e il vostro generale!».
L’allineamento degli elmi ha delle oscillazioni lievi, involontariamente le teste si muovono come per un assentimento muto, per un consenso solenne e silenzioso. È un fremito che approva, che dice: Sì, sì, vendicheremo!...
E senza requie, tutto intorno, il cannone rugge.