Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (Rosmini)/Delle cinque piaghe della Santa Chiesa/Capitolo V

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Capitolo V

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Delle cinque piaghe della Santa Chiesa - Capitolo IV Appendice
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CAPITOLO V.

Della piaga del piede sinistro: la servitù de’ beni ecclesiastici.

127. Dalle cose ragionate fin qui apparisce, che la caduta di Roma pagana, predetta dalle Scritture sotto il nome di Babilonia fu, nell’ordine dell’altissima Providenza, non solo un atto di giustizia vendicatrice del sangue dei Martiri ed estirpatrice delle ultime radici dell’idolatria; ma una disposizione altresì di quella divina politica con cui l’umanità vien governata dal Re de’ regi, onde, disciolta l’antica e decrepita Società, se ne annodasse una novella figlia della Chiesa dell’Uomo-Dio, segnata in fronte di un carattere sacro, indelebile, che la rendesse come la sua genitrice, immortale, e insieme con lei si svolgesse in un progresso interminabile di sconosciuta e nuova civiltà. Ma la gloria, che da tant’opera dovea venire all’elemento divino della Chiesa di Cristo, conveniva che fosse temperata e quasi contrabilanciata dall’umiliazione che all’elemento umano della medesima Chiesa sarebbe conseguitato, acciocchè tutto il bene si attribuisse a Dio e al suo Cristo e non all’uomo. Laonde Iddio permise, che i barbarici conquistatori incaricati dall’alto consiglio della distruzion del romano impero, e mossi, senza saperlo, a renderci discepoli dalla Chiesa, introducessero il Feudalismo che finì collo spegnere la libertà della stessa Chiesa, onde provennero tutti i suoi mali. Perocchè, a dir vero, l’affluenza delle ricchezze non sarebbe bastata a precipitare il Clero in quel fondo che noi vedemmo; nè tampoco avrebbero recato un effetto sì miserando i temporali dominii, se fossero stati indipendenti. Che anzi della sovranità si servì Iddio a mantenere inviolata la libertà della Sede Apostolica, acciocchè almeno il Capo campasse salvo dalla universale servitù, e il capo libero poi rendesse a suo tempo libere anche le membra, il che è la grand’opera che resta ancora a compire a Roma.

128. Sì, il feudalismo fu l’unica, o certo la principalissima fonte di tutti i mali; perocchè essendo egli un sistema misto di signoria profana e barbara, e insieme di servitù e vassallaggio a’ principi temporali; in quanto è signoria, egli divise il Clero dal popolo (Piaga i), e spezzò in due parti, che chiamaronsi ingiuriosamente alto e basso Clero, sostituendo alla relazione di padre e figlio, che l’annodava, quella di signore e suddito che lo disnoda: onde la negletta educazione del Chiericato (Piaga ii), e quindi ancora entrata la divisione nell’alto Clero, cioè ne’ Vescovi fra di loro, dimentichi della fraternità, memori della gelosia signorile sì per proprio conto che pel conto del principe, al cui vassallaggio appartenevano, rimanendo così ciascun Vescovo e separato dal popolo, e sequestrato dall’intero episcopato (Piaga iii): in quant’è poi servitù, il feudalismo, assoggettati i Vescovi personalmente al Signore temporale come fedeli e uomini suoi, incatenò ignominiosamente la Chiesa tutte le cose sue al carro del laicale potere che la trascinò per tutte quelle balze e precipizî, nelle quali esso, in suo corso irregolare e fallace, va sovente rompendosi ed inabissandosi, e dopo mille avvilimenti e mille sciagure, spoglia a man salva de’ ricevuti dominî, ella trovasi così sfinita di forze da non saper pure conservare e difendere a sè stessa la nominazione dei proprî pastori (Piaga iv). E dico che il feudalismo asservò la Chiesa con tutte le cose sue, perchè i barbari regnatori, avvezzi a non riconoscere che vassalli, con questo loro istinto tutte le cose ecclesiastiche riguardarono; al che mirando i legisti adulatori, seppero ridurre a teoria di diritto il dispotismo barbarico invalso di fatto, insegnando che «il principale tira a sè l’accessorio,» e come principale dichiarando i feudi regi così inducendone, che dunque anche gli allodî, che le Chiese possedevano, come beni feudali si [p. 119 modifica]dovessero riguardare. Per tal guisa il feudalismo assorbì ogni cosa: non lasciò più libere, nè le persone, nè le cose delle Chiese.

129. Lasciando dunque da parte il caso della sovranità, che non s’avverò se non nella sedia romana, nè s’avrebbe potuto avverare in altre, almeno per lungo tempo, la quale essendo dominio libero non arreca ignominiosa servitù, dico ciò che corrompe ed avvilisce il clero non sono le ricchezze libere, ma le serve: fu la servitù degli ecclesiastici beni la deploranda cagione, onde la Chiesa non potè conservare le antiche sue massime intorno ai beni ecclesiastici, nè regolarne liberamente e col suo proprio spirito l’acquisto, l’amministrazione e la dispensazione come si conveniva. E questa mancanza di convenevoli provvedimenti all’amministrazione e all’uso de’ beni della Chiesa in conformità delle antiche massime dell’ecclesiastico spirito è appunto la quinta piaga, che tuttavia affligge e martoria il suo mistico corpo.

130. Il feudalismo in gran parte è caduto, e va via più dileguandosi in presenza dell’incivilimento delle nazioni, come le ombre si fuggono a’ raggi della luce: la Chiesa non ha più feudi. Ma al feudalismo sopravvivono i suoi principî legali, le sue abitudini, il suo spirito: la politica de’ governi s’ispira ad esso, i codici moderni hanno ereditato dal medio evo una sì infausta eredità. Noi segnaliamo la cagione, perchè se ne considerino gli effetti.

131. La Chiesa primitiva era povera, ma libera: la persecuzione non le toglieva la libertà del suo reggimento: nè pure lo spoglio violento de’ suoi beni, pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela, o avvocazia: sotto queste infide e traditrici denominazioni s’introdusse la servitù de’ beni ecclesiastici: da quell’ora fu impossibile alla Chiesa, come dicevamo, di mantenere le antiche sue massime intorno all’acquisto, al governo, e all’uso de’ suoi beni materiali; e la dimenticanza di queste massime, che toglievano a tali beni tutto ciò che hanno di lusinghevole e di corruttore, l’addusse all’estremo pericolo: noi dobbiamo accennarne le principali.

132. La prima massima, che riguardava l’acquisto de’ beni, era che l’oblazione fosse spontanea. — «In qualunque casa entrerete, avea detto Cristo agli Apostoli, prima dite: pace a questa casa. — E nella stessa casa rimanetevi mangiando e bevendo le cose che si trovano presso di quelli poichè l’operaio è degno della sua mercede (Luc. x, 5, 7.).» Le quali ultime parole furono norma agli Apostoli, ripetuta più volte da S. Paolo (I Cor. iv, 4, 15, 1 Timoth. v, 17, 18.). Per esse Cristo imponeva ai fedeli l’obbligazione di mantenere gli operai evangelici, e dava a questi il diritto di esser mantenuti da loro. Era un vero precetto; ma l’esser precetto, non toglie la spontaneità dell’azione; che spontanea dovea esser pure la stessa adesione al Vangelo, e l’incorporazione al corpo dei fedeli. La spontaneità dell’umano operare non cessa se non allorquando s’aggiunge all’obbligazione altresì una coazione violenta. Ora Cristo non aggiunse altra sanzione che questa: «E chiunque non vi riceverà, nè ascolterà i vostri discorsi, uscendo fuora della casa o della città scuotete la polvere da’ vostri piedi (Matth. x, 14.).» È rimesso alla divina giustizia il punire gli infrattori di quel precetto, secondo lo spirito di mansuetudine del divino legislatore, il quale pure promette, a suo tempo, che saprà farlo (Ivi, 15.). L’evento di Anania e di Saffira prova il medesimo: «Se tu l’avessi tenuto (il tuo campo), disse al primo S. Pietro, non ti rimaneva egli? e venduto non ne rimaneva in tue mani il prezzo (Act. v, 1, 11.)?» Parimente le collette ordinate da S. Pietro alle Chiese de’ Galati, e de’ Corintî, per sopperire al bisogno de’ Cristiani indigenti di Gerusalemme, sono rimesse allo spirito di carità e alla discrezione di ciascheduno: «ogni domenica ciascuno di voi metta da parte ciò che gli verrà bene (I Cor. xvi, 2.).»

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133. Di più, il precetto dato da Cristo a’ fedeli di mantenere il Clero, non si estende oltre lo stretto bisogno, il che venia significato coll’espressione «di mangiare e di bere in qualsiasi casa in cui entrassero gli evangelici banditori» edentes et bibentes quae apud illos sunt; onde Paolo attenendosi alla maniera di esprimersi usata da Cristo, scrive a’ Corinti: «forse non abbiamo noi la potestà di mangiare e di bere (cor. ix, 4)?» Che se era lasciata a’ fedeli tutta la spontaneità nel modo di somministrare il necessario sostentamento al primitivo clero, di cui pure aveasi il precetto; quanto più rimanevano spontanee per loro natura quelle offerte che oltrepassassero questo limite del bisogno?

134. Sulla fine del secondo, e al principio del terzo secolo Tertulliano ci fa conoscere, che questa bella spontaneità conservavasi. «Ciascuno, dic’egli nell’Apologetico, ogni mese, oppure quando vuole, e se può, mette a parte un po’ di moneta, perocchè nessuno è forzato, ma la dà spontaneo. Questi sono come depositi della pietà1

La qual massima ricomparisce più o meno spiegata in tutti i bei secoli della chiesa, che voleva e raccomandava, che non solo i fedeli non fossero violentati alle oblazioni, ma nè pure indotti a prestarle con artifizî e lusinghe, e fino nel ix secolo vedesi il concilio iii di Châlon pubblicare de’ canoni per mantenere illesa, anche contro questo abuso la spontaneità dei doni che i fedeli alla chiesa offerivano (V. il Tommasino p. iii, L. 1, c. xxiii.).

135. La legge delle decime, che Iddio aveva assegnate nell’antico patto ai Leviti, non fu confermata da Cristo pel nuovo; e la ragione io credo esser questa, che non volendo l’Autor della grazia aggiungere alcun peso positivo oltre a quello che la natura delle cose esigeva, e la natura delle cose addimandando solamente che il clero fosse mantenuto da’ fedeli in cui pro travagliava, il che non segna alcuna misura determinata alla sovvenzione, potendo essere più o meno il bisognevole, secondo il numero degli operai, l’assegnare una determinata misura sarebbe stato un prescrivere talora più del bisogno, talora meno. Ma non avendo nè pure il Signore proibita tale oblazione, ma lasciata del tutto libera alla discrezione de’ fedeli, questi fino da’ primi secoli le offeriron spontanei, tenendo presente, specialmente quelli che veniano dalla sinagoga, l’antica disposizione2. E ancora nel secolo iv, egli sembra per insinuazione de’ vescovi più tenaci delle massime antiche, Giustiniano vietava che non che usarsi la forza a riscuoterle, nè pur vi s’adoperassero le pene ecclesiastiche (L. 39 cod. De episcop. et cleric.).

Poteva bensì la chiesa quel che era invalso per consuetudine ridurlo in precetto, siccome fece, prima in qualche luogo nel secolo vi3, poscia universalmente, qualora ella trovasse esser questo il mezzo più conveniente o necessario per assicurare al clero il suo sostentamento; ma la spontaneità dell’offerta cessava solo allorchè vi si aggiungesse la sanzione del civile potere, la quale comparisce nel secolo viii insieme col feudalismo (In Capital. An. 779, 794, 801.).

136. E qui è da considerare, che il Vangelo introdusse nel mondo una nuova specie di diritti, che noi potremmo appellare diritti ecclesiastici. Prima non si conoscevano che diritti di stretta giustizia, ed azioni di beneficenza: i primi [p. 121 modifica]ammettevano la forza esterna e violenta, le seconde rimanevano al tutto libere. Fra queste due forme di morali operazioni, il divino Legislatore che riformò la terra, ne introdusse la terza, di cui è esempio appunto il diritto dato da lui a’ sacri ministri di vivere dell’altare, al quale oppose per tutta difesa la minaccia del celeste castigo; e tale natura hanno del pari le ecclesiastiche ordinazioni sancite da sole pene canoniche e spirituali: perocchè la massima pena che la Chiesa si abbia in proprio si è quella della separazione del disubbidiente e contumace dal corpo de’ fedeli; e la privazione quindi de’ beni della loro comunione. La qual guisa di pene, con cui la Chiesa mantiene i suoi ordini e i suoi diritti, rimaneasi del tutto incognita e straniera al temporale reggimento, come Cristo avea già insegnato in quelle parole; «I re delle genti il signoreggiano, e quelli che hanno su loro il potere si dicon elementi: ma voi non farete così (Matt. xx, 25, 26. — Luc. xxii, 25, 26).» Che dunque accadde allorchè i beni ecclesiastici non furono più liberi in man della Chiesa, ma divennero servi aggiogati dal poter temporale? Quello che ne dovea avvenire: il temporale potere vi aggiunse la forza, chè altra cosa egli non aveva nè conosceva, e talora egli credette in buona fede di fare al Clero con ciò un singolarissimo beneficio, et qui potestatem habent super eos, benefici vocantur.

137. Certamente era giusto nè contrario allo spirito del Vangelo e della Chiesa, che le proprietà già acquistate da questa in virtù di spontanee donazioni, fossero dalla forza pubblica, siccome tutte l’altre, tutelate; perocchè elle acquistano, dopo la donazione, natura di diritti di stretta giustizia. Ma l’impiego della forza ripugna all’antica massima, trattandosi di costringere i fedeli a donazioni e ad offerte, come è il caso delle decime, delle primizie, e di somiglianti oblazioni; nè la primitiva spontanea natura di questa poteva perdersi per la consuetudine invalsa, nulla più essendo che uno de’ tanti sofismi giuridici quello che pretende cangiare un donatore spontaneo in uno stretto debitore, unicamente perchè già da lungo tempo egli ha continuato a donare.

138. In quel primo grado di servitù, a cui furon sommesse le oblazioni spontanee, diminuiva la carità fra i fedeli offeritori ed il Clero, che non rimaneano più avvinti colle dolci relazioni di beneficante e beneficato, o meglio con quelle di scambievoli beneficanti, dando gli uni le cose temporali e l’altro le spirituali, secondo il concetto apostolico. Si nos vobis spiritualia seminavimus, magnum est si nos carnalia vestra metamus? (1 Cor., ix, 11.); alle quali primitive e naturali relazioni veniano surrogate quelle fredde ed odiose di debitore e di creditore, le quali d’una parte toglievano il merito e la dolcezza del dare, dall’altra la gratitudine del ricevere; e il clero sicuro del viver suo, non poteva più esperimentare l’aumento e la diminuzione delle offerte in ragione di sue fatiche.

139. Ma un altro grado di servitù più funesta fu quella del confondersi le proprietà libere e liberamente donate alla chiesa colle feudali, che assorbirono tutte le altre, e fece nascere l’opinione che tutte le cose della chiesa appartenessero al Signore infeudante, a cui le stesse persone di chiesa servivano. La pruova di questa servitù de’ beni ecclesiastici è significata fino nel linguaggio di quel tempo, perocchè le chiese si chiamarono mani morte, che significava una classe di servi4, nè mai perì più l’ingiurioso vocabolo. Laonde il mal seme, dopo aver fruttati copertamente i più velenosi frutti del clero, produsse all’ultimo le spogliazioni moderne della chiesa, e il più solenne decreto 24 novembre del 1789, col quale l’Assemblea nazionale di Francia dichiarò beni [p. 122 modifica]della nazione tutte le ecclesiastiche proprietà; raccogliendo così la rivoluzione fatta a nome della civiltà l’eredità e le spoglie del Feudalismo.

140. La seconda massima, che proteggeva la chiesa dalla corruzione che da sè arrecar possono i beni terreni, si era che «questi si possedessero, si amministrassero e dispensassero in comune.» — Così i primi fedeli deponevano il prezzo delle case e de’ Campi venduti ai piedi degli Apostoli, ed era dispensato a’ fedeli, secondo il bisogno di ciascheduno, pro ut cuique opus erat (Act. iv, 35). Qual carità non fomentava in quel primo tempo, qual’unione non adduceva tra fedeli, e tra fedeli e clero questa comunanza di beni! «La moltitudine de’ credenti avea un cuor solo ed un’anima sola; nè alcuno di essi diceva sue quelle cose che possedeva, ma tutte erano comuni (Ivi, 32.).» Il dolce spettacolo che offeriva questa fraternità, non mai conosciuta, in Alessandria, indusse Filone, benchè ebreo, a scriverne un libro elogistico. In lei mirarono sempre i Santi come nel più bel tipo dell’Evangelica dilezione, e si sa dalla storia quanto il Grisostomo ebbe desiderato di poterla introdurre fra il suo popolo di Costantinopoli: ell’era la perfezione di quanto narra Livio de’ bei tempi di Roma; dove dice, che il censo privato era breve, largo il comune.

141. La qual massima si conservò lungamente nel clero. Di tutto l’avere della chiesa erano depositarii i Vescovi successori degli Apostoli, i quali distribuivano, per lo più mensilmente, quanto era necessario a’ Chierici che sotto di essi lavoravano nell’Evangelio; niun individuo aveva cos’alcuna in proprio. Quando Costantino nel 321 permise le disposizioni testamentarie a favor della chiesa, così s’espresse: «Abbia ciascuno licenza di lasciar morendo i beni che egli stima al santissimo cattolico e venerabil concilio della cattolica chiesa (Cod. de sacros. Ecclesiis L. 1.).»

Più tardi fu anche espressamente proibito dalla chiesa il concedere a un individuo del clero qualche porzione di beni separandola dalla massa comune, come dimostra un rescritto del v secolo attribuito al santo Papa Gelasio; e ciò anco pel fine che i beni ecclesiastici fossero meglio amministrati e conservati5. Dal quale spirito medesimo della chiesa fu dettata la legge di Valentiniano vietante il lasciare legati o eredità agl’individui del clero secolare o regolare6, legge di cui non fecer lamento i santi uomini di quelle età, come un Ambrogio, e un Girolamo, ma ben si dolsero degli ecclesiastici che, a loro smacco, l’avessero meritata. « Nè io mi lagno dice Girolamo, della legge; sì mi addoloro dell’averla noi meritata. Il cauterio è eccellente, ma a che m’avrò io la ferita di necessitarmi il cauterio? Sia erede, ma la madre de’ figliuoli, cioè la chiesa, sia erede del suo gregge quella che lo generò, lo nutrì, lo pascette. Perchè ci tramettiamo noi tra la madre ed i figli?7.» Così non volea il Santo che gl’individui del clero o del monacato si tramettessero fra la chiesa depositaria delle pie offerte, ed i suoi figliuoli a cui ella, secondo il bisogno, le compartiva. La quale unità dei beni comuni, della sapienza e carità vescovile col consiglio del clero8 [p. 123 modifica]amministrati, si non è a dire quanto valesse a produrre ed a conservare l’unita saluberrima del clero fra sè, e quella altresì col clero col popolo.

142. Ma quando, diffondendosi via più il Vangelo pe’ paghi, fu uopo istituire chiese nella campagna lontane dalle Cattedrali, convenne allora assegnare un fondo distinto alle medesime9; il che si fece prima per via d’eccezione; e a’ monasteri pure, a’ cherici benemeriti, e a’ peregrini si assegnò qualche fondo da usufruire a tempo, come rilevasi da una disposizione di Papa Simmaco del secolo vi (Gratianus, Causs. xvi. L. 1. C. lxi.); onde si chiamaron precarj10. Ma la detenzione, l’amministrazione, e l’uso dei beni ecclesiastici, andò semprepiù perdendo la primitiva unità fino a sparpagliarsi ne’ singoli benefizî di mano in mano che si sciolse la vita comune del chericato, tanto desiderata dalla chiesa, che con leggi frequenti e disposizioni canoniche la restaurò alcuna volta, ma non la potè in fine conservare. Ed or quale infausta cagione glielo impedì, se non di nuovo il barbarissimo sistema del feudalismo?

143. Il feudalismo involge una servitù personale, ed è già per questo solo ripugnante al carattere ecclesiastico, che è quello della libertà. Ma oltracciò anche i beni del feudatario non pur diventano servi, ma di più acquistano una servitù speciale, conseguenza della servitù personale di colui che li gode; nuova ragione della sua intrinseca opposizione allo spirito della chiesa, e dell’ecclesiastica condizione. E in vero, nella divina costituzione che Cristo lasciò alla chiesa, la personalità dei ministri suoi scomparisce: essi non rappresentano sè stessi, ma la chiesa; è sempre tutto il corpo della chiesa che opera per mezzo di essi e per la virtù del suo Capo in tutte le loro funzioni: gli organi non hanno alcuna personalità propria più che la abbia un piede, un braccio, o altro membro nel corpo umano. Di questa ammirabile costituzione adunque il fondamento è la perfetta mistica unità. Or come se le membra del corpo umano volessero ciascheduna essere e divenire una persona a parte, il corpo, perduta ogni sua bellezza e il suo ordine naturale, si cangerebbe in un mostro, o piuttosto non potrebbe più esistere; così è a dir della chiesa. Ma questo è appunto quello che tentò di fare di essa il sistema feudale. Perocchè ogni vassallo non può rappresentare che sè medesimo, e la persona a cui serve, e con essa le cose sue. Senza di che questo vassallaggio e servigio prestato al Signor temporale, ha un oggetto, un ufficio essenzialmente temporale e secolaresco. Fino a tanto che trattavasi di ricchezze libere, queste potevano avere una destinazione spirituale; e l’ebber sempre tutti i beni liberi della chiesa: s’amministravano, si dispensavano in ispirito e in usi, di carità: per esse i sacri ministri si mantenevano, il culto divino si alimentava: le mani dei poveri, delle vedove, de’ lebbrosi, degli schiavi, de’ peregrini, de’ miseri tutti erano gli scrigni preziosi, dove la chiesa riponeva, sicuri dell’umana rapacità, i suoi tesori: col far tutto questo la madre dei fedeli non usciva dall’ecclesiastico ministero, che è pur ministero di carità materna, e di cristiana misericordia11. Ma il vassallo; il servo che dee pensare al [p. 124 modifica]servigio del suo signore, e a questo servigio dee amministrare quel che possiede, ha già un altro scopo, essenzialmente diverso, non più ecclesiastico: egli non è più bonus miles Christi Jesu, s’è implicato ne’ temporali negozi contro il precetto dell’Apostolo12: non si vede più in lui la sola chiesa, ma l’uomo isolato, un uomo come tutti gli altri, un cortigiano che agl’interessi e all’onore del suo signore servendo, dee tener corte, usare sfarzo e lusso nel suo proprio trattamento, mettersi fors’anco alla testa di gente armata: fare in somma il conte il barone per sè e pel signore, non più il vescovo ed il prelato per la sua chiesa; pel suo popolo da lui indiviso.

144. E questa grande trasformazione, contro natura, delle persone di chiesa stampò nella mente de’ Vescovi del medio evo, il concetto della loro individualità, illanguidendo quello della unità del corpo dell’Episcopato e del clero, disciolse i vincoli che rendevano così possente in Cristo per operar tutti i beni e così splendido il maraviglioso corpo della chiesa ne’ suoi bei tempi: divise le Diocesi come gli Stati e le signorie: e infine divise e minuzzò anche i beni ecclesiastici, che colla loro unione, o disgregazione rappresentano siccome effetti, e in parte formano siccome causa l’unità morale o la disgregazione delle persone, e li minuzzò fino a renderli amministrati e usufruiti quasi per intiero da’ singoli cherici: onde l’origine filosofica de’ benefizî indicata dalla parola stessa; chè benefizio è parola del vocabolario feudale, chiamandosi benefizio da prima le terre di cui il principe conceda l’usufrutto a’ suoi cortigiani e commensali in guiderdon di servigi.

145. È da osservarsi che quando un’idea, una forma s’imprime altamente nella intelligenza e nella imaginazione degli uomini, e vi prevale, allora ella diventa norma, e modello, a cui si conformano tutte l’altre cogitazioni e tutte le maniere di operare che possono in sè ricevere quella forma, e quelle che non possono, altresì vi si subordinano, e vi aggruppano intorno siccome ancelle da quella padroneggiate. Ora ne’ primi tempi della chiesa l’idea grande scolpita in tutte le menti cristiane era quella dell’unità: e però tutto ne’ pensieri e nelle parole de’ fedeli e del clero, nelle disposizioni ecclesiastiche, nelle scambievoli operazioni, nell’amministrazioni e nei beni che si possedevano luceva e dominava l’unità di Cristo. Il feudalismo fondavasi sopra un’idea tutt’opposta, cioè sull’idea della divisione, che procede da quella della individualità, e sull’idea dell’individualità che procede da quella della signoria: e un tal sistema prevalse negli ordini temporali, scolpì bel bello anche nelle menti degl’ecclesiastici quell’idea appunto che gli serviva di fondamento, indi i guai della chiesa.

146. A’ barbari, che conquistaron l’Europa, era norma l’idea della forza, della violenza, del personale valore, del dominio: la chiesa insinuò poco a poco nelle rozze loro menti l’idea contraria, che le era propria. Quindi la lotta fra le due idee: e come quando sono a fronte l’una dell’altra due società dominate da due idee contrarie, queste, parte si combattono apertamente ciascuna usando delle armi proprie, parte tendano di conciliarsi e di fondersi; entrando l’una idea nel dominio dell’altra, benchè sempre conservino l’occulta opposizione che hanno per loro natura; così avvenne che i governi barbarici da una parte, opprimendo colla prepotenza la chiesa, tentassero di [p. 125 modifica]soggiogarla e di confermarla del tutto al tenore della loro idea signorile, violenta, individuale, materiale, parte ricevessero, quasi senz’accorgersi, nel proprio seno l’idea contraria ministeriale, morale, unitaria, spirituale della chiesa, onde il loro operare doppio e contradittorio, intessuto di atti di somma pietà e di benefizî alla chiesa, e di atti empi di dispotismo e alla chiesa nocevolissimi, secondo che all’una od all’altra delle due idee ubbidissero, o all’originale da loro arrecata, o all’acquisito dal magisterio della chiesa; e avvenne pure il simigliante nel clero, il quale parte colla parola evangelica ammaestrò e mansuefece quei violenti, introducendo nelle loro menti la propria idea unificatrice di carità, parte rimanendo vulnerato esso stesso nella gran lotta, accolse l’idea contraria, e quindi anche nell’oprare del clero la stessa contraddizione or di santissimi ed eroici esempî, e sforzi per conservare l’unità di Cristo, ed or di profani disordini, di vilissime condiscendenze, di tendenze individue, dissipatrici dell’unità e della cristiana ed ecclesiastica comunità. Perocchè la lotta delle due idee, e la contraddizione dell’operare sì negli ordini temporali che negli ecclesiastici è il carattere proprio del medio evo: il che solo spiega tutti gli eventi di quell’età, e nominatamente gli urti fra l’impero e la chiesa; chè non potendo questa perire, nè l’idea che la domina intieramente distruggersi, perchè passerà il cielo e la terra, ma non la parola di Cristo; ogni qual volta l’idea contraria alla chiesa della dominazione temporale e violenta e della disunione prevale ed entra nel clero fino a comprometterne l’esistenza; la chiesa sorge da quell’ora come un gigante che si risveglia e con nuova e non più usata vigoria atterra all’estremo pericolo il suo nimico, lo scaccia dalle sue tende invase, e restaura in sè medesima e ne’ suoi ministri quell’idea da cui la vita dipende13.

147. Or tutto questo ci spiega le vicende subìte dai beni ecclesiastici. I Signori del medio evo, operando secondo l’idea d’individualità e di signoria, non solo riguardarono come feudali anche i beni liberi della chiesa, ma li invasero, ne disposero come fossero individuali, li dispensarono ai laici li alienarono: le quali usurpazioni furono ampio fomite di discordia fra loro e la chiesa, che con canoni conciliari, pontificie leggi, e pene canoniche guerreggiò un tanto abuso.

I Prelati, cioè quella parte di essi ligia al principe, nella quale l’idea di individualità erasi radicata insieme co’ feudi; operando pure a tenore di questa, disposero in egual modo delle ecclesiastiche proprietà come fosser lor [p. 126 modifica]proprie: dimentichi che eran comuni, le alienarono, le infeudarono, le permutarono, le donarono agli stessi laici, le spesero negli sfarzi, nei lussi, nelle delizie, nelle milizie, nelle violenze: a cui pur s’oppose la chiesa con innumerevoli canoni e decreti, rimanendone così vincolata soprammodo l’alienazione, l’amministrazione, e la disposizione; e rendendosi sempre più slegato da’ suoi prelati il clero inferiore, che la chiesa dovette necessariamente proteggere, contro l’arbitrio e la crudeltà di quelli; con replicate e minute disposizioni: onde la lotta sì spesso accesa anche oggidì fra i capitoli e i Vescovi; e l’inamovibilità de’ parochi, che toglie a’ prelati in gran parte il potere di rimediar prontamente agli scandali ed alle sciagure spirituali delle popolazioni.

148. Ma perocchè il divino fondatore della chiesa non volea che perisse il principio della comunione de’ beni ecclesiastici, non solo rispetto al loro possesso, ma nè anco rispetto alla loro amministrazione ed al loro godimento; perchè egli suscitò in quei tempi e moltiplicò il Monachismo e l’ordine religioso, il qual facesse espressa e pubblica professione d’un principio sì salutare: ed i fedeli guidati da quell’istinto cristiano, che in essi mai non fallisce mostraronsi da quell’ora più propensi a recare le loro oblazioni e i loro doni a quel clero regolare che custodiva severamente la massima antica, anzi che al clero secolare; onde quando dal Concilio iii di Laterano (1179) fu intimata la restituzione delle decime alienate ai laici, questi per la maggior parte le rimisero ai monasteri non più alle chiese a cui erano appartenenti, il che fu in appresso permesso dagli stessi Pontefici, purchè s’aggiungesse l’assenso del vescovo14.

149. Una terza e preziosa massima dell’antichità si era che «il Clero non usasse de’ beni ecclesiastici se non il puro bisognevole al proprio sostentamento, impiegando il di più in opere pie, specialmente in sollievo degl’indigenti.» — Cristo avea fondato l’apostolato sulla povertà e sull’abbandono alla provvidenza che avrebbe mossi i fedeli al sostentamanto de’ loro evangelizzatori. Egli n’avea dato il più sublime esempio: «le volpi, potè egli dire, hanno delle buche, e gli uccelli del Cielo de’ nidi: ma il Figliuolo dell’uomo non ha dove posare il capo (Matt. viii, 20. — Luc. ix, 58.):» tal condizione dichiarava a colui che il volea seguitare. E Pietro avea lasciato fin le povere reti per tener dietro al suo nudo Maestro. Pure il Collegio apostolico aveva una borsa, in cui si riponevano le oblazioni de’ credenti; ma questa al tutto comune, esempio di ciò che dovea fare e fece poi la sua Chiesa. Quando il paralitico chiese elemosina, Pietro potè dirgli: Argentum et aurum non est mihi (Act. iii, 6.). Ma il bisognevole era assicurato agli Apostoli col diritto di vivere in quelle case de’ fedeli che gli accoglievano, ed accogliendoli, assai più che non davano, ricevevano. - L’Apostolo Paolo informava il suo discepolo Timoteo a questa dottrina scrivendogli: «La pietà è gran guadagno col sufficiente. Poichè nulla portammo noi in questo mondo, senza dubbio non possiamo nè portarne via bricciolo. Or avendo gli alimenti, e da ricoprirci, a questo stiamo contenti (I Tim. vi 68.).» Così l’entrare nel Clero, ne’ bei tempi della Chiesa, equivaleva ad una professione di evangelica povertà15. Allora questa parola di Clero secolare non era inventata, e comparve solo in quel decadimento dell’antica disciplina, quando parea che anche il secolo avesse [p. 127 modifica]il suo Clero. Lungo tempo durò la professione della povertà, qual ornamento del sacerdotal ministero, al quale quelli che venivano assunti, lasciavano per lo più il proprio avere, e a’ poveri lo dispensavano; perocchè, come dice Isidoro di Pelusio, tum voluntaria paupertate gloriabuntur (L. v, ep. 21). A uomini così integri e disinteressati veniva poi affidata l’amministrazione e la dispensazione de’ beni della Chiesa; come a depositarii dell’avere degl’indigenti. Giuliano Pomerio, dopo recati in esempio di povertà volontaria i due grandi Vescovi Paolino di Nicola, ed Ilario di Arles, che da doviziosissimi che erano, s’eran fatti poverelli di Cristo, soggiunse: «Di chi si può ben intendere, che uomini tali e tanti (i quali per essere a Cristo discepoli, rinunziarono tutte le cose che avevano) conscii che altro non sono i beni della Chiesa, se non il voto de’ fedeli, le soddisfazioni de’ peccati, e i patrimoni de’ poveri; non li vendicarono già a privati usi, siccome fosser lor proprii, ma come cose loro affidate, a’ poveri li divisero. Ciò che ha la Chiesa, ella lo ha comune con tutti coloro che nulla hanno: e però non dee dar nulla a quelli che hanno già il sufficiente del proprio: poichè dare a quelli che hanno già, geli non è che un gittare»16. Il perchè i chierici prendevano dalla massa comune il bisognevole a vivere, come quelli che si computavano nel numero de’ poveri, a cui quella massa consideravasi appartenere: Così il Vescovo era il primo fra i poveri, e dispensandosi ai poveri quegli averi, era giusto che allo stesso titolo ne dispensasse una parte a sè stesso17, e a’ Cherici inferiori. E questa massima nobilissima tanto era infissa negli animi, che si giudicava non convenevole che, se un Sacerdote ritenesse del suo, vivesse di quel della Chiesa; parendo ch’egli, non più povero, nè manco n’avesse diritto, e sottraesse indebitamente agli altri indigenti il fatto loro. Il che era consentaneo; e sviene replicato dal citato scrittore del secolo v, che fra l’altre cose dice così: «Coloro che, possedono il suo, voglion tuttavia che qualche cosa gli venga dato, non senza lor grande peccato ricevon di quello, di cui doveva vivere il povero. Certo de’ Chierici dice lo Spirito Santo: «Mangiano i peccati del mio popolo.» Or siccome quelli che niente hanno di proprio, non i peccati ricevono, ma gli alimenti di cui mostrano aver bisogno; così i possidenti, non gli alimenti ricevono de’ quali abbondano, ma si assumono gli altrui peccati. E così pure i poveri, se colle loro industrie e fatiche posson camparla, non presumono ricever quello che è dovuto al debile ed all’infermo; acciocchè la Chiesa, se tutti anche per nulla bisognosi ricevan di ciò, di cui ella può ministrare il necessario ai privi d’ogni sollievo, aggravata, non possa poi soccorrere quelli che deve. Ora coloro che servono alla Chiesa troppo carnalmente la pensano, se si avvisano di ricevere stipendî terreni18, e non piuttosto eterni premî. — Che se qualche ministro della Chiesa non ha onde vivere, qui la Chiesa non gli dà mica un premio, ma gli presta il necessario; acciocchè in futuro riceva quel premio del suo travaglio, che già in questa vita, sulla speranza della promessa del Signore, con certezza attende. Ed anche quelli che (possedendo) non domandano gli sia dato alcun che quasi debito, e pure vivono a [p. 128 modifica]spese della Chiesa, non istà a me il definire con qual peccato ricevano, togliendo i cibi de’ poveri; i quali dovendo aiutar la Chiesa della loro facoltà, l’aggravano anzi co’ loro dispendii, quasi vivessero nella Congregazione pel fine di non pascere alcuni poveri, di non albergare gli ospiti, o di non diminuire il proprio censo colle giornaliere spese» (De Vita Contempl. L. ii. c. x.).

150. Gli abusi opposti a questa massima generosa avanti il medio evo non poteano essere che parziali, perocchè erano degli uomini e non dell’ecclesiastica dignità, che per la sua stessa indole li ripudiava; ma come potè più conservarsi in atto la massima stessa, in universale parlando, quando i beni della Chiesa, perdendo la primitiva loro natura, divennero feudali, e gli ecclesiastici più eminenti altrettanti feudatarii? Da quell’ora la dispensazione de’ beni prese un altra legge, un’altra direzione: i beni in vece di scorrere all’ingiù nelle mani del povero, ristagnarono, o rifluirono all’insù nelle mani del signore: l’idea prima si smarrì o almeno si rese in molti inefficace, e sottentrò a quella l’idea della proprietà assoluta: i sacri depositi vennero depredati.

151. Lo sparpagliamento altresì della massa comune in benefizi assegnati ai singoli Chierici, da una parte tolse a’ Chierici, a’ quali il Vescovo dava una quota de’ beni sproporzionata alle loro fatiche ed al loro merito, che avessero uno stimolo anche umano all’adempimento de’ loro sacri doveri, e li disunì dal Vescovo, dal quale, quanto a’ loro proventi, divennero indipendenti19; dall’altra l’esempio luminoso del mantenimento pubblico e ministeriale de’ poveri per man della Chiesa, cessò, e con quel temporale alimento si scemò pure ad essi l’alimento spirituale; chè allora e la Chiesa pigliavasi special cura di quel corpo d’indigenti che considerava per suo, col quale di continuo trattava, e il solo pascerlo a quel modo era già un’istruzione, uno stimolo alla gratitudine che gli facea conoscere, venerare ed amare la Chiesa doppiamente a lui madre. Di qui si dee ripetere la secolarizzazione, per così dire, delle opere di carità. Perocchè al difetto del Clero, venne supplito con istituti di carità separati, ne’ quali di mano in mano prevalsero i laici: di che nell’ordine della provvidenza se n’ebbe il vantaggio che molti cristiani s’infervorarono nell’esercizio di tali opere sante; ma v’ebbe pure lo scapito che non essendo più quelle opere animate dall’ecclesiastico spirito e dall’ecclesiastica sapienza, si umanizzarono, perdettero il divino carattere che le sublimava e le ordinava alla salvezza dell’anime: e quest’è l’antica origine della moderna filantropia: il qual bene perduto, nondimeno si ricupererà allora che il Clero ritorni generoso e magnanimo. Perocchè in quel tempo desiderabile (che sembra però avvicinarsi) non vorranno più i laici dividersi e segregarsi dal clero, da cui divisi, essi perdono ogni intendimento spirituale, e nelle materiali cose isteriliscono; ed allora la cooperazione acquistata dal laicato sarà utilissima e preziosissima, quando laici e chierici, cessata ogni divisione, ritorneranno un solo corpo in Cristo, siccome un solo corpo fanno pure le membra col capo. La divisione adunque de’ benefizî impedì l’afflusso spontaneo de’ beni della Chiesa nelle mani de’ bisognosi: perocchè il dovere dell’elemosina rimase diviso fra beneficiati, non più sopravvegliato da’ Vescovi, e dalla loro sapienza regolato: i poveri cessarono da quell’ora di formare un corpo sacro siccome prima, dato in tutela alle Chiese.

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152. La quarta massima regolatrice de’ beni ecclesiastici, e impeditrice che essi nocessero all’integrità del Clero, si era che «non solo que’ beni dovessero adoperarsi in usi pii e caritatevoli: di più, acciocchè s’allontanasse nella loro dispensazione l’arbitrio e la cupidigia, fossero altresì compartiti ad usi fissi e determinati.» — Tostochè s’aumentarono i beni della Chiesa, e incominciarono a divenir gravi gli abusi, benchè accidentali e parziali; la Chiesa provvidamente accorse, e volle che alle sostanze ecclesiastiche si fissassero usi determinati, onde l’antica quadripartizione di esse: una parte pel Vescovo, un’altra pe’ Chierici inferiori, la terza a’ poveri, la quarta alla fabbrica delle Chiese e al mantenimento del culto. I concilii di Agde del 506, e di Orleans del 511 proscrivono questa divisione, riferendosi a disposizioni ecclesiastiche più antiche. Gregorio Magno la richiama in molte sue lettere20. E certo niente v’avea di più opportuno per rimuovere la corruzione, che addur potevano le ricchezze, di fissarne per via di leggi gli usi precisi ne’ quali dovevano essere dispensate21: perocchè l’abuso è inevitabile, se di una grande quantità di beni rimane l’uso ad arbitrio di colui, al quale è affidata; e la corruzione e rovina anche di molti monasteri a questa causa appunto sembra doversi attribuire, che possedendo enormi ricchezze, non v’avea legge sufficiente che ne determinasse gli scopi principali; onde si spendevano come meglio ne pareva agli Abati od altri superiori, in cui balìa si trovavano.

153. Ma quando entrò il feudalismo nel Santuario, come si potè oggimai più mantenere questa santissima dispensazione? Era nell’interesse del signore, e per dir meglio di quell’aristocrazia violenta a cui si riduce il feudalismo che i beni si accumulassero in mano delle grandi famiglie, in mano di pochi; il potere secolaresco si fondava su questo accumulamento: ripugnava dunque la dispersione de’ beni, l’equa caritatevole e fraterna distribuzione: l’istituzione de’ benefizî divenne necessaria per assicurare il sostentamento alla parte più debole del Clero, la quale sarebbe perita di fame e di miserie, se non si fosse così salvata dall’avidità rapace de’ grandi signori, fra’ quali si computavano i Vescovi. Questi non appartenevano oggimai più alla plebe, come ne’ primi tempi (perocchè gli antichi Vescovi, sebbene di casati talor ricchissimi e nobilissimi, si facevano, pure, coll’esser Vescovi, tutti del popolo, di cui professavano la povertà): appartenevano alla classe degli aristocrati invasori e dominatori. D’allora l’abuso divenne legge: i canoni della Chiesa furono elusi con innumerevoli cavilli di parole22, quando non erano colle violenze e colle aperte infrazioni: la divisione quadripartita, la determinazione delle entrate [p. 130 modifica]ecclesiastiche ad usi fissi fu insopportabile: l’antica massima naufragò nella pratica, e con essa il suo spirito.

154. «Lo spirito di generosità, la facilità in dare; la difficoltà in ricevere» era la quinta massima con cui si riparava la Chiesa dal pericolo delle ricchezze nei secoli anteriori al feudalismo. — Ella teneva altamente scolpita la nobilissima, ed inaudita parola di Cristo: «è meglio il dare che il ricevere (Act, xx, 35.):» questa predicava come una buona novella al mondo schiavo dell’egoismo: questa faceva rilucere in tutti i suoi atti, in tutte le sue operazioni. I Vescovi consideravano siccome un peso molesto i beni temporali e le loro amministrazioni, e lo sopportavano indottivi soltanto dalla carità23: non vi erano ancora leggi che rendessero oltremodo difficile l’alienazione de’ beni ricevuti: si riceveva con gran riserbo, si donava con gran larghezza. S. Ambrogio ricusava le offerte o le eredità, si conosceva poter esse cadere a danno de’ parenti poveri: Non quaerit, scriveva egli, donum Deus de fame parentum, e aggiungeva Misericordia a domestico progredi debet pietatis officio (In. Luc. C. xviii.): il che la Chiesa potea fare allora, quando il suo spirito era libero, non legato da mille vincoli, e specialmente dalla protezione, come la chiamano, dei principi secolari. Perchè un effetto di questa servitù della Chiesa sotto la forza è anche questo appunto, l’esserle impediti tali atti generosi, che sì spesso facevano i suoi Vescovi antichi, e la facevano tanto risplendere. Di Aurelio e di Agostino e dei loro sentimenti in questo argomento ho già toccato. In uno de’ sermoni che il gran Padre d’Ippona tenne al popolo, egli ebbe a difendersi contro la voce che correa: Episcopus Augustinus de bonitate sua donat totum, non suscipit (che bella accusa!) onde era che si lagnava, che per questa generosa larghezza del santissimo Vescovo, niuno donasse più alla Chiesa d’Ippona, niuno la facesse erede. Possidio, nella vita che di lui scrisse, racconta, che restituì una possessione ad uno de’ maggiorenti ipponesi, che, avendola già da più anni donata alla Chiesa con regolare istromento, poscia se n’era pentito e l’avea al buon Vescovo ridomandata pel figlio, e gliela restituì rifiutando anche una somma di danaro che aveagli mandata pe’ poveri, non però senza avvertirlo del suo peccaminoso contegno: siccome pure narra, che accortosi Agostino, come fra il Clero inferiore alcuno invidiava al Vescovo, nelle cui mani erano le facoltà della Chiesa24; egli ne tenne a dirittura ragionamento alla plebe di Dio, colla quale que’ Vescovi ogni cosa comunicavano, esponendo «che egli avrebbe amato di vivere delle collette della plebe di Dio, piuttosto che soffrire la cura e il governo di quelle possessioni; e però che egli era pronto di cederle loro, acciocchè tutti i servi e ministri di Dio vivessero a quel modo, in cui si legge nel Testamento antico, gl’inservienti all’altare, aver di esso altare comparticipato. Ma i laici non vollero mai in ciò consentire25

155. S. Giovanni Grisostomo, parlando al suo popolo, adduce altresì la ragione del perchè la Chiesa non continuò a vivere delle collette accidentali de’ fedeli; ma accettò ben anco donazioni di cose stabili. Dice, che il Clero fu necessitato a ciò fare, non per sè, ma pel bisogno di provvedere a’ miseri, diminuito essendosi ne’ fedeli quel fervore della primitiva carità. «A cagione della vostra strettezza di mano, egli disse, ha la Chiesa bisogno di aver quello [p. 131 modifica]che ora si ha. Poichè se tutto si facesse in modo conforme alle leggi apostoliche il provento di lei dovrebbe essere l’animo vostro, il quale certo sarebbe e una sicura dispensa, ed un tesoro non consumabile. Ma or che voi tesoreggiate sopra la terra, e tutto chiudete ne’ vostri ripostigli, ed essa, la Chiesa, ha uopo di spendere e pe’ ceti delle vedove, e pe’ cori delle vergini, e per le venute degli ospiti, e per le afflizioni di quelli che debbono viaggiare lontano, e per le calamità di coloro che sono nei ferri, e per le indigenze di altri che sono manchi e mutilati, e per altre cause ancora di tal fatta; che si può egli mai fare? (Hom. xi, in Ep. ad Cor.)»

156. Ora chi mai non deplorerà tanto cangiamento sopravvenuto ne’ secoli di rovine e di barbarie che succedettero nella Chiesa, pel quale un Clero di così alti spiriti fornito, di tanta elevatezza, liberalità e carità, giunse, al tutto diverso da sè medesimo e dalla sua propria natura, a meritare di venire stimmatizzato col verso

«In cui usa avarizia il suo soperchio!»

Se ne considerino le due cause, l’una degli atti de’ principi barbari, l’altra di quelle disposizioni che fu costretta di fare la Chiesa a propria difesa, per evitare un male maggiore.

157. Avendo il feudalismo, come vedemmo, fatto cangiar natura a’ beni ecclesiastici, e venendo questi frequentemente alienati, e concessi ai laici da’ principi, e dagli stessi Prelati feudatari; la Chiesa dovette opporsi all’abuso colle sue leggi; e quindi cominciò la legislazione a prendere una tendenza tutta opposta alla massima antica, cioè ella fu volta da quell’ora «a facilitare alla Chiesa il più possibile l’acquisto e la conservazione de’ beni temporali, e a difficultarne il più possibile l’alienazione.» I legislatori sogliono accorrere colle loro disposizioni là dove l’abuso è maggiore, e nel caso nostro egli era estremo; ma ben sovente egli accade che tutto intesi a impedire l’abuso, essi facciano anche più che non bisogni; ovvero trasandino di considerare altri inconvenienti che nascono da quella stessa legislazione, altri beni che rimangono per essa impediti collo scemamento soverchio della libertà, e cosi leghino insieme coll’abuso anche l’ottimo uso; o finalmente accade ancora che quella legislazione, che avea per suo legittimo intento di sterminare l’abuso, sopravviva all’abuso già vinto, trovandosi quindi appresso l’umanità avvincolata e costretta da leggi prive di quella ragione, che quando vennero emanate le giustificava. Nel caso nostro egli era un gran male certamente, che gli ecclesiastici beni fossero frodati della loro destinazione, passassero in usi profani, si dessero a mercede di servigi e di ufficî secolareschi, tradite così le pie intenzioni degli oblatori; ma egli era pure un grande e sommo bene, che i Vescovi, col consiglio del loro Clero, potessero rinunziare opportunamente le donazioni, le eredità che alla Chiesa offerivansi, potessero vendere le possessioni e distribuirle, senza troppe difficoltà e formalità, a tutti quelli che ne abbisognassero, venendo così la Chiesa in aiuto di tutti i mali di cui è aggravata l’umanità. La Chiesa è già ricca abbastanza, s’ella ha un tesoro di carità, e un esercizio amplissimo di beneficenza: la Chiesa è abbastanza felice se può dire con S. Ambrogio: Aurum Ecclesia habet, non ut servet, sed ut eroget, et subveniat in necessitatibus26. Ora qual senso doloroso, qual danno agli stessi ben intesi interessi della Chiesa, quale scandalo non è il pensiero, l’opinione prevalente, che il Clero abbia le mani sempre aperte a ricevere, e sempre chiuse [p. 132 modifica]a dare? Certo la considerazione che tutto ciò che entra nell’arca della Chiesa, non ne esce forse più in perpetuo, ella è cosa che rattrista, che genera la disistima, suscita l’invidia, estingue la liberalità de’ fedeli, produce la sospicione che vi si accumulino col proceder de’ secoli que’ tesori di cui abbisognano le famiglie per vivere, il commercio per fiorire, lo stato per difendersi: presta un appicco a’ governi per intervenire nelle disposizioni degli ecclesiastici beni, detta loro le leggi disonerevoli di ammortizzazione, disamora e disunisce sempre più il popolo dal Clero e dalla Chiesa; occasiona l’incredulità, provoca le maldicenze e le calunnie degli empî, e finalmente arma il furore della moltitudine sommossa dai tristi, o la cupidigia de’ potenti a rompere violentemente l’arca serrata per farne uscir l’oro, ad atterrare le porte chiavate del santuario per rapirne i tesori. Per me stimo assai più desiderabile, assai più utile alla Chiesa di Dio il non dare punto cagione a tutti questi mali, che non sia l’abbandonare di temporali dovizie, o l’impedire che qualche parte di essa venga, foss’anco inconsideratamente, alienata.

158. Le ammonizioni, i canoni, le pene della Chiesa giunsero poco a poco ad ammansare i barbari conquistatori, e ad impedire che dissipassero a lor talento il patrimonio ecclesiastico. Ma è da avvertire che il secolare potere non nocque solo colla violenza, e colle depredazioni: nocque assai più colle sue stesse liberalità, nocque colle leggi civili dettate in ispirito secolaresco e profano a tutela e protezion della Chiesa e de’ suoi beni. Il governo civile non ha il senso ecclesiastico, ed ogni qualvolta mette mano al santuario, ne raffredda e spegne col suo tocco lo spirito. Carlo Magno e Ottone i favorirono la Chiesa: e pure l’infelice regalo de’ feudi (al quale non erano già unicamente mossi dalla divozione alla Chiesa, ma da quella politica che voleva ad un tempo scemar la potenza de’ nobili e assudditarsi quella de’ Vescovi) fu pur l’amo fatale, al quale il Clero fu preso. Da quell’ora il potere secolare s’ingerì sempre nella Chiesa; e le sue grazie, le sua carezze finirono col toglierle la libertà, che è l’aria di cui ella vive. Che può il governo temporale, se non aiutare la Chiesa colla forza bruta, unico mezzo suo naturale d’operazione? E bene, la forza è appunto d’un indole direttamente opposta allo spirito della Chiesa: la Chiesa effigiata con in mano le catene, i fasci, le scuri qual personaggio non rende? Inorridisce la vista. Qual maschera crudele! Ella ributta non solo i cattivi, gli stessi buoni. Il temporale potere oltracciò nè conosce, nè serba i limiti della sua protezione: avvezzo al comando, comanda fin dove può: inetto a conoscere il vero ben della Chiesa, pretende esserne giudice, e ripone questo bene unicamente nel vantaggiarla negli ordini della terra: tratta l’amministrazione de’ beni di lei, come fa de’ suoi proprî disconoscendo che quelli sono di tutt’altro genere: ne accumula il più che può, permette che ne sieno spesi il meno che può: arricchisce la Chiesa, se fa bisogno, anche di privilegi e d’immunità, di una protezione esagerata ed eccezionale, talora contro giustizia, riuscendo opposta all’uguaglianza civile, e sempre poi odiosa al popolo che non ne partecipa27. Così la massima della facilità in dare, e [p. 133 modifica]della difficoltà in ricevere, che è connaturale alla Chiesa, diventa ad essa impossibile a praticarsi, quando i suoi beni non sono più liberi in sue mani, ma servi del laicale potere.

159. Nè solo in questo la Chiesa si mostrava d’indole eccelsa, ma ben anco «in amare che la dispensazione de’ suoi beni apparisse agli occhi del pubblico,» che è la sesta massima che ella poneva in atto ne’ primi tempi. — Abbiam veduto che gli antichi Vescovi conferivano ogni cosa col loro popolo, e col loro Clero, questo facevano anche per ciò che riguardava i beni temporali. Oltracciò, i Sacerdoti e Diaconi che gli amministravano doveano avere il suffragio della plebe cristiana, secondo la tradizione apostolica28: esser persone a lei note, di piena sua confidenza. Con che delicato riserbo non propone San Paolo a que’ di Corinto ch’essi stessi eleggano quelli che dovessero portare le loro elemosine ai cristiani bisognosi di Gerusalemme! «Ogni domenica ciascuno metta da parte quello che stima, acciocchè quand’io sarò venuto non si facciano le collette. E quando sarò presente, allora manderò quelli che voi avrete stimati degni con lettere, a portare le vostre grazie a Gerusalemme. E se sarà conveniente che vada anch’io, verranno meco (I Cor. xvi. 24)». Egli era Vescovo e Apostolo; aveva tutto il potere: tuttavia non vuole egli stesso eleggere i portatori di quelle elemosine, ne lascia al popolo la scelta; omnia mihi licent, sed non omnia expediunt (Ibid. vi. 12). Avrebbero forse dubitato della fedeltà dell’Apostolo? No; ma non basta: in punto di temporali interessi, l’uomo santo s’astiene il più che può dall’ingerirsene: riserba il suo potere apostolico per le sole cose necessarie, del resto lascia libera la plebe: è naturale e giusta soddisfazione a questa, che possa fare anch’essa alcuna cosa, che vegga co’ suoi occhi, che adoperi il suo giudizio, che s’interessi nel bene, vi ponga la mano ella stessa. Così S. Giovanni Grisostomo non temeva di offerirsi al suo popolo, di rendergli ragione dell’uso che faceva de’ redditi della Chiesa: Sumus etiam parati vobis reddere rationem (in Ep. [p. 134 modifica]ad Cor. Hom. xxi.): e allo stesso modo, nello stesso spirito, procedevano tutti gli antichi Vescovi.

160. Certo, che l’uso de’ beni della Chiesa sia fatto a dovere non basta che se ne renda conto a’ soli governi nè pur è sufficiente alla soddisfazione del popolo cristiano che offerisce il fatto suo piamente alla Chiesa. Laonde, sarebbe alla Chiesa d’incredibile giovamento in prima, che a tutti i beni posseduti da lei, specialmente dagli Ordini religiosi, fossero, con sapienti leggi, della Chiesa medesima, determinati colla maggior precisione possibile gli usi: a ciascun uso assegnata una congrua porzione: nè manchevole nè soverchia: si pubblicasse di poi un annuale rendiconto, sicchè apparisse a tutto il mondo il ricevuto e lo speso in quegli usi con una estrema chiarezza, sicchè l’opinione dei fedeli di Dio potesse apporre una sanzione di pubblica stima o di biasimo all’impiego di tali rendite, e così ne sarebbero anche i governi informati, senza bisogno di altro. No, per fermo, non conviene, non è espediente che la giustizia e la carità, secondo la quale opera la Chiesa nell’amministrazione economica de’ suoi beni temporali di qualunque specie, si resti sotto il moggio nascosta, anzi egli è più che mai desiderabile che risplenda siccome ardente face sul candeliere. Oh quanto ciò non concilierebbe a lei gli animi de’ fedeli! Che istruzione, che esempio non potrebbe dar ella all’universo intero! E solamente allora la debolezza de’ suoi ministri sostenuta dal giudizio pubblico si terrebbe lontana dal cedere all’umana tentazione. Perocchè l’uomo quando non può peccare di nascosto, non pecca, od almeno non pecca a lungo. La quale felice necessità di dar conto di sè al pubblico de’ fedeli anzi alla società degli uomini, risveglierebbe le coscienze di molti, sonnacchiose per mancamento di stimoli sufficienti, e farebbe sentire il bisogno che i posti ecclesiastici non fossero occupati se non da valentuomini forniti di una perfetta e patente rettitudine, e d’una vera pietà.

161. Finalmente accennerà una settima ed ultima massima: che «i beni della Chiesa vengano da lei stessa amministrati con ogni vigilanza e diligenza.» — Questo ha sempre raccomandato la Chiesa a quelli a cui ne affidò l’amministrazione, dichiarando quelle sostanze esser di Dio, e de’ poveri, e di avervi un cotal sacrilegio, se per incuria e pigrizia de’ procuratori qualche parte se ne perdesse: ed è egli di tanto maggior momento questa massima, che trascurata, diede maggior appiglio a’ governi di mettervi la mano e far tutto essi, onde la servitù della Chiesa e dei suoi beni si perpetua.

162. Vero è che la Chiesa ora perseguitata, ora oppressa, sempre lottante col poter temporale amico e nemico, e oltracciò sempre intesa a cure troppo più gravi del ben delle anime, non ebbe mai tempo bastevole a ridurre l’amministrazione de’ suoi beni perfetta, a stabilir un sistema economico da tutte parti bene organato e difeso. Che se si considera quanto ha ricevuto la Chiesa ne’ vari secoli della sua vita, e quant’ella ha perduto per difetto di questa vigilante ed industre amministrazione economica; egli è impossibile a dire, che cosa ora serebbe la Chiesa, se i suoi beni temporali fossero stati sempre dai suoi ministri sapientemente amministrati. Ma la forza dello spirito umano è limitata, ed ella non arriva mai a compiere due imprese diverse ad un tempo, sebbene legate fra loro: lo scopo spirituale della Chiesa doveva necessariamente assorbirne tutta, per poco, l’attenzione, e non poteva contemporaneamente esser guari sollecita del buono andamento della parte materiale, fino a tanto che la sua legislazione disciplinare più importante (quella che riguarda direttamente la salute delle anime) non fosse stata prima a pieno stabilita, e che l’esperienza non avesse dimostrato il danno incalcolabile che dal negligere la parte materiale ridondava alla stessa parte spirituale. Or che a principio ciò non fosse possibile, nè pure fosse espediente, ma ne persuade l’esempio di [p. 135 modifica]Cristo, che si contentò d’avere un amministratore infedele fra’ suoi stessi Apostoli, acciocchè, parmi servisse di documento che niente dovea distrarli dallo spirituale regime nè pure il pericolo di temporali detrimenti. E qui farò fine concludendo che da quanto fu ragionato risulta ad evidenza, che allorquando Pasquale ii ebbe fatto la magnanima proposta di rinunziar ai feudi, il grand’uomo avea posto la scure alla radice della mala pianta, ma l’età avea una complessione troppo stemperata per sostenere un tanto rimedio.

163. Quest’opera, incominciata nell’anno 1832 e compita nel seguente, dormiva nello studiolo dell’autore affatto dimentica, non parendo i tempi propizii a pubblicar quello ch’egli avea scritto più per alleviamento dell’animo suo afflitto del grave stato in cui vedeva la Chiesa di Dio, che non per altra cagione. Ma ora (1846) che il Capo invisibile della Chiesa collocò sulla sedia di Pietro un Pontefice che par destinato a rinnovare l’età nostra e a dare alla Chiesa quel novello impulso che dee spingere per nuove vie ad un corso quanto impreveduto altrettanto maraviglioso e glorioso; si ricorda l’autore di queste carte abbandonate, nè dubita più di affidarle alle mani di quegli amici che con esso lui dividevano in passato il dolore ed al presente le più liete speranze.



FINE.


Note

  1. Modicam unusquisque stipem menstrua die, vel cum velit, et si modo possit, opponit: nam nemo compellitur, sed sponte confert. Haec quasi deposita pietatis sunt. Apol. C. xxxix.
  2. Irenaeus L. iv, C. xxxiv. — Origenes Hom. in xi Num. — Il passo di S. Cipriano De unitate Ecclesiae C. v, dove dice: At nunc de patrimonio nec decimas damus, pare doversi prendere come un rimprovero a quelli che per men di fervore, non le pagavano.
  3. Così si fece nel Concilio ii di Macon dell’anno 585.
  4. «Il colonato non poteva chiamarsi pei coloni una proprietà; poichè i coloni, o servi della gleba chiamavansi appunto mani morte, perchè nulla potevano avere in proprio.» Cibrario, Dell’Economia del medio Evo. L. iii, C.iii.
  5. Gratianus, Caus. xii. C. xxiiinec cuiquam Clerico pro portione sua aliquid solum Ecclesiae putetis deputandum, ne per incuriam et negligentiam minuatur: sed omnis pensionis summam ex omnibus praediis rusticis urbanisque collectam ad Antistitem deferatis.
  6. L. Valentiniani 20. De Episcopis et Clericis Lib. xvi. Cod. Teod. Tit. 2 ad S. Damasum R. P.
  7. Ep. ad Nepotianum. — S. Ambrogio del pari facendo menzione di questa legge di Valentiniano dice: Quod ego non ut querar, sed ut sciant quid non querar, comprehendi, malo enim nos pecunia minores esse, quam gratia. A cui poco appresso aggiunge altresì: «La possessione della Chiesa è lo spendio de’ poveri. Numerino quanti captivi abbian le Chiese redenti, quanti alimenti agl’indigenti dati, quanti sussidii al vitto degli esuli somministrati.» Epp. Ci. I, ep. xvii.
  8. Etenim ea aetate, dice il Berardi, parlando di questo appunto, quotiescumque negotium ecclesiasticum peragendum erat, Episcopus Cleri consilium, convocata Synodo, expetebat. Gratiani Canones etc. De Gelasio C. xlvi.
  9. Postea vero primum factum, ut Presbyteris ruralibus, quos Parochos appellabant, bonorum administrationem concederent, eorumdemque exemplo Presbyteris illis, qui in Civitatibus titulos, sive Ecclesias tegere dicebantur. Id etiam totum constat ex Concilio Aguthensi, cui praefuit idem Caesarius anno 506, praesertim vero Can. 32, et 33 Can. 12, q. 2. Berardi, Ibid. De Symmacho, cap. xlviii.
  10. Osserva un autore recente che il godimento d’una porzione di beni a’ singoli non si faceva a principio, se non dove mancavano le congregazioni de’ preti, car dans celle-ci, dice, la vie commune maintint encore quelque tems l’ancien ètat de choses, Walter, Manuel de Droit Ecclésiastique § 241.
  11. Gioverà ripor qui sotto gli occhi del lettore questo stesso concetto espresso colle parole d’uno scrittore del v secolo, Giuliano Pomerio: Nunc autem, dice, quod Christiani temporis Sacerdotes magis sustinent quam curant possessiones Ecclesiae, etiam in hoc, Deo serviunt: quia si Dei sunt ea quae conferuntur Ecclesiae, dei opus agit, qui res Deo consecratas, non alicujus cupiditatis, sed fidelissimae dispensationis intentione non deserit. Quapropter possessiones quas oblatas a populo suscipiunt Sacerdotes, non sunt inter res mundi deputari credendae, sed dei. De vita Contemplativa L. ii, C. xi.
  12. Labora sicut bonus miles Christi iesu. Nemo militans Deo implicat se negotiis saecularibus. ii Timot. 3, 4.
  13. Noi abbiam detto che la conciliazione delle due idee l’una di individualità propria dell’impero barbarico, e l’altra di unione organica propria della Chiesa sono di natura loro inconciliabili, e che la loro momentanea pace e fusione non è che apparente: la prima idea molte volte prevalse da parere ch’essa dovesse annientare la sua contraria; ma la Chiesa in tali frangenti coo una possanza tutta nuova, la ristabilisce e restaura. Or prediremo adunque che non vi avrà pace giammai fra le due potestà, la temporale, e la spirituale? Lungi da noi sì funesto presentimento; la pace può aversi, e si avrà, ma però ad una condizione, che la potestà temporale cacci intieramente da sè l’idea della individualità, reliquia del barbarismo violento e del feudalismo, e si riedifichi sopra l’idea propria della Chiesa, che non può perire, cioè nell’idea della unità organica e cristiana degli uomini. Questa è la sola conciliazione possibile, non delle due idee che non possono conciliarsi; ma dei due ordini il temporale e lo spirituale che ammettono benissimo conciliazione. Così i temporali reggimenti da signorie si debbon cangiare intieramente in società civili. Dopo una lotta d’oltre un millenio, non vediamo noi che già s’avvicina, è già cominciato questo desiderabile cangiamento? Tutta la società d’Europa travaglia in su tal parte. L’espulsione dell’idea civile, che turba il riposo del mondo, è la grand’opera che la provvidenza preparò con tante pugne intestine dell’umanità, che presero forma e apparenza principalmente di conflitto fra la potestà laicale e l’ecclesiastica (benchè non sia tale) durate tanti secoli, ed ardenti tuttavia sotto le ceneri finchè l’opera sia perfezionata e compiuta.
  14. Decr. Greg. L. iii, Tit. x, c. vii; L. v Tit. xxxiii, c. iii; e in vi, L. iii, Tit. xiii, c. ii, § 2.
  15. L’abbiamo espressamente da Giuliano Pomerio che scrive: Itaque Sacerdos, cui dispensationis cura commissa est, non solum sine cupiditate, sed etiam cum laude pietatis, accipit a populo dispensanda et fideliter dispensat accepta; qui omnia sua, aut pauperibus distribuit, aut ecclesiae rebus adjungit, et se in numero pauperum, paupertatis amore, constituit: ita ut unde pauperibus subministrat, inde et ipse tanquam pauper voluntarius vivat. De vita contemplativa L. ii, c. xi.
  16. De Vita Contemplativa L. ii, c. ix, dove merita segnatamente d’essere osservata quella sentenza: Quod habet Ecclesia cum omnibus habet commune, come quella che dimostra l’opinione che allora s’avea dell’essere i beni della Chiesa non d’uso individuale, ma comune.
  17. Questa massima è anche registrata nel decreto di Graziano. Can. xii. Q. ii, cap. xxii, dove si riporta uno de’ canoni apostolici, che dice: De his autem, quibus Episcopus indiget (si tamen indiget) ad suas necessitates et peregrinorum fratrum usus et ipse precipiat, ut nihil ei possit omnino deesse.
  18. E però quanto meno benefizi, parola che rammenta un dono che fa il Signore a chi vuole, del suo?
  19. Questo si rileva da S. Cipriano, che a’ lettori Celerino ed Aurelio attribuisce la stessa porzione che davasi a’ Sacerdoti ut et sportulis eisdem cum presbyteris honorentur (Ep. xxxiii), e da S. Gregorio M. in diverse delle sue lettere, in una delle quali scrive ad un Vescovo: De redditibus Ecclesiae, quantum in integro portionem Ecclesiae tuae Clericis, secundum meritum vel officium, sive laborem suum, ut ipse unicuique dandum perspexeris, sine aliqua praebere debeas tarditate. L. xi, ep. li.
  20. L. I, ep. lxiv; L. ii, ep. v; L. iii, ep. xi; L. iv, ep. xxvi; L. vii, ep. viii. L. xi, ep. li. — Nella Spagna la porzione de’ poveri lasciavasi unita a quelle del Vescovo e del Clero inferiore, e così i beni ecclesiastici restavano tripartiti.
  21. Egli par cosa probabile, che non sempre la quadruplice partizione si dovesse intendere di parti uguali, ma la misura delle singole parti variasse, secondo i bisogni. Il che osserva Carlo Sebastiano Berardi, nella sua opera sopra il Decreto di Graziano, dove, riferito un canone di Gelasio Papa, soggiunge: In quo sane illud observandum est, quadripartitam illam ecclesiasticorum redituum distributionem non adeo rigide esse intelligendum, ut ad proportionem quandam, ut vocant, geometricam, non ad arithmeticam rationem exigatur. Gratiani Canones etc. P. ii. C. xlix: De Gelasio.
  22. Fra le più deplorabili illusioni di parole, o per dir meglio, vere menzogne, debbonsi enumerare le commende. Per eludere la legge che vietava l’accumulamento in una sola persona di più benefizî, si davano a commenda, cioè gliene si affidava e raccomandava l’amministrazione. Questa amministrazione de’ beni ecclesiastici fin anco de’ monasteri e de’ Vescovati, concedevasi anche a persone laicali, che così ne godevano a man salva i frutti: come chi dicesse, dandosi una pecora al lupo, che ciò si fa per raccomandarla alla sua diligenza! Tutta la giurisprudenza fu pervertita da somiglianti nequitosissime menzogne.
  23. «Mi è Iddio testimonio, scrive S. Agostino nella lett. cxxvi, che tutta la procurazione di tutte queste cose ecclesiastiche, di cui si crede che noi abbiamo la signoria, è tollerata non amata da me, per la servitù, che io debbo alla carità de’ fratelli e al timor di Dio: di maniera che se io potessi farne senza, salvo il mio ufficio, lo bramerei».
  24. L’umanità si trova sempre in tutti i tempi difettosa; ma ciò che noi vogliamo distinguere è l’errore parziale ed eccezionale da quello che è passato in consuetudine universale, guastando per poco lo stesso corpo sociale, ed abolendo le massime su cui si regge.
  25. Sed nunquam id laici suscipere voluerunt. Possid. In vita August.
  26. Sono registrate nel Corpo del Giure Canonico le magnifiche dottrine di S. Ambrogio e degli altri Padri intorno allo spirito di liberalità della Chiesa sempre pronta a spezzare i vasi sacri per soccorrere i vasi viventi redenti col sangue di Cristo. Si veda Graziano Caus. xii, Quaest. C. ii, lxx e lxxi.
  27. L’immunità delle imposte dee considerarsi secondo due periodi diversi degli Stati. Perocchè tutti i moderni Stati d’Europa dal tempo della loro fondazione al nostro mutarono affatto di natura. Nel primo periodo erano Signorie: in questo periodo ciò che contribuivano i sudditi era cosa privata del principe che signoreggiava, e faceva andare lo Stato per suo conto: quindi rimettendo i pubblici carichi a chi voleva, egli donava del suo: così n’andarono esenti i nobili e gli ecclesiastici. Ma gli Stati Europei si cangiarono lentamente, per un segreto lavoro del Cristianesimo e principalmente per l’influenza de’ Padri, in vere Società civili. Qui comincia la quistione: in una società civile è egli secondo l’equità che i beni della Chiesa vadano immuni dalle pubbliche gravezze? A cui si dovrebbe rispondere che nell’ipotesi che questi beni non eccedessero il bisognevole al mantenimento del Clero, o il di più si desse a’ poveri, non sarebbe contro l’equità un tal favore; ma trattandosi di beni eccedenti tali bisogni, ovvero non applicandosi più all’opere antiche della beneficenza, egli è ragione che paghino come tutti gli altri; e ad ogni modo questo è il partito più decoroso, e più utile per la stessa Chiesa.

    A render valide le alienazioni de’ beni ecclesiastici si moltiplicarono le formalità, sopra quelle richieste a convalidare le alienazioni de’ beni privati; e fra l’altre disposizioni si prolungarono gli anni della prescrizione: all’opposto alla validità d’un testamento in favore della Chiesa si diminuirono le formalità richieste per tutti gli altri testamenti: fu egli giusto? Considerate queste disposizioni come armi di difesa contro le frodi che abbondavano a usurpare quel della Chiesa assai più a usurpare quel de’ poveri, esse non si possono riprendere. Considerate sotto un altro aspetto, alcune di tali disposizioni meritano altresì lode di giustizia, in quanto cioè emendavano le leggi civili, e preparavano la via a leggi più eque, di cui avrebbero un tempo goduto egualmente tutti i cittadini. Così le formalità richieste dalle leggi romane per validità di un testamento erano, o certo eran divenute, eccessive. La Chiesa se ne richiamò per conto delle sostanze ecclesiastiche, e così mostrò la via alla riforma della legislazione in tal punto, e accrebbe con ciò la libertà di testare a tutti. Or poi, corretta la legislazione, egli è desiderabile che la Chiesa fra le nazioni incivilite non sia favorita d’alcun privilegio che migliori la sua condizione nell’ordine temporale; bastandole che le si lasci quel privilegio, o per meglio dire quel diritto sacro e inviolabile ch’ella si ha per natura, la libertà, la piena libertà non solo di ricevere e di amministrare da sè quanto spontaneamente le offeriscono o le hanno già offerto i fedeli, ma altresì di dare, di largheggiare secondo quello spirito di carità che l’anima e la informa.

  28. Si consideri l’elezione de’ primi Diaconi. Gli Apostoli convocano la moltitudine de’ discepoli, e la parlan così: Considerate ergo, fratres, viros ex vobis boni testimonii septem, plenos Spiritu Sancto et sapientia, quos constituamus super hoc opus (Act, vi, 2). Lasciano che la moltitudine gli sciolga, secondo il suo buon giudizio (Considerate ergo fratres.): a sè stessi non riserbano che la conferma e l’ordinazione. Era un usare il meno possibile della pienezza della potestà che avean da Cristo. Qual divina prudenza! Tale dovrebbe esser la norma di tutti i Prelati.