Del coraggio nelle malattie/Prefazione

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Prefazione

../Avviso dell'autore ../I. IncludiIntestazione 30 dicembre 2014 100% Medicina

Avviso dell'autore I.
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PREFAZIONE.



Non v’ha chi visiti infermi, e non raccomandi il coraggio. Il coraggio è il primo e l’ultimo complimento che si faccia loro. Questo ricordo, o fausto augurio, nasce da un sentimento di zelo naturale verso i pazienti. Il vero coraggio è l’arte di saper soffrire1, nè ad un ammalato si può desiderar di meglio.

Fu sempre dagli uomini inteso il valore di sì fatto buon desiderio: il perchè sotto il velo d’una sola parola, [p. II modifica]passata quasi a proverbio, hanno ritenuto sempre il costume di esprimere cotal desiderio a chi è in travaglio. Ma ad onta di ciò nessuno, s’io non erro, ha preso in esame il vantaggio di questo sentimento, nè indicato gli ostacoli che gli si oppongono, nè insegnato i modi di procurarlo. A ma certo è paruto argomento degno d’un Medico e ci ho posto mano con quell’ardire che è proprio d’un’intima persuasione, ma con quel dubbio insieme di non ben riuscirvi, che vivo ognora e presente mi tenne la mia insufficienza.

Se la Tolleranza2 filosofica delle Malattie io la ho proposta agli [p. III modifica]uomini ragionevoli, tanto più propor dovea il coraggio, che è quello infine che la promove e che la mantiene. Nel trattare di quella mi si sono affacciate molte idee di questo, la quali spargo ora tra’l Pubblico, senza punto rinunziare ai principj che in quel Trattato aveva già stabiliti; anzi li concateno, perchè di conserva vadano a dimostrare come dèe luomo sostener i malanni cui va soggetto. Nello scrivere di così fatto argomento ho tuttora avuto sott'occhio la poca o nessuna soddisfazione, che dai più, come i più inclinati alla medicina materiale e multiplice, riscosso averei; ma il compiacimento del dire la verità, risultante dalle giornaliere mie osservazioni, mi vi ha tenuto troppo [p. IV modifica]legato per cedere al prurito di adulare. Il Medico esser non deve l’uomo a conversazione, poco gli cale che vi riesca co’ mezzi della menzogna, o pure della verità.

Inoltre il vedere che l’assunto mio è analogo a quanto usano per sè stessi i veri Medici, vieppiù m’ha confermato nella mia credenza. Vediam sempre il Medico sulla cattedra, ne’ circoli, allo scrittojo, al letto degl’infermi; io gusto talvolta vederlo alla cura di sè stesso, in cimento co’ proprj suoi mali, ragionatore per sè medesimo, per la sua propria causa. Vo’ che questo Medico sia non volgare, non credulo, non sistematico. In tal punto di vista ei mi sembra quell’Aruspice, che al dir [p. V modifica]di Tullio, incontrandosi con altri della sua professione loquacemente si acciglia e sogghigna, quando che col rimanente della turbe si sta pensoso, imponente, necessario.

Da simile condotta pare che siamo condannati ad essere bilingui, cioè ad avere la favella di Medico e la favella di Filosofo. Col popolo non si batte che la prima: e io tengo che adoperar si debba la seconda. Ma per chi mai al presente, se gli uomini non sono avvezzi che a quella sola, cioè alla prima, di maniera che a forza di udirla le si sono resi per vinti, e le hanno sagrificato la ragione ed il buon senso? Se il dolore e la speranza hanno dato l’origine ad un’Arte sì grande e sì utile qual è la Medicina; subitamente la [p. VI modifica]fallacia e la credulità l’hanno fatta divenire una chimera nella mente degl’infermi, mentre all’opposto nella mente di non molti addottrinati Medici, che sono andati succedendosi col correr de’ secoli, è ella andata sempre crescendo e rifiorendo, e serbando sempre la marca di legittima e miglior Scienza indipendente da ogni sofisma.

Ma per chi mai, dissi, s’ha egli ad adoperare la favella di Filosofo, cioè di professore dotto, sincero, di Medico onorato? per i suoi simili, che fraudar non debbonsi, e che finalmente giugneranno ad avvedersi dell’errore in vedendo la rinunzia che si fa loro della loro soverchia cieca fede ne’ nostri sistemi e nelle nostre armi, e in vedendo rappresentata a dessi loro la nostra Arte [p. VII modifica]spogliata ormai de’ veli non convenienti, e pericolosi, cioè a dire tale quale vien essa da noi medesimi immaginata e per noi stessi adoprata.

Esser non posso lodatore del Trattato della Tolleranza, e del coraggio ne’ Morbi; ma assicurerò il Pubblico che questi due principj sono l’áncora dei grandi Professori, qualor cadano ammalati, e che su d’essi stabiliscono eglino tutte le leggi della loro medicatura. Gli è questo un argomento bensì estrinseco pel mio discorso; ma tien esso tanto di forza che bastar dovrebbe per convincere. Che se pure s’ode talvolta rinfacciare dal volgo, che i Medici non sogliono nelle loro bocche mandar medicine, nè farsi sanguificare, nè praticar tanti usi quanti se ne [p. VIII modifica]prescrivono; non vedo e perchè non gliela meniamo buona, e perchè l’esempio del nostro contegno non trionfi sulla credulità e scempiaggine del volgo stesso; quando dir non si voglia ch’egli ama d’essere ingannato, e che ingannato diffatti se lo tiene, non certamente a gloria della nobile nostra Professione.

Io pertanto uso del coraggio coll’accennarne le sue proprietà, e coll’esortar gli altri ad averne nelle lor malattie. I metodi curativi di Spezieria sono ormai fatti abbastanza numerosi per averne da aggiugner de’ nuovi. Siamo giunti a un tempo che si volgono studj più accurati anco ai rimedj tratti dalla morale, e di questi si comincia ad averne quel credito, che per l’addietro non se n’ebbe forse cotanto. Dobbiamo [p. IX modifica]questo vantaggio all’esperienza, che è la miglior legislatrice de’ Medici. E a questa debbo io pure que’ pochi lumi, che or m’ingegno di spargere su d’una delle potenze dell’animo, che è per avventura la più efficace nella cura de’ mali del corpo umano.

Vorrei di questa potenza dell’animo, insieme che dell’altre, poterne dimostrare l’essenza e la maniera, con che ella adopera sopra il corpo vivente, nel tempo che ne racconto i di lei effetti; ma sono misteri che non ammettono che delle ipotesi, e assai a quest’ora se ne sono introdotte. Infino a tanto che non si disveli in qual modo una sostanza semplice, qual è lo spirito, possa agire su d’una composta, e viceversa; sarà sempre questa una quistione [p. X modifica]insolubile. Non abbiamo che dei risultati, quai sono quegli tratti dalle dottrine dei celeberrimi Locke, Bonnet, Genovesi, Condillac, Soave ed altri; i quali risultati or io qui li soggiungo come i più certi, ed i più comgrui per diciferare alla meglio e porre in qualche chiarezza le facoltà e le influenze dello spirito, e segnatamente quella del coraggio.

Lo spirito3 ha la facoltà di agire dentro e fuori di sè medesimo.

Nella sensibilità, o sia nella facoltà di sentire egli è piuttosto passivo che attivo, non essendo in suo potere il darsi una sensazione senza che un corpo non agisca sopra di lui, nè potendo egli schifarla quando questo gliela dà.

[p. XI modifica]Nella riflessione, o sia nella facoltà di riflettere, lo spirito comincia ad essere attivo, perchè da lui dipende il fissar l’attenzione a ciò ch’ei voglia.

Nella memoria, o sia nella facoltà di ricordarsi, egli è attivo e passivo, poichè e può richiamare un’idea a sè, e può questa presentarlesi di per se stessa.

Nella volontà, o sia nella facoltà di volere, è sempre attivo, perocchè da sè medesimo si determina a che che sia.

Lo spirito quando usa della facoltà della volontà, può estenderla anco fuori di lui medesimo, cioè sul corpo; e in questo caso la facoltà tale è totalmente distinta dalle precedenti, ond’è che è anche chiamata forza motrice, [p. XII modifica]perchè il suo effetto è quello appunto di eccitare nel corpo diversi moti.

Ora nel coraggio lo spirito è sempre attivo, perchè usa della sua facoltà di averlo, cioè di avere una maggior forza di agire e dentro e fuori di lui, la quale maggior forza equivale in questo caso alla voce coraggio.

Dunque qualora dicesi che lo spirito si determina ad avvalorarsi di coraggio, è l’istesso che dire che ei si determina a prendere maggior forza nel suo operare, o sia nell’eccitare nel corpo i suoi moti.

Si sa che questi moti son detti liberi e volontarj, a differenza degli altri moti che stanno insiti già nel corpo, chiamati necessarj e vitali. I primi si circoscrivono comunemente a que’ che [p. XIII modifica]dipendono, direi, da un visibile comando dello spirito, come del muover una gamba, un braccio ec., gli altri a quelli che si mantengono nel corpo dall’istesso suo meccanismo, come il moto del cuore, il moto degl’intestini ec.

Sicchè dal sin qui detto parrebbe che lo spirito riempiuto di coraggio ad altro non servirebbe che a spingere con maggior forza i primi moti, cioè que’ che procedon da lui, e non gli altri, cioè i meccanici e naturali, e per conseguenza a non influire nè poco nè punto in sulle malattie, le quali appunto infestano per lo più quelle viscere, ove per esso non vi ha luogo ad operare.

Ma qual v’è tra noi che possa segnare esattamente questa linea di divisione fra i suddetti moti, volontarj, [p. XIV modifica]e vitali, così che negli uni si ammetta, e negli altri si escluda interamente ogni relazione dell’attività dello spirito? Chi anzi non vede che in quelle stesse viscere, su cui vuolsi che lo spirito non abbia potere, ei ci mantiene la vitalità, che tutta appunto dallo spirito dipende; e per conseguenza ragion vuole che anco tra quelle e lui esista un rapporto? Chi non sa che nelle medesime serpeggiano i nervi provenienti quali dal celabro, quali dalla midolla spinale, inservienti al moto e al senso loro, e però dello spirito quasi ministri? A chi non sono note le straordinarie mozioni che succedono talvolta alle viscere vitali per cagioni di una scossa intempestiva dello spirito; per esempio una palpitazione di cuore, un affanno [p. XV modifica]del respirare, una smossa di corpo e simili, alla sopravvegnenza d’un terrore, d’una gioja, d’un’afflizione o d’altro?

Dai quali brevi cenni può abbastanza dedursi, che non limitata soltanto ad alcune parti della macchina corporea sia la possanza od influenza dello spirito, ma che universale ella sia sopra tutta lei. Solo che in quali parti questa possanza od influenza è più palese, in quali meno, in altre è più decisa ed efficace, in altre più circostanziata o più mite o più oscura; ma non resta che sopra cadauna di esse possa cadere qualche tratto dell’attività dello spirito. Ed è perciò che non v’ha regione nel corpo umano, che dai registri medici non ci venga indicato aver avuto ella qualche particolar [p. XVI modifica]fenomeno in seguito a qualche particolar movimento di questo ente immateriale. Non se ne intende di cotali successi la ragione, come non se la intende degli altri più comuni e che tuttora gli abbiamo avanti agli occhi; ma il fatto è incontrastabile.

Dunque lo spirito esercitando il coraggio può suscitare nelle malattie di que’ moti, o di quelle mutazioni nel corpo che altrimenti non nascono; e può con ciò apportar di que’ giovamenti, che, sia ch’egli agisca di per sè solo, sia che la medicina meccanica concorra co’ suoi instrumenti al medesimo oggetto, sperar da tutt’altro non si potrebbono. Lo che passo ora ad esporre.



  1. Le vrai courage est de savoir souffrir. M. de Voltaire. Mariann. act. V.
  2. La Tolleranza filosofica delle Malattie. Osserv. Med. Prat. di Giuseppe Pasta. In Bergamo anno 1787 e 1788.
  3. Ved. Soave C. R. S., Instit. ec. part. III.