Daniele Cortis/Capitolo nono

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Capitolo nono

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CAPITOLO IX.


Voci nel buio.


La contessa Tarquinia era inquietissima. Appena partita Elena, avrebbe voluto pigliar suo cognato a quattr’occhi; ma com’era possibile in mezzo a quella baraonda? E poi il conte Lao s’era dileguato subito. A mezzanotte, quando, partita la musica e spenti i lumi, la contessa rimase sola, non osò più andarlo ad assalire nella sua camera. Vi andò al mattino e lo trovò a letto con l’emicrania, nero, ringhioso da non poterlo accostare. Maledetti i lumi, maledetti gli strepiti; non sapeva niente, non aveva capito niente, non aveva dato niente, non s’era inteso di niente.

«Dunque» disse la contessa sbigottita, «lui è andato via senza danari, nè carta, nè promesse?

Il conte Lao, con tutta la sua emicrania, si rizzò di colpo a sedere sul letto, si cacciò a gridare:

«Ma sì, e così fosse andato all’inferno! E non statemi più a seccare! E andate fuori dei piedi anche voi!

La contessa scappò via, si sbattè l’uscio dietro con un colpo rabbioso.

«Oh che bestia!» diss’ella.

Elena l’aveva ingannata, dunque!

E aveva ingannato suo marito!

E s’era accordata con suo zio, certo. Adesso si capiva tutto. Era stato uno stratagemma del signor [p. 136 modifica] Lao per non metter fuori quattrini e di Elena per evitar scene e scandali in famiglia. Non averlo inteso subito! Però, dove mai aveva trovato tanto zelo, Elena? Lei sempre così sdegnosa delle questioni di danaro, lei che non aveva mai mosso un dito prima d’ora per evitare queste scene? Ci aveva ad essere una ragione occulta di tale condotta. Ma quale? V’era da perder la testa. E che farebbe adesso quell’altro bestione di suo genero? Capace di tutto, colui. Ah, non aver capito! Tutto quello stordimento di cose e di persone non gliene aveva lasciato il tempo. Ed esser sola, oramai, perchè anche Grigiolo e Malcanton erano partiti, esser sola con il rospo di suo cognato, non avere un aiuto, un consiglio! Quel benedetto Cortis dove s’era mai ficcato? Ci fosse stato lui, almeno! Come si sentiva male! Anche la casa e il giardino le davan noia con il loro disordine, fastidiosa feccia del tripudio scolato. La lista di reseda e di vaniglie intorno alla casa era tutta pesta; gli abeti e il giardino eran tempestati di carte abbruciacchiate; persino il biliardo aveva imbrattato di colla, quel Grigiolo, con i suoi palloncini! E che puzzo di sigaro nelle stanze!

Alle undici capitò il vetturino, giusta gli ordini avuti il giorno prima. La contessa se n’era dimenticata. Aveva ben altro che visite, ora, per il capo! Era per congedarlo quando, «servitor suo, servitor suo», le sbucò davanti, sul prato, fra macchia e macchia, il piccolo nero don Bortolo in gran tricorno e canna d’India. Veniva a riporre i paramenti della chiesetta di San Pietro e a bere un bicchier di bianco. La contessa gli domandò subito se sapesse niente di Cortis. Altro se sapeva, don Bortolo! Il dottor Picuti [p. 137 modifica] era tornato dal capoluogo del collegio con tante notizie elettorali. C’eran fuori gli avvisi per una riunione da tenersi quel giorno stesso e si aspettava Cortis. Anzi il signor Checco Zirisèla era partito con l’idea di andare anche lui a udirlo.

«Credo» soggiunse il prete «che abbia telegrafato da Milano al suo gastaldo e che domani lo aspettino a casa.

Fu allora che la contessa Tarquinia pensò di mandare il vetturale a pigliarlo. Ell’aveva fede in Daniele Cortis. Gli direbbe tutto, gli chiederebbe consiglio. Già quell’egoistone di Lao non pensava che a’ suoi reumi.

«Lei, contessa, lo saprà bene dov’è andato quel campanile di quel signor Daniele» chiese ex abrupto don Bortolo.

«Non lo so» rispose asciutta la contessa.

«Guardate, corpo, che combinazione!» esclamò quegli alzando ed allargando le braccia. «Una contessa ch’è una contessa, non lo sa, e a Villa lo sa anche la serva dell’arciprete.

«Dunque, dov’è andato?

«Dunque, dunque, dunque... La fa da oca, Lei, signora contessa. Lo sa meglio di me. No? Bene. A Lugano, è andato. E sa a trovar chi? La santa donna di sua madre che a noi ci hanno dato a bere che fosse morta e poi era viva questa gran...!

La contessa non parve molto sorpresa. Aveva sempre dubitato di questo. E aborrendo da qualunque relazione con sua cognata, preferiva quasi che Cortis non avesse detto niente.

«Come lo hanno saputo?» diss’ella.

«Che è andato a Lugano si sa dalle persone di [p. 138 modifica] casa che hanno avuto l’ordine di mandargli lettere e telegrammi a Lugano. Di sua madre si sa dall’arciprete. All’arciprete pare che la ci scrivesse qualche volta.

«Perchè?

«Che so io? Per aver la fede di buoni costumi. Oh, Ella si vuol disturbare!

Veniva il solito tintinnio di bicchieri. La contessa, fatte portar le chiavi della chiesetta, lasciò don Bortolo a godersi in loggia, nella fresca brezza meridiana, un limpido vinetto d’oro.

«Faccio un poco di preparazione» diss’egli «e poi vado subito.

Ella salì nella cameretta d’Elena ricordandosi che questa le aveva detto di restituire a Cortis il libro che troverebbe sul tavolino. Entrò nella stanzetta vôta, si commosse un poco vedendo quel freddo ordine senza vita e dondolarsi al vento le rose care ad Elena. Il libro era lì, sul tavolino. La contessa si ricordò di averlo visto più volte fra le mani d’Elena. Ne guardò il frontespizio — ChateaubriandMémoires d’outre tombe. Non lo conosceva. Chi sa che libro triste, che libro alto! A Elena non piacevano che letture così. Daniele Cortis aveva scritto il proprio nome sul frontespizio interno. La contessa lo guardò a lungo e disse fra sè, sospirando:

«Per Elena ci voleva lui.

Ma! Qui lei non ci aveva colpa. Quando Daniele incominciava forse a pensarci, Elena era una fanciullona cresciuta prima del tempo e affatto indifferente alle occhiate dei giovanotti. E poi, lui era andato via, era capitato in casa quell’altro... Pareva proprio un buon partito, un partito serio. [p. 139 modifica]

Aperse il cassetto del tavolino. Non c’era che un biglietto di visita d’Elena, lacerato. Aveva, oltre al nome, poche parole di scritto, cancellate, illeggibili.

La contessa lo raccolse con l’istinto che la occulta ragione della condotta d’Elena, non potuta trovare da lei in nessun modo, fosse appunto lì sotto quel buio nascondiglio di cancellature onde usciva una voce indistinta.

Verso le quattro, cavalli e ruote entrarono fragorosamente nel portico. La contessa corse fuori mentre Cortis saltava dal calesse a terra. Gli porse ambedue le mani. Quanto gli era grata! Con quel caldo!

«Povere bestie!» brontolò il vetturale.

«Dunque?» disse Cortis ansioso. «Sola?

«Altro che sola, figlio caro!

Appena furono in casa la contessa non mancò di mettersi a piangere. Cortis non sapeva che pensare.

«Insomma, zia? Cosa è stato?» diss’egli.

La zia indugiò un poco a rispondere. Intanto due o tre colpi di campanello suonarono in alto.

«Niente» diss’ella, «non sarà niente; saranno sciocchezze mie, ma intanto io ho stretto il cuore, Daniele, ch’è una cosa grande, e non vedevo l’ora di averti qua, di parlarti, di sentir cosa dici. Ti ricordi quella sera del temporale che tu venivi dalla camera di Lao e mi hai incontrata qui in sala? Ti ricordi che avevo le lagrime agli occhi? Bene.

Ella cominciò a raccontar cose che Cortis sapeva già in gran parte: gl’imbarazzi di danaro di suo genero, le sue pretese, le tante questioni suscitatene in famiglia, l’inflessibilità di Lao, il martirio proprio.

«Signora» disse la cameriera entrando, «il conte ha udito la carrozza e ha voluto sapere chi fosse arrivato, e adesso dice che aspetta il signor Daniele. [p. 140 modifica]

«Santo cielo!» sbuffò la contessa impazientita. «Non si può dire una parola. E ha l’emicrania, s’intende. Il signor Daniele verrà subito. Abbia pazienza un momento.

Volle finire il suo racconto e lo finì in fretta e in furia. Nè Cortis nè lei si accorsero che intanto il campanello chiamava e strillava più forte di prima, e che la cameriera era tornata là, sulla porta.

«Signor Daniele» disse costei timidamente.

«Sì, sì, sì, va su, in nome del cielo!» esclamò la contessa. «Va su, e sbrigati, e torna giù che t’aspetto.

Ma Cortis non aveva ancor posto piede sulla scala che l’uscio della loggia si aperse con fracasso e Saturno gli saltò al petto mugolando e gemendo di gioia. Dietro a Saturno c’era un gastaldo di Villascura con altre due persone. Il gastaldo aveva udito da don Bortolo che il suo padrone si sarebbe trattenuto a villa Carrè; perciò era venuto a prendere gli ordini e a condurgli i signori segretari comunali di... e di... desiderosissimi di conferire con lui. Cortis strinse la mano a questi signori, e, pregatili di volerlo attendere un momento, salì dal conte Lao.

Fu raggiunto sulle scale dalla cameriera che gli sussurrò dietro:

«Signor Daniele.

Questi si voltò.

«Le posso dir qualche cosa io della padroncina» soggiunse l’altra. «Colla padrona non parlo, perchè... si sa, poveretta!

«Cosa c’è?

«Ieri l’aiutavo a fare i bauli, Bettina, la mi dice, ho paura che non ci vediamo altro. Cosa mai, signora? dico. Perchè non vuole che ci vediamo? Io [p. 141 modifica] faccio il mio caro conto di viver ancor qualche annetto, dico. Eh sì, la dice, ma sono io, Bettina, che non torno più da queste bande. Vado lontano, la dice. Eh la tornerà, dico; perchè non la vuol tornare? Non so niente, la dice. Vuole adesso, signor Daniele, che la contessina abbia fatta questa parola senza una gran ragione? Dio sa cosa aveva in testa, poveretta. Si figuri che un momento dopo prende un libro, sta lì a guardarlo un quarto d’ora tremando tutta così così come una foglia, lo mette in fondo a una valigia e poi, quando la valigia è ben piena, fu fu fu, me la disfa, piglia fuori il libro e intanto che io rifaccio la valigia, scrive un biglietto e lo mette in questo libro. Poi va fuori e ritorna subito in gran furia, straccia il biglietto e ne scrive un altro!

Daniele non le rispose niente, entrò dal conte Lao. Un buio, un caldo, una raffata di canfora lo fermarono sulla porta.

«Scusa, caro te, Daniele» disse la voce del conte. «Accendi un fiammifero. La candela è in terra, dietro al letto.

«Come va?» chiese Cortis piano.

«Male, non importa. E così?

In quel punto il fiammifero di Cortis brillò.

«Oh ti vedo» mormorò Lao. «Ho capito. Te l’ho detto prima, già. Non poteva cambiare che in peggio quella donna lì.

«Ti racconterò poi» disse Cortis.

«Basta. E l’elezione?

«Male anche quella.

Cortis accese la candela, vide finalmente il suo interlocutore, che supino sul letto, pallido, con il capo fasciato, con gli occhi socchiusi, diceva sottovoce: [p. 142 modifica]

«Porci!

Cortis gli strinse la mano.

«Ti lascio quieto» diss’egli.

Lao lo trattenne, gli domandò s’ella gli avesse raccontato il pasticcio del giorno prima.

«Ti raccomando» diss’egli «che non faccia niente senza dirlo a me. Addio. Che ore sono?

«Cinque meno dieci.

«Dammi la pillola. Lì sul tavolino.

Prese la sua pillola di valerianato di chinino e, lasciata ricader la testa sul capezzale, sospirò ancora mentre Cortis usciva:

«Porci!

Cortis discese in fretta dai suoi segretari comunali. Avevano buone notizie della montagna. Lassù non si prendeva mica l’imbeccata dal capoluogo. Tutt’altro; c’era anzi una vecchia gelosia tra il monte e il piano, un astioso antagonismo. Tuttavia, era necessario che Cortis facesse una scappata l’indomani a... tanto per lasciarsi vedere. Egli lo promise subito.

Intanto la contessa Tarquinia andava e veniva, gittando delle occhiate impazienti a Cortis e a’ suoi amici politici.

«Finalmente!» diss’ella quando quei due se ne furono andati. Diede il Châteaubriand a Cortis che non ricordava più di avere prestato libri ad Elena e lo aperse curiosamente. Vi trovò un biglietto di visita di sua cugina che vi aveva scritto: con molti ringraziamenti e saluti.

«A proposito!» disse la contessa. «Vado a prenderti un altro biglietto ch’era nel suo tavolino.

Cortis intese ora il racconto della cameriera. [p. 143 modifica]

Quello era il libro che Elena aveva prima riposto con tanta emozione, per portarselo via; con una emozione così gelosamente nascosta nell’ultimo biglietto, dopo quell’impeto di pentimento. Forse dal primo biglietto ne traspariva ancora troppa ed ella non aveva voluto tradirsi.

La contessa tornò con questo biglietto. Non era possibile indovinarvi neppure una lettera. Cortis ci si provò invano e lo rese alla contessa con apparente indifferenza senza dir parola.

«Stamattina le ho scritto, intanto» diss’ella. «Ma penso cosa sarà successo o cosa succederà quando suo marito sappia di essere stato ingannato. Una bestia di quella sorte!

La contessa parlava, gemeva, sospirava, riparlava, mescolando nei suoi lamenti il passato, il presente e l’avvenire. Cortis non le rispondeva mai.

«Se fossi un uomo» diss’ella finalmente «credo che le sarei già corsa dietro. Ti pare ch’io possa pregar qualcheduno, Daniele, di farmi questo piacere?

Cortis non aveva inteso questa domanda, se la fece ripetere. La contessa si lagnò della sua freddezza, gli rimproverò di non pensare che all’elezione.

Ma Daniele non capiva ancora perchè si dovrebbe correr dietro ai Di Santa Giulia. E poi per tre giorni ancora, quanti ne mancavano alla gran domenica, non avrebbe potuto muoversi.

Pranzarono insieme nel fresco salotto di tramontana che guarda gli abeti del giardino e le scogliere nude di monte Barco.

«Anche star qui in questa malinconia, sai!» disse la contessa. «Chi sa quando potrò tirar quell’altro in città! [p. 144 modifica]

Poi nè l’uno nè l’altra parlarono più sino alla fine del pranzo. Quando il domestico uscì per andar a prendere il caffè, la contessa giunse le mani.

«Almeno scrivile» diss’ella.

Egli assentì appena del capo.

«Le scrivo stasera» disse improvvisamente, come uscendo da un sogno.

La contessa lo ringraziò di cuore. Non le veniva neppure in mente che fra Daniele e sua figlia vi potesse essere una corrispondenza pericolosa. Aveva un tale concetto di tutt’e due, li vedeva tanto diversi dal mondo frivolo e corrotto in cui ell’aveva conosciuto l’amore! Quei due lì erano capaci, tutt’al più, di un sentimento aeriforme, affatto vano e innocuo, quasi ridicolo agli occhi di lei.

«Sgridala» disse. «Scrivile che nessuna scenata di suo marito ci avrebbe fatto altrettanto dispiacere. Scrivile che doveva invece parlar franco a suo zio e chiedergli questo sacrificio. Non gli ha mai voluto dire una parola, benedetta lei! Scrivile — gliel’ho ho già scritto io, questo, ma tu ripetiglielo — che il danaro in un modo o nell’altro lo avrà, e che lo dica subito a suo marito!

Il domestico rientrò con il caffè e con una lettera di B. per Cortis, portata allora da un espresso. Diceva:

«Una riga in furia dal banco del circolo elettorale. Dopo il tuo discorso, discussione vivacissima. I tuoi avversari ti accusano di clericalismo e assolutismo mascherato, o almeno di non appartenere a nessun partito perchè gli attuali non ti vanno e il tuo non esiste ancora. La votazione diede 46 voti a tuo favore e 58 contro. Grande confusione. Tutti [p. 145 modifica] voteranno secondo loro piacerà. I tuoi amici combatteranno a oltranza, se non altro per l’onore. Notizie della montagna assicurano che una tua visita vi avrebbe ottimi risultati.

B.»


«Elezioni?» chiese la contessa quando Cortis ebbe finito di leggere; e non attese la risposta.

«Domani» disse «devi essere tutto per me. O mio cognato si persuade di metter fuori questo danaro, o bisogna che lo trovi io. In ogni modo tu devi aiutarmi.

Cortis rispose ch’era impossibile. Doveva partire per la montagna l’indomani mattina all’alba e non si teneva neppur sicuro di ritornare la sera. La contessa ebbe un bel disperarsi. Egli fu freddo e inflessibile come il ghiaccio.

Potendo vincere, aveva il dovere di battersi. Ogni sentimento, fosse anche l’amore, scompariva sempre in lui senza lotta, davanti alla lucida e sicura visione di un dovere. Si alzò, promise che scriverebbe ad Elena la sera stessa e partì per Villascura.

Nel passare davanti alla casina vestita di rose dove era lo studio d’Elena, pensò a una sera di dodici anni addietro, ch’Elena era venuta dal prato al suo studio con un fiore rosso nei capelli, accesa in viso, dicendo: «Oh, Daniele, come ho corso!» e poi era corsa via ancora, gittando una risatina al vento. Ora il prato era deserto, lo studio chiuso, lei lontana. E lo amava, soffriva, era infelice. Cortis strappò una delle rose che fiorivano davanti alla porta dello studio.

«Ah, Elena» diss’egli, «ti domando a Dio!

Dopo di che non ci pensò più, si mise a [p. 146 modifica] discorrere con Pitantoi che portava dei gamberi alla contessa. Solo a sera tarda ritornò a quel pensiero.

Dopo avere scritto nel suo studio con Saturno ai piedi, una dozzina di biglietti, suonò per il domestico e dispose che fossero recati alla posta. Quindi, congedatolo, prese un foglio grande e si pose a scrivere velocemente:


Villascura, 30 giugno 1881.

Elena,

Credevo trovar te, la tua voce, il tuo viso, il tuo cuore; ho trovato i tuoi ringraziamenti e saluti. Cosa avevi scritto nel biglietto che la zia raccolse nel tuo tavolino? Cosa hai creduto, Elena, di poter lacerare e cancellare? Io, che sto scrivendo in questa grande stamberga vuota di Villascura, col cervello stanco e col cuore amaro, mi sento, malgrado i tuoi carissimi ringraziamenti e saluti, l’anima tua qui, presso a me.

Era meglio che mia madre fosse morta veramente. Non te ne dico altro. È ben difficile che io la riveda così presto. Provvederò a lei come devo, ma da lontano. Sai cosa me ne resta nel cuore? La memoria di mio padre, ancor più alta e serena.

Sono venuto via da Lugano a precipizio per la mia elezione che va a rotoli. Me ne rincresce per i miei poveri amici che ne soffriranno nel fegato, quelli che ne hanno. Venni difilato da Lugano a... Alla stazione mi fischiarono, ma poi feci un discorso politico al circolo elettorale e offersi più tardi, al caffè, un indefinito numero di schiaffi; credo proprio non essere in debito verso quegli eccellenti miei fratelli.

Il discorso, molto cattolico ma sempre dal punto di vista dello Stato, mi andò così e così. Sai che [p. 147 modifica] non sono ancora oratore (lo sarò!) e poi mi avevano appena detto ch’eri andata via. E poi l’atmosfera era carica di fluido idiota. Invece la offerta degli schiaffi, meno cattolica, andò benissimo, e non sarò neppure indotto in tentazione di aggiungervi una sciabolata. Del resto, io ho inteso dare una lezione o un esempio, come vuoi, per amor del prossimo: e credo aver bene operato con il senno e con la mano. Finalmente l’amico Schiro, inviatomi da tua madre, mi portò a villa Carrè bestemmiando il sole onnipotente; e io intanto ho pensato con violenza a una signora fredda come il ghiaccio. Ci siamo fermati un momento di qua dalle Rocchette, presso gli abeti che sai; di là ho fatto un viaggio sentimentale sino a un certo praticello dove quella signora colse una volta, se si ricorda, il colchino d’autunno di cui la richiesi e ch’ella si nascose in seno, opponendomi i suoi silenzi marmorei. A villa Carrè trovai mia zia molto afflitta e tuo zio adorabilmente idrofobo. Non ho potuto dargli che una stretta di mano e una pillola di chinino e non abbiamo parlato di te, benchè egli avesse male al capo e io al cuore per cagion tua. Invece me ne ha parlato molto tua madre.

Cos’hai fatto, Elena? Io non pretendo averlo perfettamente inteso dalla zia Tarquinia, che poi non lo ha inteso ella stessa, ma per quanto me ne ha detto, si tratta di un intrigo sottile e audace, ordito da te per la quiete di casa Carrè. Per la quiete d’un giorno e la continua tortura di poi. Tua madre trema per te, farebbe qualunque sacrificio per dissipare una collera che si rovescierà su te sola. Quanto a me, ti conosco meglio di tua madre e non ho paura. È un altro sentimento che freme nel mio cuore; è uno [p. 148 modifica] sdegno che non dirò. A ogni modo rassicura questa povera donna verso la quale sei forse, qualche volta, ingiusta.

Dio mio, Elena, perchè non ti ho trovata qui?

Perchè ti sei fatta scrupoli di lasciarmi una parola migliore?

Ho colto stasera una rosa presso alla porta del tuo studio. La sua delicata bellezza, recisa e posata qui sopra un barbaro volume di Hansard, muore con una gravità mesta che ricorda te in certi momenti. Pensai, guardando il tuo studio, al tempo passato e a quello che avrebbe potuto essere. Noi vivremmo fra le rose, Elena. È mai questa la sorte di anime come le nostre? Noi siamo temprati per la guerra e la tempesta, siamo armi in una mano ignota che non posa mai e non ci lascia posare, e come ci stringe!

Domani mattina vado a portare il mio vangelo sui monti. Predicherò a... e a... So che a te, altera creatura, questo non piace; ma non è uomo politico nè patriota chi non sa deporre a tempo e luogo queste deboli fierezze. Io sono altero quanto te, e se il mondo sapesse il cuore che ho quando sollecito i voti degli elettori assai mi loderebbe. Quand’anche poi gli elettori mi lasciassero, come oggi è probabile, a Villascura, non ne sarei accorato. Calcolo di avere ancora nei nervi trentacinque anni di vita politica; dovessi perderne due alla porta della Camera, non sarebbe una rovina. Però non dissimulerò a te, come la dissimulo agli occhi del mondo, una certa agitazione, uno spirito d’inquietudine, che fino a domenica mi lascerà probabilmente dormir poco.

Sai che la sera prima della mia partenza mi hai [p. 149 modifica] detto «scrivimi.» Questa è la seconda volta che lo faccio, e se la santa inquisizione vedesse le mie lettere, non vi troverebbe che riprendere; non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver dette a questa rosa moribonda, la quale non le ripeterà. Dunque rispondi! Se non lo fai presto e a lungo, verrò a chiederti delle spiegazioni dovunque tu sia.

Adesso vado a cercare un po’ di fresco nel laghetto dei giardini. Sono le undici e mezzo, non c’è luna; sarà difficile distinguervi un pesce da un candidato; ma sta tranquilla, gli uomini politici non affondano mai.

Addio, Elena. Se Domenica la mi va male, mi seppellisco nei giardini per un mese con Shakespeare e te.

Daniele.


Uscì con Saturno e si cacciò nelle ombre folte del viale dei carpini che mette al lago: un ovale specchio d’acqua cinto di piante nere e adombrato dalla imminente montagna del Passo Grande. Pochi minuti dopo, Saturno, proteso sull’orlo della riva, dimenava lentamente, con un rantolo sordo, la coda, e scrosci sonori scoppiavano in mezzo alle buie acque immobili, da lontano.